Il 1 maggio di quest’anno ha segnato il ventennale della prima May Day Parade, che ha caratterizzato l’inizio di un nuovo tipo di conflittualità sociale sul tema della lotta all’emergente condizione precaria.

A vent’anni di distanza, sembra che quella stagione non sia mai esistita. Non perché rimossa dall’ideologia dominante (che sempre cancella tutto ciò che è scomodo e sottopone a critica la sua egemonia), ma soprattutto – il che è più grave – rimossa da quelle stesse forze di movimento e sindacali che dicono di muoversi sullo stesso fronte del conflitto.

La manifestazione del 1 maggio di quest’anno a Milano è stata incredibile, per certi versi paradossale. Non si ha ricordo, negli ultimi decenni, di una manifestazione con parole d’ordine, posture e slogan così antiquati.  Una manifestazione composta quasi esclusivamente da militanti (maschi) di una certa età, facenti parte dei più disparati e variegati gruppuscoli del marxismo – leninismo ortodosso, esito di decenni di scissioni ideologiche. I lavoratori in carne ed ossa erano veramente pochi, per lo più migranti. Gli slogan inneggiavano al potere operaio. Riferimenti alla condizione precaria assai rari. Quando si faceva riferimento al tema del reddito, esso era sempre e comunque subordinato al ruolo del lavoro.

Come è potuto accadere?

Proviamo ad azzardare qualche ipotesi, per iniziare una discussione franca e schietta.

1. Nell’ultimo anno, abbiamo assistito a un aumento della conflittualità sindacale nei settori della logistica. Queste lotte (a eccezione di quella dei rider) sono state guidate da sindacati strutturati (come il Si-Cobas) che hanno un’impostazione leninista classica, secondo la quale lo sfruttamento si colloca unicamente nella condizione lavorativa manuale e subordinata. Si tratta di una posizione non dissimile da quella tradizionale della Cgil. Non a caso Landini, il 1 maggio a Terni, ha ribadito la centralità del lavoro manuale, sottopagato e precarizzato. A differenza della Cgil, i sindacati autorganizzati chiedono meno concertazione al ribasso e più capacità conflittuale. L’ideologia prevalente, che deriva dalle lotte del secolo scorso all’interno della fabbrica taylorista, è che lo sfruttamento sia legato solo alla condizione lavorativa.

Le Mayday degli anni Duemila avevano invece posto al centro un diverso punto di vista, quello della precarietà esistenziale e differenzialmente distribuita, il punto di vista precario, l’ontologia precaria, allargando il concetto di sfruttamento non solo alla condizione lavorativa ma anche a quella esistenziale, esperienziale, affettiva, reddituale, aggravata proprio dall’intermittenza lavorativa. Si noti che per Marx lo sfruttamento corrisponde proprio al furto del tempo di lavoro non retribuito (pluslavoro) da cui il capitalista trae il proprio profitto. E ciò a prescindere dalla condizione lavorativa, sia essa manuale o cognitiva, subordinata o eterodiretta, salariata o a ritenuta d’acconto. È infatti quella parte della giornata lavorativa produttiva non pagata a definire una condizione di sfruttamento.

Nel capitalismo bio-cognitivo attuale, le facoltà umane sono messe e al lavoro e a valore. Lo spettro dello sfruttamento si è fortemente ampliato ed è diventato sicuramente più pervasivo di quanto non fosse negli anni del fordismo. A differenza di quel periodo, dove la separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra tempo di lavoro e non lavoro erano ben nette, oggi siamo volenti e nolenti, con un differente grado di intensità, tutti inseriti in un meccanismo di sfruttamento e di auto-sfruttamento.

2. La maggior parte del sindacalismo di base è ancora fortemente ancorata alla concezione del lavoro come attività subordinata (salariata) e finalizzata alla produzione o al trasporto di merci fisiche. Le figure di riferimento, oltre a quella classica dell’operaio, sono quelle del comparto della logistica, la cui forza lavoro è prevalentemente migrante e maschile. Spesso e volentieri, si tratta di situazioni di lavoro fortemente precarizzate, dove i contratti di riferimento non vengono applicati. Dietro tutto ciò c’è di fatto l’illusione di poter individuare il soggetto di riferimento, che funga da avanguardia per innescare un processo rivoluzionario.

Purtroppo, l’attuale valorizzazione capitalista si base invece sullo sfruttamento di un’eterogeneità di prestazioni di lavoro, che non possono ridursi a un unicum. Sono le differenze delle varie soggettività coinvolte nell’attività di produzione a costituire la base dell’odierna accumulazione. L’emergere della condizione precaria segna proprio il dispiegarsi di questa frammentazione, la cui ricomposizione non può avvenire esclusivamente all’interna della propria condizione lavorativa. La MayDay ha cercato di dare rappresentazione a questa molteplicità, facendo leva sulla richiesta di un reddito di base incondizionato e sulla ricchezza di esperienze dei precari e delle precarie, capovolgendo la triste immagine della precarietà come condizione passiva, temporanea, in altre parole “sfigata”.

Di tale ricchezza propositiva oggi si sono perse le tracce, tra rassegnazione, velleitarismo e autoreferenzialità.

3. La Mayday ha cercato di cogliere le trasformazioni del suo tempo, anche inaugurando nuovi sentieri di comunicazione e un nuovo immaginario, che oggi appaiono del tutto persi e dimenticati. L’icona San Precario, il subvertising di Serpica Naro sono solo due tra i più noti esempi. Lo snellimento della comunicazione, l’utilizzo congiunto di immagini e parole (la forma e la sostanza che si alimentano sinergicamente), lo svecchiamento del linguaggio “sindacalese”, il passaggio dal volantino al flyer, sono tutti elementi in grado di parlare ad una comunità sociale, ampia e variegata, prevalentemente giovanile, le categorie che maggiormente subivano e subiscono il ricatto della precarietà. Lo stesso concetto di Parade che va a sostituire il corteo preconfezionato e ingessato contribuisce a creare un contro-immaginario libero e positivo, dove il lamento lascia spazio alla voglia di riconquistare un futuro che il presente vuole negare.

Non stupisce quindi che le MayDay erano fatte di vari colori e attraversate dalle soggettività più disparate, dove la presenza giovanile, delle donne e dei migranti di seconda o addirittura terza generazione spesso ne costituivano l’asse portante. Era espressione dell’auto-organizzazione sociale.

Al confronto, la manifestazione di questo 1 maggio, vent’anni dopo la prima MayDay, appare un ritorno al passato, attraversato dall’autoreferenzialità dei vari gruppuscoli, che si scannano per prendere la testa del corteo, magari senza rispettare i patti concordati, con atteggiamenti machisti che impediscono alle altre componenti di parlare, soprattutto se donne, dove la presenza dei giovani è minoranza.

E la pioggia battente che ha accompagnato il primo maggio è stata forse simbolo anche della nostra impotenza, in questa fase.

 

 

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