Entro il prossimo 27 settembre, la Nota di aggiornamento al DEF – Documento di Economia e Finanza – (NADEF) deve essere presentata alle Camere per aggiornare le previsioni economiche e di finanza pubblica del DEF per l’anno 2024 e i due anni seguenti. Si tratta del primo documento in cui si delineano i criteri su cui imbastire il nuovo bilancio pubblico per il triennio successivo. Quest’anno, tale scadenza dovrà tenere conto del ripristino del Patto di Stabilità Europeo (il documento che tiene sotto controllo le leggi di bilancio dei paesi europei) dopo tre anni di congelamento a causa dell’emergenza Covid-19. Tale patto dovrebbe essere ripresentato in una versione meno stringente del passato ma, in ogni caso, per quanta i riguarda i paesi a maggior debito pubblico (come l’Italia), provvederà a ridurre i margini di manovra del governo. La congiuntura economica non è delle migliori: come già anticipato in un precedente articolo, la crescita del PIL sta rallentando velocemente (si stima una crescita quasi nulla nel II trimestre 2023, secondo Confindustria), gli investimenti sono frenati, i consumi incerti, mentre l’export di beni è in riduzione. Tale situazione è pure accompagnata da un aumento dei tassi d’interesse deciso dalla BCE, nonostante una forte riduzione del tasso d’inflazione. I salari restano al palo con una perdita media certificata dall’Istat di oltre il 6% in termini reali. I profitti invece vanno a gonfie vele, ma questo aspetto non è considerato dall’esecutivo degno di attenzione. Si preferisce, infatti, perseguire lo smantellamento del Reddito di Cittadinanza, con il risultato di favorire la crescita non solo dei poveri ma anche dei “working poor”. In questo quadro non certo ottimista, il Governo Meloni ha intenzione di insistere sul ridimensionamento delle tasse come unica misura di welfare, grazie alla possibile estensione della riduzione del cuneo fiscale (solo per i lavoratori dipendenti) e delle tasse sui profitti reinvestiti (solo a vantaggio delle imprese di medio-grandi dimensioni). Il costo di tale operazione, oltre a incrementare la distorsione nella distribuzione del reddito, richiederà il reperimento di risorse che andranno a scapito dell’erogazione dei servizi sociali, in primo luogo sanità e istruzione, con la speranza che tale riduzione della spesa sociale possa essere compensata dal ricorso ai soldi del PNRR. Ma anche da questo lato non si prospetta nulla di buono, alla luce del pesante taglio deciso dal ministro Fitto per quanto riguarda gli investimenti ambientali sul territorio.
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Settembre e ottobre sono mesi decisivi per il governo. Non meno importante è come si attrezza l’opposizione politica e sociale. I temi sul tappeto sono tanti, ma occorre definire le priorità e le istituzioni a cui rivendicare determinati obbiettivi. Alcune partite coinvolgono direttamente il governo, ma altre, e non meno importanti questioni, devono essere risolte dalle così dette parti sociali.
I diritti universali, l’erogazione dei beni di merito (scuola, sanità, previdenza e assistenza), chi e come si finanziano certi servizi sono l’alfa e l’omega della politica pubblica. Questi diritti hanno un costo (beneficio) direttamente proporzionale alle entrate fiscali. Allo stato dell’arte, per continuare ad erogare i beni di merito allo Stato mancano entrate fiscali pari a poco meno di due punti di PIL. Ogni qual volta la società rivendica la contrazione della pressione fiscale e contributiva, concorre alla riduzione dei diritti universali. La flat tax, così come le cedolari secche che erodono la base imponibile, al pari della defiscalizzazione degli aumenti contrattuali, sono incompatibili con lo Stato moderno. Se non vogliamo asciugare la già precaria macchina pubblica relativa ai beni di merito, dobbiamo avere una certa consapevolezza che ogni minore entrata, sia essa per ridurre le tasse sui profitti o sul lavoro, riducono i servizi pubblici che saranno compensati dal mercato. Più precisamente, ciò che otteniamo in termini di maggiore profitto e/o salari via riduzione della pressione fiscale, sarà compensata da maggiori uscite (spese) individuali ma a prezzi sistematicamente più alti di quelli praticati dal pubblico.
Il piano del ragionamento è propedeutico per comprendere cosa si può realisticamente chiedere allo Stato e cosa si deve chiedere al profitto.
La manovra economica che il governo si appresta a delineare fin dai primi giorni di settembre, cioè la nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (NADEF), è molto importante. Da un lato delinea i provvedimenti che realisticamente il governo intende adottare, dall’altro è l’ultima NADEF prima dell’entrata in vigore del Nuovo Patto di Stabilità Europeo. Sappiamo dalla contabilità programmatica del governo che il deficit deve scendere al 3,7% del PIL nel 2024 rispetto al 4,5% del 2023, ma il saldo primario non potrà rimanere in eterno prossimo allo zero. Il nuovo patto europeo non lo permetterebbe. Inoltre, dobbiamo considerare la crescita delle spese pubbliche legata all’aumento dei tassi di interesse sul servizio del debito che rimane, forse, il vero vincolo europeo. Infatti, dopo otto anni di riduzioni consecutive anche in termini nominali, gli oneri per il servizio del debito sono tornati a crescere di oltre il 10% nel 2021 e di oltre il 30% nel 2022. In aggiunta, le entrate fiscali sembrano avere raggiunto il picco alla fine del 2022; inoltre, le proiezioni delineano una contrazione delle entrate fiscali fisiologica e direi strutturale: diminuisce la crescita del PIL, l’inflazione e, forse, una politica che a margine cerca di implementare la propria politica di bilancio. Questa riflessione è importante per comprendere l’agibilità politica del governo, ma direi anche delle parti sociali. Se algebricamente è possibile immaginare una Legge di Bilancio pari a quasi 20 mld di euro per il 2024, è bene comprendere da subito il peso specifico delle poste che concorrono alla manovra economica. La riduzione del cuneo fiscale di 7 punti vale qualcosa come 12 mld di euro, mentre lo scivolo previdenziale poco meno di 1,5 mld di euro e il resto per la così detta produttività, cioè riduzione delle imposte degli aumenti contrattuali. Dal lato della spesa abbiamo una crescita degli interessi sul debito pubblico e qualche adeguamento per alcune poste di bilancio. Non pensate alla sanità o alla scuola. Queste partite sono interessante solo dalle risorse del PNRR.
In altri termini, tutti devono scegliere dove e come allocare queste risorse scarse. Personalmente dirotterei le minori (potenziali) entrate fiscali da cuneo e “produttività” verso la sanità e la scuola, lasciando un margine per riscrivere alcuni interventi fiscali legati alla tax expanditure. Sarebbe il caso di adeguare la tassazione sui profitti che rimangono troppo alti rispetto alla media europea.
C’è poi il nodo della ripartizione del reddito nel mercato tra profitti e lavoro, senza dimenticare l’erosione dei salari legati all’inflazione, avendo cura di intervenire nel mercato e non sulle entrate fiscali. Il primo e urgente provvedimento che deve essere reclamato al governo, in concorso con tutte la parti sociali, è quello di adeguare automaticamente i salari almeno all’inflazione core. Un secondo intervento è quello di modificare le regole di ingaggio nella contrattazione. Oggi il mondo del lavoro è coperto da un sistema contrattuale estraneo alla statistica. Se vogliamo restituire un po’ di potere al mondo del lavoro, cioè ricostruire almeno il principio liberale che tutti devono partire dallo stesso punto di partenza, è necessario ripensare la classificazione dei contratti teso a creare un minimo di forza politica al mondo del lavoro e quindi al sindacato. La finalità è semplice, se il mercato è fatto da capitale, lavoro e Stato, occorre modificare il peso specifico di queste istituzioni senza asciugare ulteriormente il soggetto pubblico.
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