Pubblichiamo la recensione, a cura di Afshin Kaveh, del libro Animalia di A. G. Biuso, di recente pubblicazione per Villaggio Maori Edizioni (2020, pp.186).

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Animalia (Villaggio Maori Edizioni, 2020, pp.186) è un libro che si presenta con evocativa puntualità, in un momento in cui il disastro ecologico, oggi palese anche nelle sue conseguenze epidemiche, si dimostra ormai irreversibile, ponendoci di fronte a delle sfide ormai imprescindibili. Per poterle affrontare, come ben dimostra Alberto Giovanni Biuso, lo sguardo dell’animale non-umano su di noi è quella chiave di lettura che può permetterci di riformulare la nostra collocazione sulla Terra.

Checché se ne dica, il libro di Biuso si inscrive nella corrente della critica antispecista e, seppur riconosca nel termine coniato da Ryder l’«equivoco nel suo uniformare la specificità animale alle discriminazioni intraspecifiche della nostra specie» allo stesso tempo rimane «comunque utile» per una prima netta rottura col «paradigma umanistico»; ed ecco dunque che «la critica allo specismo diventa segnale, cesura, fraglia, frattura» e istanza radicale «a favore di un nuovo più corretto paradigma antropologico ed epistemologico», individuando fin da subito «le radici speciste dell’umanismo e le radici umanistiche dello specismo». Animalia, ovviamente, non è di certo il primo tentativo di porre le premesse di una simile critica ma, pur riconoscendo i meriti dell’opera di «studiosi come Peter Singer e Tom Regan», Biuso coglie in essi quei limiti universalisti tesi «a includere l’animale nell’umano invece che l’umano in una animalità che è sempre plurale», infatti esso «non è opposto e neppure al di fuori dell’animalità ma ne costituisce uno specifico ambito». È a partire da quest’ultima prospettiva che l’opera di Biuso irrompe, attraverso il suo proprio punto di vista – totalmente scisso da un certo animalismo o ambientalismo per nulla conflittuali e che, senza mettere niente in discussione, discendono «il riconoscimento della necessità che guida il mondo naturale» e attribuiscono il «libero arbitrio al solo essere umano» applicando «al non umano canoni e criteri di liberazione tipici della nostra specie» – permettendoci di riguardare a ciò che siamo e a ciò che non siamo con occhi disincantati, rovesciando l’Uomo vitruviano di Da Vinci dal centro del cerchio cosmico, sconfessando «l’uomo misura di tutte le cose» di Protagora, ripudiando il macchinismo cartesiano attribuito al corpo animale non-umano e, dunque, accompagnandoci lungo i sentieri di una lettura atta a demolire e smantellare le pretese di supremazia della specie umana e dei suoi caratteri interpretati come vertice al di sopra di tutto, spodestando la tipica visione d’insieme prettamente egocentrica a favore di una ben più complessa rete biocentrica.

Le pagine di Animalia, organizzate in ventidue capitoli, si susseguono avventurandosi nella concezione di tutti quei dispositivi culturali che attanagliano il vivente e il vissuto, gli stessi che pongono noi animali umani come cardine centrale illudendoci «di essere i signori del mondo» e (tra allevamenti e laboratori) dei suoi abitanti non-umani, andando così a formare un tavolo antropocentrico che traballa sulle tre gambe dell’ontologico, dell’epistemologico e dell’etico e che Biuso – quasi come un saggio artigiano in uno scambio organico tra sé e l’oggetto della sua ricerca e della sua critica – distrugge, componente dopo componente, «a favore di una pratica antropodecentrica». Nel farlo, tra le tante cassette degli attrezzi procuratosi, fa propria la dialettica francofortese, da Marcuse, Horkheimer sino ad Adorno, oltre a recuperare l’In-der-Welt-sein heideggeriano, per poi comprendere la molteplicità degli enti, viventi il e nel mondo intero, come differenza, ovvero «ricchezza, confronto, molteplicità di forme, obiettivi, strutture per le quali, ad esempio, corpo e mente, materia e spirito, natura e cultura, non sono degli opposti» ma realtà complementari di un continuo mutamento temporale. Un divenire caratterizzante non solo l’animale umano ma, bensì, tutti gli esseri viventi (di cui «siamo parte e manifestazione»), i quali «si nutrono di informazione e di comunicazione», con sé, con l’altro, con l’ambiente che li circonda, interiorizzando, metabolizzando, acquisendo, interpretando e interscambiando ognuno nel proprio agire plurale, plurimo e molteplice.

Illudendosi della propria supremazia, Homo sapiens ha intensificato l’esercizio della coercizione sui suoi simili («in nome di valori presentati come ineludibili» come «lo stato, la sicurezza, il dio» all’interno di «un ordine che implica anch’esso l’utilizzo della violenza» innalzandola «a livelli assoluti»), sui viventi non-umani e sulla Terra attraverso un dominio violento scandito dalle fasi di domesticazione, estinzione e ingegnerizzazione, implicando la distruzione della biodiversità, di habitat e di risorse, viste sempre al di sotto di una lente di sfruttabilità economicistica. Ha dunque dimenticato «che non è la Terra, con tutte le sue specie, a dipendere da noi ma è l’Homo sapiens a non essere possibile senza la Terra», così come è ormai palese agli occhi di chiunque che «il pianeta può vivere senza l’umano» ma «l’umano non può vivere senza il pianeta».

Negli ultimi decenni, i tentativi di scoperchiare discorsivamente le relazioni di potere in tutte le sue sfaccettature, hanno portato spesso all’esaurimento della praxis in funzione di una semplice discorsività spesso immobilista, sterilizzata e, in questo, lo strutturalismo, il post-modernismo e la decostruzione derridiana hanno dimostrato, da molti punti di vista, tutti i propri limiti. La portata del disastro corrente non può più permettersi di immaginare certe pratiche linguistiche come punto d’arrivo, e non lo si dice per gettare alle ortiche la teoria: si è assolutamente consci che «per abbattere “il Tiranno” bisogna prima di tutto comprendere il labirinto dell’autorità». A tal proposito il libro di Biuso è invece un ottimo punto di partenza, intelligente, puntuale e illuminante laddove ancora non ci siamo resi conto che la nostra specie, quella che secondo i presupposti culturali sarebbe quella superiore, non è in grado di salvaguardarsi neanche da se stessa, presentandosi come causa e concausa del collasso che investe il mondo che siamo e abitiamo ma che, ahinoi, crediamo ingenuamente di possedere.

 

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