Nel 2008, uno studente di 15 anni, Alexis Grigoropulos viene ucciso da un poliziotto con un colpo di pistola durante le poderose manifestazioni contro la crisi che iniziava ad attanagliare la Grecia, per via dei mutui subprime statunitensi. Alexis, come un’intera generazione, si mobilitava in un’ Europa ancora prigioniera della logica discriminatoria e fallimentare della crescita infinita, che aveva alimentato il mercato speculativo dei mutui e che riversava sui paesi “deboli”, a crescita 0, i PIGS gli effetti devastanti di quasi 30 anni di neoliberismo.

Ieri, la notizia che la seconda più antica Università della Grecia, la Capodistriana, nata nel 1835, chiude i battenti per impossibilità di continuare  le attività didattiche e amministrative, testimonia il rovesciamento della crisi del capitalismo finanziario nell’economia del debito. Stessa sorte, in queste ore, avranno altri 8 atenei in Grecia e a Creta che, per protesta, hanno sospeso le attività.

Dal 2010, la crisi del debito sovrano, subentrata senza soluzione di continuità a quella proveniente da oltreoceano, è stata diretta da BCE, UE e FMI imponendo a Grecia, Spagna, Irlanda, Italia e Portogallo, ma in primo luogo alla Grecia, il quasi totale smantellamento di quel poco di impresa pubblica e di servizi che consentiva all’impresa privata estera di lucrare sui risparmi e i salari di un popolo.
Come si sa, la reazione della popolazione greca ai tagli, ai ricatti e ai diktat dell’Europa  è stata ed è senza precedenti: mai, dopo la fine della seconda guerra mondiale, escludendo la protesta studentesca e operaia del 1968-’69, si era vista un’intera popolazione mobilitarsi contro l’espropriazione per deficit di uno stato-nazione.
L’Università di Atene chiude a causa della mobilità forzata di 1.349 impiegati amministrativi, pari al 40% del personale, ad altre amministrazioni, che ha lasciato gli atenei vuoti, bloccando qualsiasi tipo di attività. Ma oltre a ciò, nel triste comunicato con cui il Senato accademico annuncia la fine del prestigioso Ateneo dei Balcani c’è anche altro:

“… l’incomprensibile insistenza del ministero della pubblica istruzione e delle religioni, delle riforme amministrative e dell’e-government in scelte che minano direttamente l’istruzione superiore delle nuove generazioni in Grecia, che sono la sostanziale speranza per superare la crisi sociale e finanziaria nei prossimi anni, non può in nessun modo essere accettata…che i ministeri della pubblica istruzione e delle riforme con calcoli di contabilità infondati e approssimazioni, indegni delle istituzioni responsabili di uno stato civile, e nella più totale opacità, emarginano la prima università del paese e dei Balcani, che offre ininterrottamente dal 1837 un importante contributo per la didattica, la ricerca e la società, contribuendo allo sviluppo del paese. Il Senato, quindi, decide di ricorrere ai tribunali competenti del paese e a quelli europei, sulla base dei suoi diritti costituzionali e delle Convenzioni Internazionali sullo spazio comune nell’istruzione superiore…”

Dunque non casualmente “riforme amministrative ed e-government” sono tra le cause della sospensione della produzione di sapere accademico, in assenza di alternative. I baluardi tecno-burocratici immessi a forza  nel corpus della formazione dal Processo di Bologna (insieme con l’omologazione della valutazione) per adeguare e “rinnovare” l’università rendendola compatibile con la logica privatizzante d’impresa è tra le cause principali della débacle di quel sapere e di quella istituzione, nel paese venduto all’Europa per compensare con la speculazione il debito accumulato.

Ma c’è di più: la mancanza di un’alterantiva alla formazione pubblico-privata, cioè l’assoluta indigenza, il tragico deserto che destre e sinistre negli ultimi 15 anni in Europa hanno attuato, letteralmente violentando e distruggendo quanto di comune e cooperativo c’era dentro e fuori le società accademiche  e i luoghi di formazione, non consente oggi alla Grecia e forse non consentirà a più di una generazione di giovani, studenti, precari e disoccupati di istituire alcunché.

Ciò che a questo punto è davvero urgente creare, fuori dai tradizionali luoghi della formazione, e prima dell’eventuale contagio, 100 università balcaniche fondate sui saperi comuni, autofondate da comunità di studenti, insegnanti, amministrativi. E farlo anzitutto in Grecia, ove il coagulo di genti che si oppongono al deserto dei Tartari è stato maggiore e di più lunga durata; ma anche là ove gli effetti della crisi continuano ad essere occasione di  devastazione dei residui 900eschi di welfare state, come in Portogallo, Spagna, Italia.
Qui e là è sempre più necessario praticare e progettare reti autorganizzate di diffusione di saperi e istruzione, che vivano nell’autoreddito, in forme di mutualismo sganciate dalla micidiale legge della quantificazione dell’orario di lavoro.
Tentare questo, imponendo agli sponsor privati di pagare per la formazione, in cambio della vita di più di una generazione di abitanti del pianeta sembra essere una giusta e affatto pretenziosa rivendicazione. E stavolta senza mediazioni di sindacati, corporazioni e lobby di partito, a cui le genti d’Europa già da tempo hanno sottratto legittimità e consenso.

 

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