Mentre si discuteva animatamente, nel corso di una riunione, di quale potesse essere il significato politico (dal punto di vista di uno sciame precario), qui e ora, dei tre quesiti referendari depositati dalla CGIL in tema di lavoro, mi è tornato in mente per fili di pensiero il ritornello degli Abba (Take a chance on me), così allegro, ironico, disincantato e al tempo stesso aperto alla speranza.

Sia subito ben chiaro, nessuna fiducia nelle istituzioni e soprattutto nessuna resa. But I think you know that I can’t let go.  Torniamo al  referendum, il meccanismo è avviato e l’accaduto merita una riflessione, senza sciocchi pregiudizi, determinati piuttosto a comprendere se questa sia o meno un’occasione.

Dopo il patetico (inevitabilmente fallito) tentativo di un uomo inutile come Giuseppe (Pippo) Civati, Maurizio Landini ha valutato con ben diversa concretezza che cosa comportasse per Fiom assumere da sola l’impegno di raccolta delle firme necessarie ad avviare il complesso procedimento che conduce alla consultazione popolare; sottraendosi alla vocazione inguaribilmente minoritaria che caratterizza la gran parte della multiforme coalizione dei suoi sostenitori, Landini è andato (come dicono nella bassa emiliana) al sodo ovvero ha contato freddamente le forze disponibili. E si è poi dedicato, con pazienza, a ricucire i rapporti interni alla struttura confederale, al fine di rendere il progetto di referendum praticabile. La Fiom dispone di ampia visibilità mediatica, è ancora la maggior organizzazione dei metalmeccanici; ma non ha più la forza di un tempo. I suoi delegati in azienda si prestano (per debolezza o per opportunismo non importa: poco cambia) a troppi compromessi, e di conseguenza non godono più di un davvero vasto consenso, sono anzi guardati dai lavoratori con un certo sospetto o, peggio, con timore quasi reverenziale. E, in questo quadro poco allegro, non costituiscono certo un (potenziale) rimedio (una stampella rassicurante) i resti del sindacalismo di base, più incline ormai a rissose scissioni che a significative mobilitazioni. Ben otto decreti attuativi della legge delega chiamata Jobs Act  sono stati approvati senza alcuna reazione, con la piena vittoria delle larghe intese.

Il governo Renzi si è sbarazzato della concertazione, ormai inutile nell’ingranaggio costruito per far funzionare la catena europea di comando dopo l’inizio della crisi finanziaria. Il cambio di passo ha determinato la sostanziale emarginazione delle tre grandi confederazioni, cui veniva lasciata, come unica possibile opzione, quella di accettare una consistente riduzione delle entrate provenienti dall’apparato pubblico (permessi retribuiti, distacchi, contributi, corsi di formazione, locazioni agevolate), previa adesione (con supporto operativo) alle decisioni imposte dalla troika.

La CGIL non è stata lesta a salire sul carro del vincitore e ha posto invece condizioni ritenute inaccettabili dai nuovi dirigenti del PD; poi non si è sottratta allo scontro, convinta di poter contare sulla vecchia nomenklatura per costringere Matteo Renzi a più miti consigli, di fronte allo spettro della crisi e di nuove elezioni. I vecchi funzionari, impigriti dall’abitudine a ritenersi indispensabili, hanno sottovalutato questo etrusco barbaro (nel senso originario: diverso da loro, per lingua e per cultura, per storia e per obiettivi). Errore! L’intera truppa parlamentare sulla quale ingenuamente confidavano ha ceduto di schianto, votando sempre e comunque la fiducia ad ogni passaggio importante; e si è trascinata rapidamente dietro la variopinta congrega dei potentati locali, i cui rappresentanti mostravano maggiore interesse per le tangenti e per il mantenimento del posto negli enti pubblici che per le sorti di un sindacato che anche per loro costituiva una spesa non compensata da vantaggi soddisfacenti. Molti parlamentari di SEL hanno capito in fretta come si mettevano le cose e, guidati da un Migliore di seconda generazione (nella sinistra italiana il primo migliore rimane per antonomasia Palmiro Togliatti), hanno raggiunto la maggioranza, agitando durante il percorso l’avambraccio nella direzione di Susanna Camusso.

Quel che era accaduto a Maurizio Landini, durante lo scontro durissimo aperto, per conto della Fiat, da Marchionne (lui davvero sostenuto dal partito democratico, insieme a Cisl e Uil) ora si è ripetuto nei confronti dell’intera confederazione di radice socialcomunista, incapace di reagire di fronte alle spregiudicate aggressioni del nuovo primo ministro in carica. La CGIL aveva tentato di ricucire l’unità sindacale, di sedare le proteste interne e di riaccreditarsi presso i centri di potere (per esempio firmando, incautamente, senza condizioni, lo scandaloso accordo per l’ingaggio dei precari durante Expo); ma il progetto, tardivo nell’esecuzione e confuso nell’elaborazione, si è in breve volgere di tempo rivelato un disastro. Cisl e Uil non sono disposte, dentro una crisi di sovvenzioni, a dividere i premi del cedimento con l’antica alleata; soprattutto (e la spaccatura di Confindustria in occasione della nomina di Vincenzo Boccia lo conferma) la scelta irreversibile del capitale è quella di esercitare il comando diretto senza mediazioni rappresentative, abbattendo il simbolo stesso di una potenziale contrattazione collettiva. Per quanto indebolito, disponibile, fragile, condizionato il sindacato deve apparire sconfitto e non solo essere disinnescato come antagonista.

L’istituzionalizzazione, legificata per decreto, della condizione precaria non consente alcuno spazio alla riunificazione, alla solidarietà, al mutuo soccorso fra oppressi; ogni soggetto è tenuto ad accettare il rapporto individuale (isolato) e il confronto con la sola unità consentita, quella dell’impresa finanziarizzata. Susanna Camuso si è resa conto di essere assai vicina alla sconfitta, non in singola battaglia ma nella guerra, con avversari interni pronti a farla fuori e a saltare sul carro del vincitore.

Landini ha offerto alla Cgil una via possibile d’uscita, garantendo la mediazione fra la rumorosa (ma debole) minoranza radicale e l’apparato. E, per contropartita, ha dovuto cedere la direzione della battaglia referendaria ai vertici della confederazione, riportando la Fiom nei ranghi.

Non ci sono dubbi. Il progetto vero di Susanna Camuso è quello di riprendersi il posto al tavolo della concertazione; per questo ai tre quesiti ha affiancato (mettendola al centro della campagna) una proposta di legge, una Carta dei diritti. La differenza fra i due strumenti non è di poco conto: il referendum abrogativo si pone in aperto conflitto con le Camere, sostituendosi ad esse con un voto popolare; la proposta di legge (anche se elaborata e promossa nella cosiddetta società civile) passa necessariamente per l’aula parlamentare, per le commissioni, per le tradizionali mediazioni. Intendiamoci. Non ha alcun senso polemizzare con il contenuto (certamente migliorativo rispetto ad oggi) della Carta dei diritti; il problema non sta nelle singole norme contenute in questa sorta di nuovo Statuto, posto che comunque esse mai  saranno approvate per come costruite dai loro autori. La divergenza sta nella strategia scelta affiancando i due strumenti; e questa è una sfida che bisogna avere il coraggio politico di accettare.

Presumibilmente Maurizio Landini ha messo in conto che potrebbe intervenire in corso d’opera un accordo fra le componenti delle larghe intese e l’attuale direzione della Cgil; il nocciolo di un simile compromesso altro non potrebbe essere se non l’incondizionata accettazione della linea tracciata dalla Banca Centrale, ma secondo un percorso condiviso per evitare conflitto sociale, una sorta di soluzione al meno peggio che garantisca alcuni privilegi (magari non tutti) agli ascari arruolati nelle file del potere finanziario. Spera che, sollevato il polverone, si possa restaurare una qualche forma di welfare modificando l’equilibrio in favore della parte debole.

Bisogna riconoscere allo zoccolo duro della Cgil concretezza e serietà. Prima di dare il via all’operazione si sono pronunciati circa un milione e mezzo di iscritti; le firme necessarie sono molte meno, cinquecentomila. Non è per nulla scontato che le adesioni diventino firme autenticate ma il dato supera di gran lunga i numeri cui siamo abituati. Il 23 marzo i quesiti sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale, entro il 30 giugno vanno depositate le adesioni raccolte. Non è un tempo lunghissimo, ma il risultato è davvero a portata di mano.

 I tre quesiti (qui il documento quesiti referendari CGIL )

Il primo (vedi doc. Articolo 18 post abrogazione) è almeno in apparenza il più sostanzioso, certamente il più suggestivo. Propone la cancellazione radicale della riforma renziana, ripristinando di fatto il vecchio articolo 18 e cancellando la liberalizzazione dei licenziamenti (le tutele crescenti). Pochi sanno che, prima della riforma Jobs Act, nel settore agricolo era prevista la reintegrazione nelle aziende con organico superiore a 5 dipendenti (non 15 come nell’industria o nel commercio). Con abile operazione tecnico giuridica (il referendum abrogativo consente solo di eliminare parole o frasi, vieta di inserirne nuove o diverse) il procedimento taglia e cuci porta all’estensione dei benefici del vecchio articolo 18 in favore di tutti i dipendenti di qualsiasi datore (abbia o meno fine di lucro) con organico oltre 5 dipendenti. Conseguenza di un licenziamento illegittimo (disciplinare o economico, giusta causa o giustificato motivo) è la riassunzione obbligata, con un risarcimento pari (e senza più il limite dei 6 o 12 mesi) all’intera retribuzione perduta, quale che sia la durata del processo. Una simile soluzione si pone in aperto contrasto con le direttive provenienti dalla troika e ben difficilmente sarebbe tollerata senza dare luogo a scontro aperto. Suggestivo il primo quesito, ma solo in apparenza il più importante. La modifica della legislazione in tema di flessibilità (la liberalizzazione dei contratti a termine, della somministrazione, delle varie forme di stage e apprendistato, del part time, delle partite iva) rende comunque la forma stessa del rapporto stabile percentualmente più contenuta rispetto al passato, e in costante diminuzione. Il primo quesito tocca ancora una platea assai vasta, ma non investe i giovani precari che vivono dentro il processo di accumulazione della ricchezza fondato in gran parte sui beni immateriali e/o sulla logistica (spostamento, stoccaggio e gestione merci); per loro, ingaggiati con le mille articolazioni contrattuali rese legali e prive di qualsiasi tutela, poco cambierebbe. Ma al tempo stesso il primo quesito è di enorme importanza sul piano della comunicazione e dell’immagine: apre lo scenario del conflitto, pone la questione dei rapporti di forza. E soprattutto costringe a ricostruire il filo, spezzato dagli eventi, della solidarietà fra oppressi, traccia la via di un legame che va riallacciato fra le diverse condizioni che il moderno capitalismo finanziario ha introdotto per separare (a proprio vantaggio) ciò che invece è uguale.

Il secondo quesito non ha quasi bisogno di ulteriori spiegazioni. Si propone di cancellare dall’ordinamento giuridico il voucher, che invece la legislazione introdotta con il Jobs Act ha coscientemente esteso e diffuso quasi senza limite. Le periodiche pubblicazioni statistiche hanno confermato un aumento notevole del volume complessivo di pagamenti effettuati mediante carnet di buoni, a macchia di leopardo, ma lungo tutta la penisola. Una quota rilevante della ricchezza prodotta si fonda su manodopera (operaia, impiegatizia e di terzo settore) ingaggiata in base allo scambio energia contro tagliando, al di fuori delle tradizionali tariffe contrattuali.

Qui il punto di vista precario consente di capire quanto sia importante la posta in gioco. Il meccanismo del voucher opera nel cuore della condizione d’instabilità diffusa, la diffonde e riproduce, spezza completamente il rapporto fra giornata e retribuzione che costituiva la tradizionale colonna portante di un rapporto a tempo pieno e indeterminato. Il lavoratore chiamato a rendere la sua opera con voucher si pone solo e isolato dentro la fabbrica globale, senza poter contare su alcun compenso minimo garantito (legislativo o contrattuale). Il buono (una sorta di moneta astratta e convertibile solo agli sportelli dello stato) rappresenta una somma fissa (astratta quota oraria) a fronte della quale è preclusa qualsiasi indagine su ciò che ad essa corrisponda. E’ dunque una forma di accresciuta alienazione che separa con assoluta radicalità il soggetto dal risultato; il moderno schiavo contemporaneo appare espropriato dell’esistenza autonoma, messa a disposizione sempre in attesa della eventuale chiamata, secondo criteri a lui ignoti e lasciati alla totale discrezionalità dell’impresa utilizzatrice. Il voucher consegna il comune nelle mani del capitale (che si appropria della cooperazione sociale sgretolando o cancellando il vecchio welfare) e al tempo stesso lega la retribuzione al puro esercizio della forza contrattuale; la necessità di acquisire un reddito di sopravvivenza mette in concorrenza, separa, trasforma uno sciame in singoli individui, deboli e incapaci di reazione. Fu varato, come ci spiegarono allora i giuristi e gli economisti in malafede, per regolare il lavoro domestico occasionale (le colf, le badanti e le baby sitter), un rapporto, dunque, fra soggetti entrambi non imprenditori; in realtà si trattava del cavallo di Troia che introduceva nella cittadella sindacale (senza che i sindacalisti se ne rendessero conto) la deregulation, la liberalizzazione in basso del mercato della retribuzione a tempo. Sono state in questi anni le grandi imprese (o direttamente o mediante appalti guidati) a determinare la progressione geometrica della retribuzione flessibile, per chiamata, con voucher.

Infatti (fino all’ultima disposizione introdotta dai decreti del Jobs Act) si è costantemente estesa l’area di uso autorizzato a questa forma di pagamento e si è insieme elevato il tetto consentito. Oggi qualunque imprenditore accorto è in grado di utilizzare un part time al 50% pagando in voucher  (sette euro netti per ora lavorativa corrisposti costano all’impresa dieci euro invece di 15, senza rischi aggiuntivi per infortunio, malattia e gravidanza). Solo qualche anno addietro gli appalti nella logistica si basavano su  una forchetta compresa fra 18 e 25 euro orari; la condizione precaria ha determinato sostanziose riduzioni, e ci sono oggi contratti fra imprese (per esempio in DHL, nel lodigiano) per 12 euro orari di base, una somma che solo l’omissione totale o il voucher è in grado di giustificare nel mercato delle braccia. Il tetto legislativo di seimila euro annui netti (poco meno di novemila lordi) corrisponde ormai alla retribuzione di sussistenza percepita da una fascia (minoritaria certo ma non per questo meno) consistente di precariato. Sette euro netti equivalgono al corrispettivo orario che la nostra Corte Costituzionale (decidendo la controversia relativa alle tariffe contrattuali nel settore cooperativo introdotte dalla contrattazione collettiva UNCI) ebbe a giudicare illecite perché in contrasto con il minimo vitale garantito dall’art. 36 della Carta; il governo delle larghe intese ha rimediato alla pronunzia della Consulta legando il sottosalario alla prestazione precaria e aggirando così il precedente assetto normativo con l’introduzione del concetto di lavoro accessorio (accessorio a che cosa? non è dato sapere!). La disposizione, approvata anche dalla sinistra del partito democratico (Tronti e Bersani compresi), ha tagliato la retribuzione di fatto in modo radicale, con piena soddisfazione di Confindustria.

L’abrogazione del voucher risolverebbe il problema? Certo che no! Ma è altrettanto vero che neppure l’abolizione della schiavitù rese ricco il povero Zio Tom. Eppure la ricordiamo tutti come cosa buona e giusta.

Il punto vero, dal punto di vista precario che è poi il nostro punto di vista, sta nel fatto che il voucher rappresenta l’esatta antitesi del reddito incondizionato (garantito, di cittadinanza, chiamatelo come vi pare, non mi interessa).

L’affermazione di un diritto al reddito altro non è che la diretta (consapevole) conseguenza logica del sistema capitalistico odierno (fondato sulla appropriazione generalizzata di ciò che è invece comune mettendo a valore la vita); il voucher è un atto di guerra, aperta, del potere finanziario, un atto che allarga (ulteriormente) il divario ricchi/poveri, con il fine dichiarato di ridurre la quota di ricchezza destinata allo sciame precario (il parametro della retribuzione è la forza, non l’esigenza vitale come prevede la Costituzione e neppure il vecchio riferimento temporale della giornata, della settimana, del mese). Il voucher proclama (contro la lettera della nostra Costituzione) un riferimento genericamente orario; al tempo stesso elimina, nel carnet di buoni, ogni possibilità di verifica e lasciando campo libero a quel che avviene realmente sul campo di battaglia: con un solo tagliando è possibile pagare un tempo di lavoro incontrollato senza correre seri rischi di rivendicazioni giudiziarie, posto che l’onere di provare ogni minuto aggiuntivo cade sul lavoratore.

Lo scontro referendario sul quesito che prevede l’abolizione del voucher è strettamente legato (intrecciato) con il tema del reddito incondizionato; per questo la sua valenza è perfino superiore a quella che caratterizza il voto per l’estensione dell’articolo 18 (licenziamenti). E la mobilitazione ha davvero la possibilità di unire i lavoratori stabili (sempre più destabilizzati e precarizzati anche a causa del Jobs Act) ai precari (della comunicazione, della conoscenza, della logistica, della produzione di beni materiali e immateriali). Si entra in una regione sconosciuta e selvaggia; ma la sfida bisogna raccoglierla perché è un’occasione irripetibile.

Il terzo quesito (vedi doc. Art. 29 post abrogazione ) si colloca pure nel vasto territorio della condizione precaria, ma tocca anche i lavoratori stabili. Nel villaggio globale operano imprese ormai a-nazionali  più che tradizionalmente multi-nazionali. Ma pur se asettiche e finanziarizzate queste imprese si  misurano con il territorio, pronte ad insediarsi o ad andarsene secondo convenienza. La logica che muove la loro presenza (o il loro esodo) è quella del massimo profitto immediato, a costo anche di distruggere le risorse (inquinamento e guerre sono solo due esempi, il catalogo è assai più articolato). Come i pirati di una volta i moderni capitani (come ebbe a chiamarli Massimo D’Alema, aggiungendo che erano coraggiosi ma omettendo che erano criminali) sono gente senza scrupoli. Si alleano con i politicanti o con i mafiosi, con le istituzioni religiose o con i comitati d’affari: basta far soldi. In Italia la filiera degli appalti è in parte figlia di un oggettivo decentramento produttivo e della catena sociale di montaggio, ma in altra parte legata alle necessità di controllo, di governance (e sono le stecche, le tangenti). Nelle cosiddette grandi opere il fenomeno appare in tutta la sua enorme rilevanza, ma non ne sono estranei gli appalti del terzo settore (scuola, ospedali, musei, assistenza) e tanto meno la logistica, la telefonia (call center per primi), il settore agro-alimentare, la farmaceutica, la metalmeccanica, l’edilizia, la moda, la pubblicità, la comunicazione.

Stiamo parlando dunque della parte vitale della struttura economica di questo paese. Chi lavora in condizione precaria (ma anche chi ha un formale contratto di lavoro a tempo indeterminato) sempre più spesso si trova esposto al rischio di non percepire la paga, per via di crisi simulate o di veri default delle imprese intermediarie. La giurisprudenza della corte di cassazione ha scandalosamente escluso i committenti pubblici dalla responsabilità solidale in caso di insolvenza degli appaltatori; il governo delle larghe intese ha modificato la vecchia legge Biagi introducendo una serie di ostacoli al recupero e, d’altra parte, la debolezza contrattuale dei lavoratori consente, di fatto, l’elaborazione di percorsi fraudolenti che conducono ad esentare le grandi società (per esempio cambiando il titolare formale nell’ambito del medesimo consorzio cooperativo così da aggirare il limite biennale per far valere il diritto). Creando, consapevolmente e deliberatamente, situazioni di insolvenza le grandi imprese hanno di fatto tagliato pesantemente il costo del lavoro; e si sono introdotti nel mercato degli appalti, in tutti i settori, organizzazioni miste (criminali e politiche in stretta alleanza) che rastrellano enormi capitali in danno dei lavoratori. Questi ultimi appaiono sostanzialmente indifesi, l’esame della giurisprudenza nell’ultimo biennio è davvero sconfortante; dopo un purgatorio lungo e doloroso i lavoratori riescono a recuperare solo una parte modesta del dovuto a spese non degli intermediari ormai falliti ma dell’Inps (così assottigliando le casse pensionistiche). Di fronte al rischio di perdere la parte più consistente della loro paga i lavoratori sia stabili sia precari accettano (e questo quello che avviene sul campo dello scontro di classe) le transazioni imposte dai loro aguzzini.

Il terzo quesito referendario interviene sul testo attuale dell’articolo 29, estendendone la portata fino a introdurre, ancora grazie a un sapiente taglia e cuci dentro la norma, la piena responsabilità solidale dei committenti; se l’intermediario salta rispondono i datori che sono gli utilizzatori finali delle prestazioni lavorative. Anche questa ci pare una battaglia unificante e meritevole di essere combattuta.

 If you put me to the test, if you let me try

Vale la pena di provare. Sappiamo benissimo che Susanna Camuso è pronta alla retromarcia e che il suo programma non è quello del precariato disobbediente e ribelle. Ma non sarebbe ragionevole ignorare la sfida, il prezzo che si pagherebbe sottraendoci sarebbe troppo alto. La vecchia Cgil ha scompaginato il tavolo, prendiamone atto senza illusioni ma anche senza mettere inutili condizioni. Puntiamo diritti al risultato, cogliamo l’occasione per agire sul terreno che ci è più congeniale, quello di costruire strutture coalizzate, trasversali, radicali, con il preciso programma di ribaltare i rapporti di forza e riaprire una fase di movimento, senza deleghe e senza delegati. Questo, a ben vedere, è il nocciolo della lezione francese. Nel pieno di un clima di paura creatosi dopo gli attentati, mentre il governo nazionalsocialista di Hollande varava i provvedimenti autoritari e sospendeva i diritti costituzionali, nessuno aveva messo in conto che il jobs act in salsa gallica avrebbe trovato resistenza. E invece una nuova generazione ha scelto di prendersi la piazza e di appropriarsi della notte. Difficile capire appieno come si sia sviluppato e prodotto il fenomeno delle nuits parigine; ancora più complicato (non solo per noi, ma anche per il potere) è formulare previsioni serie sulla tenuta, sulla durata, sugli esiti di questa protesta. E subito è scattata la corsa a metterci il cappello, a cercare promotori, organizzatori; repressione e contenimento, bastone e carota, si alternano. Quello che fin d’ora possiamo affermare, con piena consapevolezza, è che la troika esige di istituzionalizzare, anche in Francia, la condizione precaria e di tagliare il costo del lavoro; e che su questo non ha la minima intenzione di mediare. Lo avevamo visto in Grecia, in Spagna, in Portogallo. Ecco perché è significativo dichiarare apertamente che non abbiamo rivendicazioni. E’ una linea che o si sconfigge o si subisce. Quali che siano state le modalità con cui le nuits si sono realizzate, lo sciame che vi partecipa rappresenta un’opportunità per tutti, riapre ai movimenti; lasciamoci andare alla suggestione di introdurre un tentativo con possibile effetto sinergico in Italia, legando la necessità di spuntare un reddito incondizionato alle battaglie sindacali, ecologiste, referendarie, mettendo al primo posto solidarietà, mutuo soccorso, emancipazione, libertà, spirito ribelle.

A cominciare da questo primo maggio. Take a chance!   

 

Immagine in apertura: Manif. Loi du travail – Paris, 28 avril 2016- di bsaz

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