Un manifesto appeso presso il centro di reclutamento autisti di Uber a Londra mostra una foto di un uomo sorridente di nome Asif che dice: «Io guadagno tre volte di più rispetto al mio precedente incarico di corriere. Con Uber, non devo preoccuparmi delle fatture. Mio figlio vuole una giacca nuova? Gli dico, compratene due se vuoi». La realtà è invece molto diversa: Uber vuole che i conducenti rimangano lavoratori “autonomi” anziché essere considerati dipendenti, il che l’autorizza a non rispettare alcuni diritti come il salario minimo e le ferie pagate. Attualmente i conducenti Uber in UK guadagnano poco più di 5 sterline l’ora e non hanno diritto a ferie o permessi retribuiti. Per questo, circa tre anni fa alcuni lavoratori hanno deciso di citare l’azienda in giudizio per avere riconosciuti i diritti fondamentali previsti per i lavoratori indipendenti.

Il 19 dicembre scorso la Court of Appeal di Londra ha per la terza volta dato ragione ai lavoratori di Uber, decretando che è illegittimo, da parte dell’azienda di Sylicon Valley, negare loro diritti basilari come un salario minimo garantito e le ferie. Questa sentenza segue le due precedenti, rispettivamente dell’Employment Tribunal nel 2016 e dell’Employment Appeal Tribunal nel 2017.

Si tratta di una decisione importante, che mette con le spalle al muro Uber, che si trova costretta a rispettare i diritti elementari dei suoi dipendenti, ma anche il governo conservatore che finora (e non unico in Europa) ha abbandonato i lavoratori della gig economy al proprio destino.

Protagonisti di questa vittoria legale e politica sono alcuni lavoratori sostenuti dall’Independent Workers’ Union of Great Britain (IWGB) e dalla General Municipal Boilermakers (GMB). Il primo è un giovane sindacato autonomo costituitosi nel 2012 e che rappresenta principalmente segmenti di forza lavoro tradizionalmente non sindacalizzata e poco rappresentata: dai lavoratori migranti a basso reddito, come gli addetti alle pulizie e alla sicurezza nei supermercati, ai lavoratori della gig economy, come i rider e gli autisti Uber. Nel novembre scorso ha organizzato il primo sciopero nazionale dei conducenti di Uber, quando i guidatori di Londra, Birmingham e Nottingham hanno spento la loro app per protestare contro le basse retribuzioni. Nel luglio 2018, questo sindacato ha lanciato una campagna in cui si chiedeva al sindaco di Londra di intervenire per lo sfruttamento all’ingrosso dei conducenti di minicab da parte di operatori come Uber e Addison Lee. L’IWGB ha anche intrapreso azioni legali contro altre società di gig economy come Deliveroo, CitySprint e Green Tomato Cars.

Il GMB è invece un sindacato tradizionale, le cui radici affondano nella storia delle General Union di inizio Novecento in Gran Bretagna, i cui membri lavorano in quasi tutti i settori industriali, nella vendita al dettaglio, nella sicurezza, nella scuola, nella distribuzione e nei servizi pubblici, nell’assistenza sociale, nella sanità e nella pubblica amministrazione.

Alcuni dei ricorrenti e le stesse organizzazioni sindacali, pur manifestando comprensibile soddisfazione per l’esito di una battaglia che si trascinava da almeno tre anni, hanno però subito ricordato come la lotta non sia finita: ora si tratta di estendere la vittoria dei lavoratori che hanno portato in tribunale una società da svariati milioni di sterline a tutti: «Ora è tempo che il governo e il sindaco di Londra agiscano», ha affermato Yaseen Aslam, uno dei ricorrenti, sollecitando urgenti provvedimenti legislativi in materia.

Uber ha preannunciato un ennesimo appello contro la sentenza («uno stratagemma per ritardare gli inevitabili cambiamenti del suo modello di business» secondo James Farrar, altro ricorrente e presidente della IWGB), ma la battaglia ora si sposta decisamente sul piano politico, per l’attuazione dello status di lavoratore per tutti i conducenti.

Nell’estate del 2016, Theresa May aveva annunciato l’impegno ad agire per i lavoratori, in particolare sul problema dello sfruttamento nella gig economy. Ancora nel 2017, i Tories avevano rinnovato il loro impegno (a parole) addirittura in un “Manifesto”. Tuttavia, come era prevedibile, la montagna ha partorito il topolino: la Taylor Review of Modern Working Practices, commissionata dal primo ministro per formulare raccomandazioni su come affrontare i problemi sollevati dai conducenti di Uber, è durata 10 mesi e consiste in un documento di 116 pagine pubblicato nel luglio 2017. In questo documento, il Secretary of State for Business, Energy and Industrial Strategy non ha riconosciuto adeguatamente che la natura del problema è costituita da imprese che privano illegalmente e consapevolmente i loro lavoratori di diritti, ma ha preferito adottare la narrazione padronale, che parla di “quadro giuridico incerto”. Inoltre, il documento finale neanche richiede una seria estensione dei diritti per i lavoratori della gig economy.

Suona quindi fumoso il Good Work Plan annunciato dal governo il 17 dicembre (cioè due giorni prima della sentenza contro Uber). Si tratta di un documento di 64 pagine che introduce modifiche al diritto del lavoro in Gran Bretagna, con l’intenzione formale di migliorare la protezione per i lavoratori interinali e per gli atipici. Peccato che, solo per limitarci a ciò che concerne la gig economy, il testo preveda genericamente una legislazione che unifichi i test di valutazione della condizione occupazionale con quella fiscale e un altrettanto generico diritto a richiedere un orario di lavoro più stabile dopo 26 settimane di contratto. Va precisato, fra l’altro, che il diritto del lavoro inglese distingue gli employee (ovvero i lavoratori subordinati in senso stretto) dai worker, figura che rappresenta una specie di ibrido fra lavoratori autonomi e subordinati. E le due precedenti sentenze, pur riconoscendo agli autisti di Uber lo status di worker, negavano l’accesso a quello di employee.

L’IWGB sostiene che le riforme annunciate dal governo non serviranno a risolvere il problema e il 21 dicembre, in una lettera di 48 pagine, il segretario generale dell’organizzazione, Jason Moyer-Lee, alla luce dell’inconsistente azione del governo in questi ultimi tre anni, ha invitato i parlamentari a presentare una mozione di sfiducia nei confronti del Segretario di Stato, trovando il sostegno immediato del Labour Party.

D’altronde lo stesso Moyer-Lee ha dichiarato che c’è urgente bisogno di un reale aumento dei diritti per i lavoratori precari e di un piano serio per l’applicazione della legge, visto che «sta diventando sempre più ridicolo per le cosiddette società della gig economy sostenere che la legge non è chiara quando perdono praticamente tutte le cause nei tribunali

[…]. Aziende come Uber continuano a farla franca privando i loro lavoratori di diritti fondamentali perché il governo non fa praticamente nulla per far rispettare il diritto del lavoro e le cosiddette riforme dei Tories annunciate questa settimana non faranno nulla per cambiare la situazione».

Rimanendo in attesa della pubblicazione del testo della sentenza del 19 dicembre, pensiamo quindi che la battaglia politica e sindacale intorno alle richieste dei lavoratori britannici di Uber e delle altre aziende del settore in UK è ancora lungi dal dirsi finita, tuttavia è indubbio che il successo legale dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali britanniche, insieme a quello dei rider francesi di Takeiteasy, grazie a un’analoga sentenza della Corte di Cassazione del 28 novembre scorso, aprono una interessante e significativa breccia nel muro di gomma della gig economy nel continente europeo.

 

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