Si è fatto un gran parlare, negli ultimi giorni, del “caso Caruso ”, il docente a contratto dell’Università di Catanzaro che il Coisp, sindacato di polizia che alcuni di noi ben ricordano, ha giudicato “inadeguato” dall’attività didattica.
Il sunto dell’accaduto è il seguente.
Il 13 ottobre 2014 la Commissione dell’Università Magna Graecia in Calabria si riunisce per effettuare una valutazione dei titoli scientifici dei candidati presentatisi per ricevere l’affidamento di incarichi di insegnamento a contratto nel neonato corso di laurea in Sociologia per l’anno accademico entrante. Si tratta di incarichi didattici a tempo determinato a cui si fa ricorso generalmente quando le procedure per l’affidamento a docenti di ruolo siano andate deserte. Contratti precari, in altre parole, che in questo caso prevedevano un compenso semestrale lordo di 2.400 euro (350 euro al mese scarsi) e altre volte sono avvenuti a compenso zero – si pensi ai casi di Messina, Milano in cui si affidavano contratti gratuiti a “esperti della materia” costretti a fare gli schiavi in cambio del “prestigio” di lavorare in università. Insomma, la Commissione dell’Università Magna Graecia a ottobre 2014 valuta i candidati per cinque insegnamenti scoperti e il corso di Sociologia dell’ambiente e del territorio viene attribuito a Francesco Caruso , sociologo precario che da anni si occupa di ambiente e da sempre è una voce lucida nei movimenti in Italia.
La questione tace per diversi mesi.
La riesuma il 10 gennaio il presidente del Consiglio comunale Ivan Cardamone che si chiede, cito, se “i più alti vertici dell’Ateneo catanzarese siano a conoscenza
Succede che negli ultimi mesi a Catanzaro, Ateneo, Comune e Provincia hanno raggiunto un accordo, firmato con il benestare dell’assessore regionale Tallini (“non si muove foglia che Tallini non voglia”, si dice da quelle parti), per cui Comune e Provincia si impegnano a reperire spazi adeguati per l’Università nel centro storico, e in cambio l’Università contribuirà a rivitalizzare un centro storico che negli ultimi anni ha conosciuto una rapida desertificazione. Un accordo dunque la cui moneta di scambio sono gli studenti: il Comune dà una sede a Sociologia e Sociologia porterà al Comune studenti, in altre parole creatività, idee, innovazione, o più banalmente denaro: denaro per le tasse universitarie, denaro per gli affitti e denaro per gli esercizi commerciali, cose probabilmente non indifferenti a quella rete di imprenditori di destra che descrive la filiera di potere che da anni è al governo della città.
Ma qui avviene l’escalation.
Se, infatti, Cardamone si spinge a dire su quali “auspici” deve o non deve crescere la sociologia di Catanzaro se vuole diventare “centrale nel centro storico” (leggi avere una sede in centro storico?), dopo Cardamone la questione passa al sindacato di polizia e poi alle prime pagine dei giornali, in una sequenza rapida in cui d’un tratto Francesco Caruso viene completamente deformato sino a divenire una specie di mostro rispetto al quale qualunque risposta istituzionale eccezionale e aggressiva diviene plausibile. Il discorso prende tinte grottesche tali che Giuseppe Brugnano, Segretario Regionale del Coisp, l’11 gennaio si dice preoccupato per gli studenti: quella di Caruso è una nomina “che ci preoccupa per la ricaduta che potrebbe avere sugli studenti dell’ateneo catanzarese”; Caruso sarebbe un cattivo maestro, un modello educativo sbagliato, dal quale gli studenti vanno protetti, dice Brugnano. Ma qui è il punto: l’esperto di pedagogia in questione è il Segretario Regionale del Coisp, lo stesso Coisp che, insieme al Sap, sindacato autonomo di polizia, si è reso indimenticabile per la solidarietà continua ai quattro poliziotti giudicati colpevoli di aver letteralmente spappolato il cuore di Federico Aldrovandi in quella famosa notte del 25 settembre 2005 in cui, chi lo sa per quale passione triste, hanno deciso di accanirsi contro un diciottenne.
Quel Coisp che ha difeso a oltranza gli stessi agenti di polizia che il procuratore generale Mazzotta nella sua requisitoria ha definito “schegge impazzite in preda a delirio”, ora si presenta come un organo legittimo di difesa gli studenti.
Commenti a parte, c’è un filo rosso, in questa storia, o forse nero. È un filo sottile, quasi improbabile, eppure all’apparenza inscalfibile. Il filo sottile è quella specie di relazione improbabile tra l’apparente inezia del casus belli, per così dire, e la catena di eventi maestosa che ne consegue.
Pietro Saitta e Charlie Barnao ne hanno scritto uno splendido pezzo (che potete leggere qui), qualche tempo fa. Un pezzo, non a caso, anche questo censurato, tant’è che il direttore della collana editoriale del Cirsdig su cui era stato pubblicato l’ha rimosso dal sito rammaricandosi “dell’omissione della doverosa vigilanza” determinata “da una mal riposta fiducia” in due studiosi che hanno il difetto di voler dire urticanti verità. Fatto sta che Saitta e Barnao andavano ad analizzare esattamente questi processi: prima è la percezione di una minaccia. Poi ecco comparire la figura del padre, dello stato o dello stato di polizia che invocando uno scenario di guerra contrassegnato da uno stato di eccezione “fa polizia” e riporta l’ordine. La minaccia sceglietela voi, tanto è variegata e pretestuosa: può essere un docente che ha la colpa imperdonabile di non essere sordo, muto e cieco al dolore acuto del mondo che ci circonda al punto da fare una cosa tanto pericolosa quale discuterne le cause e rivelare verità così scandalose da meritare una specie di agguato politico tanto gigantesco quanto ridicolo. Oppure ancora, può essere che alla Statale di Milano una rete di collettivi indica l’assemblea No Expo e che l’idea di un’assemblea metta una tale paura che il prefetto impone tre giorni di chiusura straordinaria dell’università per motivi di sicurezza. Fa quasi ridere, ma avviene continuamente, dalla ex libreria Cuem della Statale di Milano sgomberata lo scorso anno da poliziotti in tenuta antisommossa, all’inaugurazione dell’anno accademico Veneziano del 2010-2011, “col botto”, passando per Bologna e Napoli sino all’Università di Catania, dove addirittura, a un certo punto, le assemblee erano state vietate da un regolamento di ateneo, poi sospeso. Ovunque il gioco è sempre lo stesso, controcanti e repressione. “Tutti paladini dell’informazione eppure chiudono l’ateneo per impedire un’assemblea”, recita lo striscione degli studenti alla statale di Milano. Ed è così.
“Dì tutta la verità ma dilla obliqua”, scriveva Emily Dickinson.
Perché la verità è cosa troppo scandalosa per dei poveri ciechi.
La verità va detta piano, e se qualcuno osa dirla apertamente sarà perseguito come un piromane o un incendiario che attenta alle quiete tenebre di chi pensa per sé.
È così banale che fa quasi sconcerto, l’arroganza della repressione che scandisce il vertiginoso acuirsi della crisi italiana.
Qualcuno dice che quanto è avvenuto è particolarmente grave perché viola la “libertà accademica”. Per me “libertà accademica” è un concetto che non piace granché perché mi sembra che l’aggettivo tradisca un processo privativo a monte: e la libertà in tutti gli altri luoghi dov’è? Fatto sta che critici o meno (e comunque da sinistra) del concetto di libertà accademica, è innegabile che ogni fascismo inizi con la polizia in università. Era il 1931 quando il Ministro dell’Istruzione Balbino Giuliano ha imposto il giuramento di fedeltà al regime per tutti i docenti universitari. Era il 12 settembre 1973, il giorno dopo il colpo di stato di Pinochet che l’esercito è entrato alla State Technical University di Santiago del Cile arrestando centinaia di studenti e docenti. E’ negli ultimi anni che la polizia ha ricominciato a entrare nelle sedi universitarie, ed è più recente ancora questo suo nuovo guizzo di regalare opinioni ed expertise sui programmi accademici e il reclutamento dei docenti.
C’è una cosa positiva però, in tutto questo.
Laddove il Coisp si è auto-investito del diritto di decidere quale docente è degno o meno di svolgere il proprio lavoro, non ha fatto nulla di originale. La campagna #Vialadivisa da tempo chiede la rimozione di certi agenti da mansioni di ordine pubblico. La lista di episodi di abuso di potere o violenza gratuita contro inermi è lunga, e ha senso leggerla con attenzione esattamente per riportare il dibattito laddove esso dovrebbe essere, ossia al problema di fondo: la necessità viscerale di discutere dentro e fuori le università di quei bisogni collettivi sempre più umiliati da una crisi che toglie il fiato. Bisogni collettivi come quelli repressi con la violenza ieri ad Arborea, dove un centinaio di uomini in tenuta antisommossa ha sgomberato una famiglia di tre persone dalla propria casa. Giovanni Spanu, di 76 anni, la moglie e il figlio hanno tentato di difendersi dallo sfratto forzato asserragliandosi in soffitta cosparsi di benzina.
Forse sarebbe tempo che Aldo Grasso ne scrivesse un articolo sul Corriere.
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