L’esito della tornata amministrativa, nella Milano reduce dalla sbornia di Expo 2015 era scritto sin dalla chiusura dei tornelli del sito espositivo…solo che era sbagliato.
Se la cavalcata arancione del 2011 aveva spodestato la ventennale esperienza di destra all’insegna di partecipazione, apertura e civismo, la città-metropoli ha assistito nelle ultime settimane ad una campagna elettorale all’insegna di un fair-play sospetto, in cui la specualrità dei programmi in materia di sicurezza, decoro, nuova edificazione, non ha scaldato i cuori di un elettorato sempre più distante dall’urna: 13% in meno in un lustro, quasi un terzo dei votanti smarriti nell’arco degli ultimi 15 anni.
Le manifestazioni dell’anomalia meneghina non erano comunque mancate nei mesi di avvicinamento alle urne: dapprima una “triquetra” di manager, poi risolta in un confronto a due voci dopo la debacle securitaria di Passera. Quindi il pit-stop pentastellato, in bilico tra democrazia digitale e derive dirigiste, che aveva sostituito una candidata marchiata di “poco appeal” con un compassato quanto silenzioso avvocato dalla chioma barocca. Infine delle primarie molto “piddine” che confermano la figura di Sala, ex-direttore generale del Comune in età Morattiana ed ex-AD dell’esposizione universale, senza chiarire il gap di consenso determinato da una figura più cara a Berlusconi e Renzi che alla sinistra che aveva accompagna Pisapia alla rinconquista della città. Archiviata la ricandidatura dell’ex sindaco arancione e della successora Balzani (do you remember?) e al netto degli endorsement sulla stampa di sinistra per il nostro commissario straordinario, Sala non buca lo schermo e non fa breccia nei cuori. E con il movimento 5 stelle che a Milano storicamente si ferma al di sotto delle aspettative, Parisi imbrocca un sostanziale pareggio con percentuali da prefisso telefonico a distanziare i pretendenti al trono.
Il dato, ponderato con gli enigmatici esiti di Roma, Torino e Bologna, è poi inquietante per mr. Renzi e racconta di una città meno expo-entusiasta, gentile e in ripresa di quello che il claim strartupparo indicherebbe. Di qui a due settimane il ballottaggio vedrà i programmi pendere da questa o quella parte per incantare i grillini, ago della bilancia, croce e delizia dei responsabili di campagna, nemici giurati del premier eppure non necessariamente disponibili a riconsegnare le chiavi di mediolanum a Forza Italia (che per altro porta a casa il doppio dei voti della Lega Nord).
Fuori dai grandi accorpamenti, la sinistra radicale (in questi anni piuttosto silente) tiene la posizione senza assorbire lo scontento per la scelta di Sala e con la vocazione di tenere un presidio più attivo in consiglio comunale dopo una stagione in riserva. Se il PD perde voti a cinque cifre e SEL a quattro, il comandante in capo Beppe Sala si ferma a quasi 100 mila voti in meno di Pisapia cinque anni fa. Comunque la si pensi molti, anzi, troppi.
Altro tema dirimente, oltre a un ballottaggio non scontato, è quello delle zone che sull’esempio romano si son fatte “municipi” con competenze e gestione di cassa. Decisione assai interessante sotto il profilo politico, inquietante data la concomitanza di passaggio dal monocolore arancio ad un mix che consegna alla destra le chiavi di ben cinque municipi.
La tornata dello scorso weekend ci parla di città-stato i cui risultati sono difficilmente leggibili a Milano con gli occhi di Roma e a Napoli con lo sguardo di chi lavora a Torino o studia a Bologna. A Milano la disaffezione, il senso di disagio di fronte all’identità di programmi, la fiacchezza di una campagna senza visione, tengono tutti a casa e smentiscono al tempo stesso la passione per la retorica dell’innovazione, del marketing turistico internazionale, per l’’imprenditorialità dei maker rintanati nei coworking che non trova riscontro nei portafogli, nel welfare e nei dati sulla disoccupazione. Il vento della #NuitDebout appassiona dalla distanza ma non soffia, la bava della consultazione scuote anche meno. Milano è ferma al bivio, forse in cerca di alternative ai percorsi tracciati in tempi recenti così come a quelli consolidati. Quelli che “dal basso” concessero un speranza a Pisapia e quelli certi che le redini sarebbe rimaste ben salde in mano al PD, si ritrovano uniti in una consapevolezza limpida eppure evanescente dentro e fuori le urne. Molte le previsioni azzeccate in questi lidi: la governance privatistica della città metropolitana, l’esito infelice del post-Expo, l’accartocciamento culturale della “Milano città aperta” in “Milano città spugnetta” per non dire della nuova stagione di sviluppo verticale e cementizio dell’urbe, che illumina sulla nuova geografia dei poteri che si affacciano in città. La metropoli esclusiva si conferma oggi più che mai una metropoli escludente. Non c’è e non ci sarà spazio per tutti e specialmente non ci sarà spazio per restare in panchina a osservare distrattamente lo scorrere degli eventi. Non è questa un’indicazione cui appellarsi per un ripescaggio dei movimenti sociali, lì la prognosi è ancora riservata, eppure Milano, oggi più che mai, urla insoddisfazione e #diserzione, pardon, disaffezione.
Immagine in apertura: 30 maggio 2011, piazza del Duomo, festa per l’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco di Milano
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