Dopo gli interventi di Franco Berardi “Bifo” e di Cristina Morini e Andrea Fumagalli, continua la riflessione e il dibattito sulle suggestioni aperte dall’incontro di Effimera “Sovvertire l’infelicità” del 3-4 ottobre scorso con il contributo di Gianni Giovannelli. A breve, pubblicheremo anche i primi interventi scritti e rielaborati dagli autori che ci sono già pervenuti e che man mano arriveranno.
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Le mie sono soltanto alcune brevi riflessioni, alla luce dei commenti e delle note che ho letto in lista, dopo il convegno: quelle di Andrea Fumagalli e Cristina Morini in particolare, ma anche quelle precedenti. Le ho riordinate, ma rimangono pur sempre legate al nostro dibattito, dunque all’immediatezza.
Il primo punto mi pare sia quello di evitare la separazione dei piani di esame; è vero, come ci insegna Tiziana Villani, che questi piani sono ormai sempre almeno mille ma questo non può e non deve precludere la ricerca di ciò che li raccoglie. Senza la capacità di individuare (secondo il punto di vista della condizione precaria) gli elementi di unificazione (dentro un disegno necessariamente eversivo, se non compiutamente rivoluzionario) delle numerose e diverse infelicità mi pare difficile poi sovvertirle.
La separazione è dunque, esattamente e lucidamente, il progetto del capitale finanziario, la traduzione in prassi egemonica di un disegno implacabile di sfruttamento (inteso come capacità di estrarre profitto mediante l’appropriazione di energia lavorativa altrui). La frammentazione e l’atomizzazione (possiamo anche dire la solitudine) sono il fondamento del potere in questo nostro tempo caratterizzato dalla condizione precaria dentro il villaggio globale e con la prevalenza (almeno tecnico politica) del lavoro cognitivo. Accettare il terreno del conflitto sociale mediante piani separati significa, necessariamente, diventare soggetti (individui e collettivi) subalterni, riottosi forse ma certamente sconfitti (non solo ora, dentro la tempesta; storicamente) nell’esercizio del nostro antagonismo. La questione del lavoro è dunque inseparabile da quella sociale complessiva e in questa ottica si muovono i capitani (ed anche i capitali) finanziari europei, ed anche i renzisti al governo.
Mi ero posto, da una particolare angolazione, il problema quando avevo scritto un articolo che aveva per oggetto la centralità, qui e oggi, della questione fiscale. Noto che questo rimane una sorta di anello mancante, sia nella prospettiva politica indicata al seminario da Giso Amendola come unica possibile e percorribile, sia nello scenario ben più tempestoso dipinto da Bifo con la consueta capacità di rendere bene la suggestione. Eppure è proprio mediante l’imposizione fiscale che si realizza concretamente il dominio, si articola il controllo dell’apparato, che si crea l’infelicità, che si rastrella il denaro. O no? L’imposizione fiscale sta alla base dell’uomo indebitato esaminato da Maurizio Lazzarato (l’imposizione fiscale crea il debito), piega il clamoroso (e importante) no del referendum greco e costringe Tsipras ad una mediazione davvero poco entusiasmante (poco consola discutere se fosse o meno inevitabile), riduce il reddito delle moltitudini (non solo europee), costringe infine il movimento sindacale di base italiano (che sembrava in piena espansione fino a poco fa) sulla difensiva, incapace di rispondere (per mancanza di risorse) alla cancellazione di un sistema di diritti che sembrava intangibile.
Io non credo, in tutta franchezza, che non siano possibili nicchie sperimentali davvero significative, se non si toccano, almeno nel programma e nella costruzioni, tutti i nodi del nostro odierno dilemma; e quando dico possibili non intendo, ovviamente, negare che in concreto queste esperienze non esistano, non siano generose, non siano importanti, non le senta comunque e a prescindere come mie. Quando dico possibili e significative pongo l’accento sul secondo aspetto, essendo il primo certamente necessario ma altrettanto certamente non sufficiente. Si tratta di inventare la maniera che consenta alle esperienze, fin nella loro genesi e nella loro ideazione, di essere percepite come elementi concreti, reali, veri, di resilienza e di resistenza. E questo non è possibile se non si toccano, tutti insieme e non separatamente, i nodi:
a) quale e quanto lavoro, pagato come e da chi
b) rapporto con le istituzioni statali e finanziarie, sia sul piano tributario fiscale sia sul piano assistenziale richiesto (chiedere finanziamenti comporta mediazione, corrispettivo economico e politico)
c) progetto, paletti e limiti richiesti ai soggetti che partecipano all’esperienza neo mutualistica, ovvero identificazione delle incompatibilità
d) comunicazione, che è anche brand, necessariamente ibrida fusione di forma e sostanza capace di generare estensione della cooperazione autonoma e perciò stesso (bisogna esserne consapevoli) conflitto
e) ridefinizione, qui e oggi, del rifiuto del lavoro in un tempo che si caratterizza per la coincidenza fra lavoro alienato e vita: escludendo di rifiutare la vita come rifiutare il solo lavoro?
La necessità della coalizione (intesa in via generale come unione e forza per affermare l’interesse di chi subisce) si porta dietro, non va nascosto, l’inevitabile questione degli agglomerati (non chiamiamole alleanze, perché porta male), ovvero di forme unitarie (persino nella veste del tradizionale chi usa chi). E va individuato l’antagonista principale. Chi è oggi l’antagonista principale? Il razzismo della destra estrema? Non credo, è pericoloso ma è anche un cane morto. Il movimento 5 stelle? Non mi pare proprio. O la variopinta banda della sinistra radicale? Puro antiquariato.
L’antagonista è il partito democratico, rappresenta l’autorità. Chi non lo capisce vive un tempo passato che non ritornerà, è un nostalgico. Il potere ha, con intuizione geniale, acquistato e occupato la sinistra politica, usandola con passaggi rapidissimi, ed ha imposto un cambio di passo. L’offensiva ha travolto tutto quello che si poneva sul cammino di questi nuovi barbari. Inutile cercare o evocare altre controparti, altri ostacoli. L’idea forza, il progetto futuro di un rifiuto del lavoro adeguato all’attuale forma del lavoro passa necessariamente attraverso la costruzione di una nuova dialettica negativa, di un diverso pensiero forte (magari accontentiamoci di un pensiero almeno nuovo) che si ponga quale antagonista al pensiero vuoto del PD, costruito solo sul materialismo gretto della finanza e dell’irrisione di qualsiasi valore.
Bisogna avere il coraggio politico di rifiutare qualsiasi compromesso e qualsiasi mediazione sia con l’apparato renziano sia con chiunque intenda, per un motivo o per un altro, avere rapporti tecnici e politici con questi gendarmi incaricati di ripristinare l’ordine a Varsavia.
A mio modo di vedere solo con una posizione chiara e non equivoca sarà possibile raccogliere fondi e realizzare progetti, piccoli o grandi, di nicchia locale o di respiro internazionale.
Operativamente, per raccogliere l’invito alla concretezza:
a) organizzare una redazione e dar corso ad una rivista on line, quindicinale, con un minimo di almeno 15 redattori. Unità sarebbe un bel titolo, se non se fosse appropriato il PD. Ma Oxi mi pare libero e riassume la questione; partiamo dal rifiuto (del lavoro). No al biopotere, al controllo, alla vita/lavoro. Oxi. Trovare subito i fondi per pagare (senza esagerazioni) un paio di redattori, fantasiosi ed emotivamente coinvolti. L’importante è assicurare la collaborazione, al momento, nella forma esplicitamente antagonista. La rivista deve mantenere l’eterogeneità come DNA, come patrimonio, dalle teorie economiche di Marazzi alle suggestioni di Bifo o di Francesca Coin, dalla passione puntuale, elaborativa, concreta e assidua di Cristina Morini e Andrea Fumagalli alla presenza attiva di Pianoterra/Cantiere, passando magari dai Millepiani di Tiziana Villani, alle ricerche di Cominu e Vercellone;
b) per entrare nella materia che conosco, il diritto del lavoro, va ripensato l’intera struttura dell’apparato di costruzione della vertenza ovvero dell’uso precario del Tribunale. Va ripensato alla radice. Ci vuole uno staff tecnico, con avvocati architetti medici matematici filologi pubblicitari fisici muratori falegnami. Va costruita dentro ogni vertenza la cooperazione sociale a fini di antagonismo. Con una cassa, costruita sull’attivo di volta in volta realizzato, nel tradizionale, ma ora rivisitato, spirito mutualistico. Si tratta di agire, quali comunicatori sociali e agenti sovversivi, dentro l’esistenza piegata al lavoro, di ricondurre la diversità dei problemi all’unità della richiesta di tutela e difesa. Un diritto del lavoro della resilienza appoggiato da un soccorso rosso resiliente. I laboratori territoriali in cui l’operazione si presenta percorribile sono innanzitutto Milano, Roma, Bologna; ma ovunque si può tentare. Ecco. Questa è una forma di coalizione per usare un vocabolo caro ai nostri cugini e all’immaginario collettivo.
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