Una recensione a Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios, 2022.

1. Anche il 2023 come il 2022 sarà, secondo l’oroscopo cinese, segnato dall’elemento dell’acqua.

Sull’acqua è opportuno rileggere la seguente riflessione attribuita a Laozi – presunto autore del Tao Te Ching vissuto nel VI secolo a.C.: “Ecco come bisogna essere! Bisogna essere come l’acqua. Niente ostacoli – essa scorre. Trova una diga, allora si ferma. La diga si spezza, scorre di nuovo. In un recipiente quadrato, è quadrata. In uno tondo, è rotonda. Ecco perché è più indispensabile di ogni altra cosa. Niente esiste al mondo più adattabile dell’acqua. E tuttavia quando cade sul suolo, persistendo, niente può essere più forte di lei.”

Questa fluidità, questa capacità di adattamento, che è insieme forza basata su una lenta accumulazione di risorse, sembra caratterizzare la Cina contemporanea, potenza in sospeso fra l’apprendimento e l’assuefazione del modo di essere occidentale. Chi ha a cuore gli studi politici e le relazioni internazionali – e fra questi c’è senza dubbio Raffaele Sciortino, il quale ha anche il pregio di prendersi cura dei movimenti sociali – non può che scontrarsi oggi con l’esigenza rovinosa di fare i conti con la Cina, rileggendone la storia, per comprendere non solo il senso dell’attuale corso cinese, ma soprattutto le paure e le isterie che esso ha provocato nel mondo atlantico.

2. Sciortino ha scritto un libro diviso in tre parti: 1. Crisi nella globalizzazione; 2. Stati Uniti; 3. Cina. Una fatica che durante la lettura diviene sempre più ambiziosa. Pagina dopo pagina ci si ritrova avvolti in una riflessione profonda, alle prese con il tentativo di ripercorrere le trame che l’autore dipana. Si passa dalle ipotesi cristalline contenute nelle 38 pagine che compongono la prima parte, alla illustrazione convincente e chiara delle strategie statunitensi nella seconda parte (63 pagine), ad una terza parte estremamente impegnativa (229 pagine) in cui il lettore sente il dovere di ricostruire i nessi logici fra percorsi apparentemente distanti, per sostenere il tentativo proposto da Sciortino di cogliere la centralità del Zhongguo, il «paese di mezzo», per le sorti di un mondo che potrebbe trovarsi schiacciato fra declinazioni differenti dell’imperialismo.

Un sottotitolo aggiuntivo per questo libro che svela innanzitutto la vera natura della globalizzazione, o meglio della nuova costituzione del mercato mondiale, potrebbe essere: “sulla disarticolazione del sistema mondo”.

La tesi di Sciortino è che la Cina Popolare sia stata, per così dire, inserita nel mercato mondiale a guida statunitense e che, dopo la crisi globale, essa, proprio come l’acqua celebrata da Laozi, abbia di fatto rimesso in discussione il suo ruolo all’interno del circuito economico internazionale, ora riadattandosi ai nuovi confini che qualcun altro cercava di tracciare per lei, ora forzandoli sotto il peso di una nuova accumulazione originaria che la vede protagonista.

3. L’attuale circuito monetario internazionale si fonda – per utilizzare l’espressione proposta da Sciortino – su un “assemblaggio asimmetrico”. Esso – aggiungiamo noi facendo tesoro soprattutto delle migliori analisi del postfordismo diffusesi fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio[1] – è figlio di una convezione finanziaria, resa innanzitutto possibile con la crisi della new economy, che ha legittimato l’esternalizzazione dei processi produttivi occidentali determinando un nuovo contesto istituzionale su scala globale. I nuovi assetti politici internazionali, i nuovi criteri di organizzazione del ciclo produttivo, e la finanziarizzazione, rappresentano di per sé dei cambiamenti significativi delle forme istituzionali. Nel nuovo regime di crescita dominante la produzione può avvenire non solo se attivata da una moneta che entra nel sistema sottoforma di credito richiesto dagli imprenditori alle banche, ma anche ricorrendo all’emissione di azioni. A partire dagli anni Novanta, soprattutto le imprese statunitensi hanno fatto ricorso a una nuova forma di finanziamento, i cosiddetti venture capital funds volti ad incrementare il flusso degli investimenti. In un contesto di effervescenza dei mercati finanziari, sorretto da politiche monetarie che tenevano basso il costo del denaro, questa strategia ha prodotto ingenti flussi di capitale, ha spinto in alto il valore delle azioni e ha consentito la maturazione e la realizzazione di plusvalenze sul mercato azionario. Molte imprese americane hanno utilizzato questi guadagni in conto capitale per ripagare i debiti contratti con le banche, per pagare i propri lavoratori, per autofinanziarsi e per introdurre le tecnologie hi-tech ristrutturando così i propri processi produttivi. La convenzione finanziaria dominante coincide prima con l’idea di trovarsi in un nuovo paradigma tecnologico capace di produrre valore (finanziario) a mezzo di cooperazione sociale; poi, dopo lo scoppio della bolla delle dot.com (marzo 2000) e l’entrata della Cina nel WTO (11 dicembre 2001), con la nuova fase del processo di globalizzazione che Walden Bello ha definito chain gang, l’incatenamento commerciale, produttivo e finanziario fra Cina e USA (Sciortino, 2022, p. 137, nota 31). Nel 2004 Christian Marazzi ne scriveva con la consueta lucidità “La «convenzione Cina» che si è imposta sui mercati finanziari negli ultimi tre anni riflette la crescita formidabile dei deficit (federale e commerciale) degli Stati Uniti e i surplus dei paesi asiatici, di cui quello cinese, se si tiene conto del flusso di investimenti diretti stranieri, supererà quest’anno il 5 per cento del PIL. Riflette anche, l’accumulazione di riserve monetarie da parte dei paesi asiatici, riserve che le banche centrali utilizzano per frenare la svalutazione del dollaro acquistando Buoni del Tesoro americani (ciò che, tenendo bassi i rendimenti sui BOT, permette ai mercati finanziari US di proteggersi dall’indebolimento del dollaro […]. Per quanto molto instabile, l’equilibrio che si è stabilito sui circuiti finanziari mondiali potrebbe non degenerare in una guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.”[2] Come sappiamo, a partire dalla crisi globale, l’equilibrio instabile di cui Marazzi scriveva non ha più retto, e ha condotto, usando le parole di Sciortino, a “i primi significativi smottamenti dell’ordine internazionale della globalizzazione, tra i quali l’innesco dal 2017 dello scontro Stati Uniti/Cina è probabilmente il più foriero di conseguenze” (Sciortino, 2022, p. 30).

4. L’assemblaggio asimmetrico di cui parla Sciortino si allenta e si ridefinisce dinanzi alle ambizioni cinesi di costruire una propria nuova globalizzazione, persino ponendo le basi per un nuovo sistema dei pagamenti internazionali. D’altro canto – come abbiamo argomentato altrove[3] – il riciclo del surplus commerciale in dollari accumulato dalla Cina va ben oltre l’acquisto dei BOT statunitensi ed investe un cambiamento nel controllo delle catene transanazionali del valore (e anche negli assetti proprietari delle multinazionali statunitensi) che rende il processo di centralizzazione dei capitali a trazione cinese estremamente minaccioso per gli equilibri internazionali concepiti in una prospettiva atlantista: “Non si tratta solo dell’accesso a capitali stranieri in aree sviluppate che permettono l’acquisizione di tecnologie avanzate – peraltro reso impervio [a partire dal decoupling cominciato dall’amministrazione Trump nel 2017] dall’azione degli stati occidentali – ma anche di creare mercati di sbocco e aree di influenza per le proprie produzioni e raggiungere così quella soglia critica che permetterebbe di alleggerire la dipendenza del dollaro come mezzo di pagamento. Questo sviluppo non si configura affatto come alternativa alla crescita del mercato interno [cinese] […] bensì si dà insieme con essa. E con il tentativo di risalire le catene del valore.” (Sciortino, 2022, p. 264).

Le “Nuove Vie della Seta” sono in fondo una strategia di ridefinizione degli equilibri globali volta a completare una nuova accumulazione originaria, seguendo una aspirazione che ha radici lontane.

5. Ed eccoci giunti dunque alla nuova accumulazione originaria cinese. Per coglierne le specificità torniamo alle pagine marxiane del primo libro de Il capitale (capitolo 24): “Denaro e merce non sono capitale sin dall’inizio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Bisogna che essi siano trasformati in capitale. Tuttavia tale trasformazione può verificarsi solo in determinate circostanze, che si riducono a questo: debbono trovarsi di fronte ed entrare in contatto due sorte assai diverse di possessori di merce, da un lato proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali sta a cuore acquistare forza lavorativa altrui per valorizzare con essa la somma di valore che possiedono, dall’altro lato liberi lavoratori, venditori della propria forza lavorativa e perciò venditori di lavoro. Liberi lavoratori nel duplice senso che essi non fanno direttamente parte dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né sono proprietari dei mezzi di produzione, come i contadini coltivatori diretti, ecc., anzi ne sono liberi e spogli. Con questa polarizzazione del mercato delle merci sono date le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico presuppone la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di attuazione del lavoro. Allorché la produzione capitalistica ha attecchito, essa non solo conserva quella separazione, ma la riproduce su scala via via più larga. Perciò il processo che genera il rapporto capitalistico non può essere altro che il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà delle sue condizioni di lavoro, processo che da un lato converte in capitale i mezzi di sussistenza e di produzione sociali, dall’altro trasforma i produttori diretti in operai salariati. Perciò la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Essa appare «originaria» in quanto forma la preistoria del capitale e del corrispondente modo di produzione.”[4]

In cosa consiste la “preistoria del capitale” nella Cina Popolare? Su questo Sciortino scrive pagine di grande interesse in cui mostra come la formale proprietà collettiva della terra da parte dei villaggi si sia tradotta nei fatti in una polverizzazione del suolo coltivato. Nel secondo dopoguerra in Cina è lo Stato ad assumersi il compito di trasformare in capitale innanzitutto i mezzi di sussistenza prodotti nelle campagne: “La disponibilità sul prodotto agricolo da parte dei contadini […] si limitava infatti per l’essenziale all’autoconsumo, mentre la parte trasferita allo Stato con prezzi dei generi alimentari tenuti amministrativamente bassi era per il sostentamento delle città e dei piccoli nuclei di classe operaia lì presenti. In queste condizioni nessuna pianificazione «socialista» effettiva, nessuna socializzazione della produzione era minimamente possibile, al di là della scomparsa formale della proprietà privata individuale” (Sciortino, 2022, p. 129). In un primo momento il Partito Comunista Cinese (PCC) si assume il compito di far attecchire nelle città una industrializzazione che avviene in modo insufficiente “grazie alla collaborazione di figure borghesi non fuggite o disperse nella diaspora” (ibidem). Il Grande Balzo maoista negli anni Sessanta fallisce soprattutto per “l’impossibilità di accedere alle risorse del mercato mondiale, indispensabili per far progredire la costruzione «socialista»” (Sciortino, 2022, p. 131). Il socialismo cinese per Sciortino è sempre e rigorosamente un «socialismo» scritto fra virgolette. In effetti l’autore mostra come nel dibattito interno al PCC la lotta di classe sia qualcosa che esiste unicamente sul piano retorico, come termine necessario a legittimare un linguaggio “nazional-rivoluzionario”. Puro linguaggio dunque che, nella realtà dei fatti, contribuisce a realizzare due obiettivi principali lontani dall’abolizione dello sfruttamento, e quantomeno prossimi alla separazione fra proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori: lo sviluppo e la difesa di una nazione, in cui si consolida un «capitalismo di Stato». Sciortino non usa mai questa definizione, e si limita a parlare di «socialismo con caratteristiche cinesi» che consiste infine nell’accumulazione di capitali grazie all’apertura del paese al mercato mondiale. Un’apertura che, in particolare a partire dagli anni Novanta, conduce al chain gang fra USA e Cina. D’altro canto, sin dalla fine degli anni Settanta, la modernizzazione cinese aveva assunto la prospettiva estremamente pragmatica che Deng Xiaoping aveva sintetizzato in una celebre affermazione: “Non importa se il gatto sia bianco o nero, purché sappia acchiappare i topi”[5].

6. Uno studio dell’ISPI dal quale traiamo la figura sottostante, mostra che nel 2020 la maggior parte dei paesi ha commerciato di più con la Cina che con gli USA. E man mano che questa situazione veniva consolidandosi le spese militari cinesi sono aumentate del 440% (nostra elaborazione su dati SIRPI) [6]. Si tratta di un esito che era stato considerato probabile, già ad un anno dall’entrata della Cina nel WTO, da alcuni intellettuali neocons, per esempio Gary Schmitt, già direttore esecutivo del Foreign Intelligence Advisory Board del presidente Reagan: “per quanta moderazione la Cina possa mostrare sul fronte diplomatico, sta continuando avventatamente a indebolire le garanzie di sicurezza americane nella regione. La spesa militare cinese quest’anno [2002] è aumentata più del 17 percento. E nel corso delle ultime due settimane, la stampa ha sottolineato che Pechino ha comprato otto sottomarini russi classe Kilo, oltre ai quattro già acquistati, e che ha testato missili aria-aria di fabbricazione russa (AA-12), che potrebbero aumentare in modo significativo il potenziale di combattimento aereo cinese. Tutto questo si aggiunge ai precedenti acquisti del Pla [People’s Liberation Army, l’Esercito di liberazione del popolo] di caccia russi all’avanguardia, di missili Cruise supersonici, di missili antiaerei e di una gran quantità di cacciabombardieri. E Pechino continua a incrementare il numero di missili a media gittata, capaci di colpire Taiwan e altri vicini, già schierati nel suo arsenale. Il quadro complessivo è quello di una leadership che ha fretta di modificare l’equilibrio militare nell’Asia orientale. […] La verità è che gli Stati Uniti non possono rimandare troppo a lungo il confronto con la Cina. In fondo sono le ambizioni della Cina a rendere un conflitto inevitabile”[7].

7. Lo scontro globale fra Stati Uniti e Cina – che, come abbiamo argomentato altrove, è il risultato finale di una lunga catena causale che accompagna il processo di centralizzazione dei capitali[8] – apre a scenari diversi. Sciortino ne passa al vaglio tre nelle sue conclusioni: 1. un multipolarismo visto come improbabile opzione riformista e comunque transitoria; 2. un’offensiva statunitense sempre più aggressiva in grado di mettere a rischio l’ascesa cinese che al contempo porterebbe alla rottura della mediazione sociale fra Stato e classi lavoratrici in Cina; 3. un esito catastrofico in cui la resistenza nei confronti dell’imperialismo atlantico, da parte di un blocco di potenze con in testa la Cina, condurrebbe ad una situazione di conflitto durevole fra le classi dominanti nazionali (“Il più debole non può vincere, ma può resistendo contribuire all’approfondimento delle contraddizioni sistemiche”, Sciortino, 2022, p. 349).

Ciò che tuttavia rende il libro di Sciortino una lettura fondamentale per tutti coloro che vogliono aspirare ad una alternativa fuori dal capitalismo è la centralità che assume nel suo ragionamento l’analisi della struttura sociale con cui le potenze statuali devono confrontarsi. Vale la pena offrire due esempi del modo in cui l’autore analizza le tendenze della lotta di classe, uno relativo agli Stati Uniti, l’altro relativo alla Cina, per invogliare il lettore a cimentarsi con questo libro:

a proposito dello striketober del 2021 – che ha coinvolto negli USA metalmeccanici, operai degli stabilimenti alimentari, lavoratori della produzione cinematografica e televisiva, lavoratori della sanità e persino del commercio al dettaglio – l’autore nota come “gli aumenti salariali mediamente strappati sono stati i maggiori dagli inizi anni Duemila” (Sciortino, 2022, p. 73); l’ondata di lotte nelle regioni costiere della Cina, che ha avuto il suo picco nel 2014-2015, precede e in parte spiega un aumento dei salari medi fra il 2009 e il 2014 pari all’11% (Sciortino, 2022, p. 192).

La composizione della classe dei lavoratori rimane una variabile imprescindibile tanto nelle vicende cinesi, quanto in quelle americane: Sciortino ci ricorda che anche quando la classe degli sfruttati va diradandosi sul piano politico, essa resta sempre una variabile analitica ineliminabile poiché è anzitutto una necessità reale per la valorizzazione capitalistica. E aggiungiamo noi, nonostante tutto, una speranza preziosa come l’acqua: “quando cade sul suolo, persistendo, niente può essere più forte di lei.”

Note:

[1] Cfr. soprattutto Christian Marazzi, “Denaro e guerra”, in Fumagalli A., Marazzi C., Zanini A., La moneta nell’impero, prefazione di Toni Negri, Verona, ombre corte, 2002, pp. 41-98.

[2] Christian Marazzi, “Dietro la sindrome cinese”, il manifesto, 7 gennaio 2004, .

[3] Cfr. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis, 2022. Si veda anche la recensione di Andrea Fumagalli su effimera.org, e l’intervista di Francesco Pezzulli a Stefano Lucarelli su Machina, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-capitalista .

[4] Karl Marx, Il capitale, edizione integrale a cura di Eugenio Sbardella, Libro I, Capitolo ventiquattresimo. La cosiddetta accumulazione originaria, Grandi Tascabili Economici Newton, 1996 [1867], p. 515.

[5] Si leggano a riguardo le parole molto significative di un esponente mainstream del mondo delle relazioni internazionali: “[Deng] intendeva [per ‘modernizzazione’]  liberare gradualmente le energie economiche, invitare capitali stranieri, promuovere la formazione di nuovi quadri tecnici e professionali, suscitare l’interessata partecipazione dei cittadini allo sviluppo del paese; ed era pronto, pur di raggiungere lo scopo, ad allentare i vincoli dello Stato sull’apparato produttivo, liberalizzare interi settori economici, concedere autonomia alle regioni più intraprendenti, accantonare i dogmi e i canoni dell’ortodossia comunista”. Cfr. Sergio Romano, Cinquant’anni di storia mondiale, TEA, 1995, p. 233.

[6] Cfr. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis, 2022. Si veda anche Stefano Lucarelli, “Perché scoppia una guerra e perché è importante saperlo: una prospettiva economico politica”, La Voce di Ginevra, 25 dicembre 2022, .

[7] Cfr. Gary Schmitt, “La Cina è vicina”, in Jim Lobe e Adele Olivieri, a cura di, I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, Feltrinelli, 2003, pp. 146-147.

[8] Cfr. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis, 2022.

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