Una breve presentazione video, raccolta da Officina Multimediale, di Toni Negri al libro collettaneo Sindacalismo sociale. Lotte e invenzioni istituzionali nella crisi europea, edito da Alfabeta2-DeriveApprodi, curato da Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi. Nella stessa collana, lo scorso anno, sono stati pubblicati gli atti del convegno di Effimera sulla Moneta del comune. La sfida dell’istituzione finanziariaria del comune.

Come viene sottolineato nell’introduzione e nel contributo iniziale al libro, entrambi scritti da Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi, si tratta di verificare in che modo la nuova composizione del lavoro vivo nella produzione immateriale possa operare, politicamente e strategicamente, per riappropriarsi del valore che produce e che viene “estratto”.  È evidente che le nuove soggettività produttive, esito della “torsione neoliberale” (De Nicola, Quattrocchi), all’interno di ciò che Sandro Mezzadra definisce “la moltiplicazione del lavoro”, necessitano di nuove modalità espressive del conflitto e di nuovi strumenti.

Con il termine sindacalismo sociale si vuole infatti alludere a nuove pratiche di rappresent/azione del lavoro in grado di adeguarsi a queste nuove soggettività, al loro essere nomadi sul territorio, decentrate, frammentate e individualizzate. Come giustamente sottolinea Adalgiso Amendola:

“Dopo diversi tentativi … di dichiarare la morte del Novecento, di farla finita con la sinistra o con il movimento operaio, di proclamare l’estinzione del “politico”, ci ritroviamo spesso a veder riaffiorare un immaginario del tardo Ottocento, a riparlare di leghe e di mutualismo, a ripensare il senso e le modalità dello sciopero, a interrogarci su senso del far male al padrone, ma anche del trattare, fare vertenza” (p. 51).

Per un certo periodo, la parola magica, che sembrava simboleggiare la quadratura del cerchio, è stata coalizione, termine che oggi sembra conoscere minori fortune. Giustamente Francesco Raparelli e Cristian Sica ricordano come “l’universo molteplice del lavoro (e del non lavoro) sia irriducibile a qualsiasi rappresentazione unitaria” e che (citando  Sergio Bologna)

“Nella tradizione del Novecento l’idea di coalizione nasceva all’interno dei luoghi di lavoro, tra persone che svolgono la stessa mansione, hanno gli stessi orari e gli stessi salari. Il luogo di lavoro era il terreno più elementare della coalizione, il compagno di lavoro era il primo alleato” (p. 79).

La coalizione a cui si fa riferimento è dunque qualcosa d’inedito, non riciclabile dal passato. Lo stesso concetto di sindacalismo deve attingere al “nuovo”. I contributi del libro cercano di dare risposte in questo senso. Si parte da due assunti che la ricerca neo-operista ha scandagliato in profondità nelle ultime due decadi:

  1. il sindacalismo, comunque definito, ha origine, materialmente e pragmaticamente, dal luogo di lavoro. Oggi tale luogo di lavoro non è definibile, se è vero che la produzione si svolge in un ambito spaziale, sia territoriale o immateriale (la Rete), che sfugge e travalica ogni confine.
  2. la messa al lavoro, e quindi a valore, della vita definisce una nuova soggettività in grado di autovalorizzarsi all’interno di dispositivi biopolitici che fanno perno sulla singola individualità, e non c’è netta distinzione tra lavoro concreto e lavoro astratto, tra ricatto e consenso.

Sono questi i due principali aspetti che rendono la sfida particolarmente difficile. I riferimenti alle lotte di questi ultimi anni, dalla logistica ai lavoratori/trici precari e autonomi (Coalizione 27 febbraio), per quanto interessanti, non paiono sufficienti a delineare un nuovo modello di “auto-organizzazione sindacale”:

“È necessaria una vera e propria conversione dei centri sociali che, da luoghi di socialità alternativa, possono a tutti gli effetti diventare camere del lavoro e casse del mutuo soccorso”( p. 85)

Parimenti, è necessario che i “sindacati conflittuali” (dai sindacati di base alla Fiom) si aprano alle nuove istanze poste dalla nuova composizione sociale del lavoro, facendo a meno della vecchia logica burocratica e disponibili a “modificare la forma sindacato fin qui conosciuta” (p. 85):

“Di una cosa siamo certi: senza questa necessaria conversione il rischio, per tutti, è quello della marginalità o, peggio, dell’estinzione” (p. 85).

Insomma, tutto sottoscrivibile, d’accordo. Ma come? La risposta a questa domanda, terribilmente complessa ma ineludibile, sembra ancora mancare.

Altra questione posta dal libro riguarda l’attualità o meno dello sciopero come strumento di conflitto.  L’intervento di Toni Negri (insieme a quello di  Marco Assennato) è quello che si sofferma maggiormente su tale aspetto. Come si può ascoltare proprio dal video che anche noi pubblichiamo, Negri ribadisce il ruolo dello sciopero come massimo strumento  del conflitto di classe a prescindere dalla forma che può assumere il rapporto capitale-lavoro. Esso si configura come astensione dalla partecipazione al processo di valorizzazione imposto dal capitale, quindi come potenziale forma di contropotere e di esodo costituente.

Tuttavia, di fronte a un processo di valorizzazione che, seguendo proprio Negri nonché l’intervento di Mezzadra-Gago, deriva da un processo estrattivo (seppur ampliato anche ai beni immateriali come la conoscenza), in grado di catturare a valle l’auto-valorizzazione prodotta dalla cooperazione sociale e dal general intellect, come può avvenire l’astensione dalla produzione di valore? In altre parole, ha ancora senso parlare di sciopero come grimaldello del conflitto capitale-lavoro, se il lavoro nel bio-capitalismo finanziarizzato contemporaneo, è in grado di autogestirsi, produrre un  valore d’uso che verrà solo successivamente trasformato (estratto) in valore di scambio?  Concordiamo con Negri e Assennato quando affermano che il processo di astrazione del lavoro concreto della cooperazione sociale si realizza nei mercati finanziari e che è dunque lì che bisogna “far male”.

Allora, più che di sciopero sociale si dovrebbe parlare di sciopero finanziario. È a questo livello, dunque, che deve essere portato l’attacco

[1].

Ma, certo, si pone comunque una questione propedeutica, da ridefinire e da sviscerare, e cioè il recupero dell’autonomia di produzione e valorizzazione più di quello dell’autonomia politica dentro e contro le istituzioni (si veda, al riguardo,  il bel saggio di Sandro Mezzadra e Veronica Gago con riferimento all’esperienza del Sud America, esperienza comunque non esportabile nei nostri lidi). Il tema del recupero dell’autonomia soggettiva intesa come capacità di autodeterminazione e indipendenza, economica prima e culturale poi, trapela in varie pagine del testo, quando si parla della centralità della battaglia per un reddito di base incondizionato, strumento principale (insieme a un salario mimino europeo) per sfuggire alla logica sussuntoria imposta dai  vari vincoli e ricatti che derivano dalla condizione precaria e debitoria.

Solo qualora si cominci a praticare in modo concreto (e non astratto) un’autonomia economica e culturale del soggetto come condizione propedeutica, è possibile immaginare la realizzazione di uno sciopero sociale.

Va notato che è stata esattamente questa la problematica contro la quale si è già infranta la proposta di sciopero precario agita dal percorso Mayday (ricordato da Assennato e da Raparelli e Sica).

Il 16 e 17 aprile 2011, gli Stati Generali della Precarietà 3.0 discutono proprio di queste tematiche e delle modalità di agire di uno sciopero precario, alias sciopero sociale:

“Oggi, nel tempo della crisi della misura del valore, l’idea di un nuovo welfare è in verità forma del desiderio di un’altra società e si presenta come potenza dell’impossibile. Significa, dentro l’esplosione della condizione precaria, volere tutto e darsene la forza. Così presentiamo questo workshop sui nuovi diritti delle precarie e dei precari, sulle proposte e piattaforme politiche di rivendicazione degli Stati Generali della Precarietà, come articolazione d’un discorso sperimentale, provvisorio, a partire dalla discussione sulle pratiche dello sciopero precario. E cioè a partire dalle forme del conflitto, nella sua più complessa accezione bio-politica, di co-spirazione dei corpi e delle loro differenze, di complicità dei desideri e della loro eccedenza, di costellazione dei punti e delle traiettorie di attacco ai dispositivi del profitto e dunque al potere sulle vite”.

In quell’occasione, si discusse di sciopero “sulla precarietà”, ovvero di come creare le condizioni affinché i precari potessero astenersi dal lavoro, e di sciopero “nella precarietà”, ovvero, dello sviluppo di forme di contaminazione che aiutassero a maturare una consapevolezza e una coscienza ulteriore della propria condizione:

“Nella tradizione novecentesca, lo sciopero ha rappresentato il culmine della consapevolezza, espressione di coscienza di classe e di conflitto. Nell’era della precarietà esistenziale e generale, lo sciopero precario deve essere invece inteso come momento di inizializzazione della coscienza di sé e del proprio sfruttamento: strumento per sviluppare una futura coscienza di classe. Lo sciopero precario è quindi strutturalmente diverso dallo sciopero tradizionalmente inteso. Andrà immaginato come una nuova forma di lotta, in grado di far collaborare e di rafforzare nell’incontro le diverse soggettività precarie, dovrà mirare al blocco dei flussi della produzione e della circolazione delle merci e delle persone: in una parola punterà al sabotaggio del profitto e della rendita. Si dovranno creare le condizioni affinché l’astensione dal lavoro dei precari si renda praticabile, colpendo con ciò i gangli della produzione materiale e immateriale che oggi maggiormente sfruttano il lavoro dei precari, migranti e nativi”.

A quel tempo, il ragionamento venne troncato dalle tensioni e fratture che hanno accompagnato e poi seguito la giornata del 15 ottobre 2011, sicuramente il punto più alto della potenza conflittuale della condizione precaria. L’aggravarsi della crisi ha fatto il resto.

Abbiamo le forze per riprendere il discorso, come questo libro e la presentazione di Toni Negri ci invitano a fare, senza cadere, da un lato, nelle chimere della tentazione istituzionale, e, dall’altro, nella presunzione dell’autosufficienza individuale o nell’autoreferenzialità del singolo gruppo/collettivo? Il che, dopo il lungo e tortuoso cammino condotto, per trarre qualche insegnamento dalle battute d’arresto che abbiamo sperimentato, dal mio punto di vista significa: abbiamo le forze per mettere in pratica una effettiva politica del comune (al singolare) in grado di sperimentare una moneta del comune (a Milano come a Napoli), ovvero forme di autonomia finanziaria monetaria?

(Andrea Fumagalli)

 

NOTE

[1] Cfr. A. Fumagalli, “Monete digitali (criptomonete) e circuiti finanziari alternativi. Portare l’attacco al cuore dello Stato, pardon, dei mercati finanziari”.

 

 

 

 

 

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