Questo testo è un estratto del documento “Bisogno di futuro. La sfida del reddito di base”, redatto tra marzo e aprile 2017 e disponibile in forma integrale qui. Il report, è sintesi di un dibattito pubblico svoltosi in più fasi, sarà anche diffuso nei prossimi mesi in occasione dei diversi appuntamenti che la Rete Reddito Italia (BIN) organizzerà in giro per il Paese.

L’obiettivo dell’iniziativa (quattro incontri), avviata, ideata, promossa e realizzata a Roma dall’Associazione Oltre la Crescita, in collaborazione con Bin Italia e K-Alma, è stato di costruire – anche a fronte della crescente e trasversale attenzione intorno al tema a livello internazionale, con tratti molto particolari in Italia – un’occasione ed un percorso di confronto intorno al tema del reddito di base ed alle sue connessioni con le trasformazioni del lavoro legate anche all’automazione tecnologica.

Riportiamo i punti emersi come più significativi da questa esperienza di riflessione e di dialogo, cui tutti i partecipanti hanno contribuito attivamente.

 

  1. Produttività sociale, lavoro salariato e reddito di base

Nel modello di società e di economia dominante in cui tutto è messo a valore, ma solo in chiave produttivista, è definito “ufficialmente” lavoro solo quello salariato e autonomo certificato come tale e quindi in qualche modo remunerato, come condizione per sopravvivere. Ma che cosa si intende per lavoro? Solo l’attivazione che produce ufficialmente “valore aggiunto” (ma quale e per chi?) ed è ricompensata con un reddito/stipendio? Può essere questa l’occasione per ripensare il lavoro anche in termini di qualità e di desiderio? La crisi del lavoro standard può rappresentare l’opportunità di esprimere una serrata critica al modello produttivista? Oppure possiamo e dobbiamo considerare attività produttiva anche quell’attività di vita che produce ricchezza “sociale”? La sfida consiste nel pretendere che le attività che contribuiscono all’interesse generale siano valorizzate anche attraverso il reddito di base. Dovremmo abituarci a chiedere alle persone cosa possono offrire alla società, non solo in termini di produttività economica, ma di dotazione di partecipazione alla crescita sociale, di valore aggiunto sociale di cui possono essere portatori. In tal senso una misura di reddito di base (quindi non condizionato al lavoro) può essere interpretata anche come riconoscimento del contributo offerto da ciascuno alla vita sociale. Il reddito incondizionato rompe il meccanismo del bisogno perché consente di esercitare il diritto di scelta alla propria occupazione in una società altrimenti fondata interamente sul mercato.

  1. Una società fragile

Nella società della crescita (a tutti i costi) e dei consumi, dell’innovazione tecnologica e dell’automazione, siamo diventati, quasi paradossalmente, la società più fragile di tutti i tempi, poiché dipendiamo letteralmente e pressoché totalmente dall’esterno – siamo incapaci di auto sostentamento, cioè acquistiamo su un mercato impersonale tutto ciò di cui abbiamo bisogno (cibo, servizi, abiti, ecc.). La riflessione sul reddito di base può rappresentare anche uno stimolo per mettere a fuoco il tema della sostenibilità ambientale, contribuendo in questo senso anche alla transizione ecologica, necessaria e ormai urgente per superare il modello attuale di società fondato solo sulla crescita economica e produttiva. In questo senso, urge anche una visione eco-sistemica del reddito di base: il singolo che riceve il reddito deve tener conto di sé, degli altri e dell’ambiente che lo costituisce. Il reddito restituisce al singolo e al mondo circostante quota parte della ricchezza prodotta da persone o processi che operano in un contesto. Non esiste una ricchezza prodotta senza un contesto naturale e vitale. Per questo, nel pensare al reddito, dovremmo tener conto degli esseri umani, come della natura circostante. Che significa anche tener conto della necessità di ridurre il processo di mercificazione, da un lato, e di consumo di energia, dall’altro. Il reddito di base può essere una delle chiavi necessarie per entrare nel nuovo millennio con lo sguardo rivolto al futuro ed in grado di rispondere a più piani: dalla redistribuzione delle ricchezze alla libera scelta del lavoro; dalla costruzione di nuove relazioni sociali ad una nuova partecipazione alla società; da nuove forme di cooperazione umana alla critica alle attività energivore…, insomma la chiave del reddito pone il tema di una nuova idea di società e di mondo in cui vivere. Non è la panacea, ma introdurlo e usarlo in maniera critica individuandone le potenzialità in essere, significa ridare forza al possibile e dunque individuarlo come uno strumento tra gli altri per un’alternativa concreta al paradigma sociale, economico, culturale e politico dominante.

  1. Diritto al lavoro e diritto al reddito di base

Non c’è alcun conflitto tra il diritto al lavoro e il diritto a ricevere un reddito di base. Piuttosto si tratta di promuovere il diritto alla scelta del lavoro. Il reddito garantito contribuisce ad aumentare il potere contrattuale dei lavoratori, migliora la qualità della prestazione lavorativa e la qualità della vita, aumenta i salari, diventa garanzia del diritto ad un lavoro congruo e, non da ultimo, favorisce la crescita culturale. Allo stesso tempo, è garanzia di uguaglianza, diminuisce i nuovi conflitti sociali (garantiti/non garantiti, noi/loro, cittadini/non cittadini, poveri/più poveri, ecc.) a differenza delle politiche pubbliche inadeguate e miopi degli ultimi decenni che hanno prodotto un impoverimento generale alimentando un nuovo conflitto orizzontale, una nuova guerra tra poveri. Questi fattori mettono in luce proprio il rafforzamento dei diritti dei lavoratori che il reddito di base porta con sé, oltre che il miglioramento dell’efficacia del welfare pubblico, dal momento che esclude la mediazione burocratica che caratterizza le attuali forme di sostegno al reddito nate dalle politiche di austerity e privatizzazione del welfare.

  1. Automazione e futuro del lavoro

Un welfare pubblico che supporti la libertà dal bisogno L’istituzione del reddito minimo garantito è stata pensata e realizzata per fronteggiare situazioni di bisogno o di disoccupazione; oggi si tratta invece di dare più forza e visione e di completare questa esperienza in un nuovo diritto universale ad un’esistenza libera e dignitosa (lo potremmo chiamare ius existentiae) che consenta ad ognuno di poter disporre di quella libertà di autodeterminazione produttiva ed esistenziale, nella libertà dal bisogno. Una libertà dal bisogno che le nuove tecnologie già rendono in parte obiettivamente possibile. Un’idea di mondo che può essere realizzata anche se, certamente, non sarà il prodotto spontaneo delle dinamiche produttive, ma implica una “grande trasformazione” (per dirla con K. Polanyi) dello Stato sociale che lo renda coerente con l’innovazione e gli stili di vita del nuovo millennio. Ma un uso più responsabile delle tecnologie sotto il profilo sociale – non guidato solo dalle logiche del profitto – è possibile e soprattutto necessario, a partire dalla redistribuzione delle ricchezze sociali prodotte e accompagnando il progresso e l’evoluzione tecnologica con azioni e strumenti capaci di supportare il progresso civile.

  1. La governance del reddito di base – chi tiene le fila?

Tra i più strenui sostenitori del reddito di base incondizionato a livello internazionale (seppur fortemente selezionato) ci sono oggi gli stessi giganti della digital economy (Google, Facebook, ecc.) cioè quegli stessi soggetti responsabili in questi ultimi anni, in parte, di quella riduzione progressiva di posti di lavoro, concentrando nelle loro mani una ricchezza immensa. Più realisticamente, lo scopo di questi soggetti è crescere e moltiplicare il consumo delle tecnologie altrimenti impossibile a fronte di società che vanno impoverendosi, e per raggiungere questo, sono pronti a finanziare forme di reddito di base e invitano gli Stati ad andare in quella direzione. Anche perché tale reddito incondizionato si configura come un investimento vero e proprio nella crescita del capitale umano a partire proprio dalla partecipazione stessa nell’uso delle tecnologie. Se questo è il contesto e lo scenario che può profilarsi oggi, la scelta vera intorno al reddito di base è politica, non di sostenibilità economica: significa comprendere chi gestirà le politiche pubbliche e redistributive, gli Stati attraverso nuovi modelli di welfare, o sarà prerogativa dei venture capitalist della Silicon Valley? Per la politica, per i sistemi democratici e la loro tenuta, si apre dunque un nuovo scenario: inchinarsi all’economia o assumere un nuovo ruolo per ridisegnare la società?

  1. Nuovi strumenti di misurazione e valutazione della ricchezza sociale

Tante persone investono oggi parte del loro tempo di vita, extralavorativo, in attività per il bene della collettività (ad es. associazioni, comitati, movimenti, arte, ecc., oltre naturalmente al lavoro domestico e di cura). Queste attività, quel lavoro e quei lavori non sono tenuti in conto, non sono considerati “lavoro produttivo” e non sono remunerati perché l’unica misura di valutazione di progresso o ricchezza è quella che genera profitti. Eppure queste attività generano valore per la crescita della società, per il bene comune e spesso, al contempo, contribuiscono alla nostra crescita personale e culturale, arricchiscono noi stessi, consentendo di esprimere liberamente le nostre abilità, passioni, inclinazioni, ecc., in un modo che sempre meno ci è consentito nel lavoro formale che svolgiamo. In questa direzione, emerge l’importanza di introdurre nuovi criteri di interrelazione, nuovi indicatori di valore, nuovi meccanismi di valutazione della ricchezza sociale che ancora non godono della dizione di lavoro e dell’inclusione nell’alveo della cittadinanza.

  1. Esigenza di protezione universale – il reddito di base per rispondere al bisogno

Oggi sono le reti sociali, più dello Stato, ad occuparsi di welfare. Il welfare italiano non ha saputo rispondere alle sfide del passaggio dall’economia industriale a quella dei servizi. A livello europeo, l’approccio e la visione delle politiche di sostegno al reddito è, di fondo, profondamente diversa e quasi opposta a quella italiana: gli schemi di reddito minimo “europei” hanno saputo almeno in parte rispondere anche all’attuale crisi economica. Lo hanno fatto incrociando un welfare che non solo remunera e risarcisce da alcune mancanze, ma che in alcuni casi contribuisce a promuovere la libertà dell’individuo e la sua emancipazione. E’ in questo senso poi che comincia ad intravedersi il cambio di passo verso un nuovo paradigma di società.

  1. Inadeguatezza delle politiche di sostegno al reddito

Siamo in presenza soprattutto in Italia di politiche selettive (poveri/non poveri) e discriminatorie. La scelta di selezionare i destinatari di forme di sussidio è arbitraria per difficoltà di definizione e per l’elemento della prova a carico del richiedente; discriminante, perché rivolta ai nuclei familiari e non al singolo individuo. Il Rei (Reddito d’inclusione), l’unica forma attualmente proposta in Italia, delega e affida al privato (terzo settore riunito nell’Alleanza contro la povertà) la gestione economica della misura e quella sociale dei beneficiari, di fatto indirizzati verso attività marginali di natura informale e semi-volontaria. Questa misura nasce nelle intenzioni come strumento di lotta alla povertà, ma, a ben guardare, rischia di innescare una nuova frontiera di produzione di lavoro (e di vita) precario, mal pagato e sfruttato. E’ questo il futuro diverso che intendiamo costruire? Soprattutto, nel merito, questo tipo di interventi legislativi non si pongono il problema della congruità della proposte di attivazione e di impiego offerte e della stigmatizzazione di chi ne è destinatario (e quindi, per questo, soggetto a verifiche e controlli intrusivi e, alla fine, disincentivanti all’emersione del suo stato di “bisogno”), alimentando un senso di colpa per coloro che “non ce la fanno”, invece che valorizzarne le potenzialità.

  1. Sperimentazioni

La domanda di reddito trova sempre più riscontri a livello planetario, in sempre più numerose sperimentazioni che dalla Finlandia, ad alcune regioni europee (segnatamente in Olanda e in Francia), passando per la statunitense città di Oakland o la regione canadese dell’Ontario, fino ai villaggi del Kenya o dell’India, evidenziano la necessità di “rompere” con vecchi schemi della protezione sociale sempre più governata dalle burocrazie amministrative, e additano modalità nuove di distribuzione della ricchezza. Bisognerà osservare con attenzione, nel presente e nel futuro, queste sperimentazioni e valorizzarne il significato. Di certo bisogna prendere atto che dal sud al nord, da est a ovest queste sperimentazioni non solo aumentano di numero, ma assumono caratteristiche sempre più interessanti.

  1. Cambiamento culturale

Tutto parte da qui Abbiamo necessità di cambiare innanzitutto categorie mentali, ripulire il nostro immaginario culturale per esser capaci di guardare oltre l’orizzonte chiuso in cui siamo immersi. Il reddito di base, universale e incondizionato “richiede una rivoluzione culturale che va oltre i rapporti economici e coinvolge profondamente i presupposti della vita collettiva”. E per questo, bisogna anche “parlare dei costi nascosti sostenuti dalla società (rabbia, violenza, crimine, ma anche perdita dei contributi culturali che i «poveri» potrebbero fornire alla società)”. Abbiamo bisogno di uno sguardo sul lavoro più ampio e nuovo, in un equilibrio possibile tra economia e società. Di rivedere e restituire significato al concetto di lavoro. Questo cambiamento culturale – che significa esercitare il pensiero critico, ragionare, analizzare, confrontarsi, contestualizzare e connettere le questioni – appare fondamentale per capire l’importanza e la necessità, ormai etica e politica, di un reddito di base per limitare le diseguaglianze, per la libertà di scelta, per la possibilità di realizzare le nostre aspirazioni e desideri come individui, per la piena espressione di sé, per una transizione, urgente, verso una società realmente più giusta e inclusiva, per l’autodeterminazione.

 

Fonte immagine: Denis Balibouse/Reuters. 

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