Uno dei fattori che ha portato l’ideologia neoliberista a conquistare l’egemonia nel pensiero economico a partire dagli anni Ottanta è stata la credenza (non si può usare altro termine, “fede” sarebbe eccessivo) di una diretta relazione tra crescita dell’offerta di moneta e aumento dei prezzi. Sulla base degli studi di Milton Friedman (e di Anna Schwartz: le donne vengono sempre dimenticate), a partire dal 1963, quando i due economisti di Chicago pubblicano A Monetary History of the United States, le analisi econometriche confermano una qualche relazione positiva tra espansione dell’offerta di moneta e crescita del livello di prezzi. Ma nessun studio è in grado di affermare che l’eventuale aumento dei prezzi sia esclusivamente causato da una politica monetaria espansiva. L’inflazione infatti può avere diverse cause, a seconda che si osservino le variabili dell’offerta o le variabili della domanda.

A prescindere da ciò, occorre ricordare che sino al 15 agosto 1971 erano in vigore gli accordi di Bretton Woods, che, oltre a sancire il ruolo del dollaro come unica valuta di riserva internazionale, imponevano un rapporto di parità fissa tra lo stesso dollaro e l’oro (35$ per oncia d’oro), definendo in tal modo una unità di misura rigida, seppur convenzionale, del valore della moneta. Tra gli effetti di tale governance dei flussi monetari internazionali, è necessario ricordarne due: il sistema di cambi fissi e il ruolo passivo dei mercati finanziari, le cui finalità si limitavano per lo più all’allocazione del risparmio tra i soggetti finanziari in attivo (famiglie e banche) e quelli in passivo (imprese e stati).

Con il crollo di Bretton Woods, la moneta si smaterializza del tutto, perde ogni connotato di moneta-merce: diventa pura “moneta segno” (per dirla con Marx). Tale passaggio scompagina in modo irreversibile il piano teorico fino a quel momento dominante nell’analisi macroeconomica (sia esso quello della sintesi neoclassica di Keynes o monetarista). La speculazione finanziaria (prima sul mercato delle valute e poi sugli altri mercati dei titoli) diventa il modus operandi della finanza. Le Banche Centrali perdono sempre più il monopolio di emissione della moneta (quindi l’autonomia del suo controllo) a fronte del ruolo crescente delle nuove convenzioni che le oligarchie finanziarie (sempre più concentrate in pochi operatori multinazionali) sono in grado di attivare. Le plusvalenze finanziarie, aumentando la liquidità monetaria in circolazione, iniziano a mettere in moto un moltiplicatore finanziario che, sostituendosi progressivamente a quello keynesiano, fondato sul disavanzo pubblico, favorirà la privatizzazione dei sistemi del welfare e la stessa finanziarizzazione della distribuzione del reddito su base individuale (divenire rendita del profitto e di parte del reddito da lavoro).

È paradossale notare che proprio nel momento in cui le Banche Centrali, in seguito alla mutazione dei mercati finanziari e alla loro espansione esponenziale (anche grazie a potenti innovazioni, quali i derivati), perdono il monopolio del controllo dell’offerta di moneta, esse, in nome dell’obiettivo di una supposta “reputation” e “stabilità”, diventano autonome sul piano politico (ovvero la loro governance diventa impermeabile ai condizionamenti dei governi). La costruzione della moneta unica in Europa, sancita dal Trattato di Maastricht del dicembre 1991, si basa su questo assunto e ha come unico obiettivo il controllo del tasso d’inflazione (2%). La perdita di autonomia economica delle Banche Centrali influenza pesantemente le scelte di politica monetaria, sempre meno orientate alla crescita e all’occupazione ma sempre più condizionate dalle dinamiche speculative dei mercati finanziari e dalla loro instabilità. Di fatto, l’unico strumento a disposizione delle autorità monetarie è oggi la fissazione dei tassi d’interesse in funzione delle aspettative speculative. La dinamica dei tassi d’interesse è  oggi una spia del tipo di aspettative che operano sui mercati finanziari. Se siamo in presenza di aspettative positive, i tassi di interesse e i rendimenti sui titoli tendono a scendere a fronte di un aumento degli indici di borsa e delle relative plusvalenze, e viceversa.

Si tratta della politica monetaria che, non a caso, è stata perseguita negli Usa all’indomani della crisi dei subprime del 2007-08 e in Europa dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011. Le politiche di Quantitative Easing (QE) avevano, ufficialmente, due obiettivi: tenere i tassi d’interessi sul debito pubblico sufficientemente bassi e favorire l’erogazione di credito all’economia reale per sostenere la crescita economica. Se il primo obiettivo è stato raggiunto, il secondo è stato un totale fallimento, dal momento che, come era facilmente prevedibile, l’ammontare di liquidità creata a partire dal 2015 (pari a circa a 2.900 miliardi di euro, il 20% del Pil europeo ), lungi dal favorire gli investimenti, è stata invece una manna per i mercati finanziari a vantaggio, soprattutto, dell’attività speculativa: in altre parole, si sono alimentati i mercati finanziari in quanto motore del processo di accumulazione e valorizzazione contemporaneo.

I falchi dell’austerity, soprattutto in Europa, paventavano che in tal modo si rischiasse di innescare un processo inflazionistico, come quello che si era verificato durante la crisi fordista degli anni Settanta. Si tratta di un’obiezione del tutto fallace: oggi la moneta creata ex-nihilo con l’acquisto di titoli di stato è pura moneta-segno, del tutto smaterializzata. Il suo legame con la produzione reale è oramai inesistente, grazie proprio al ruolo assunto dai mercati finanziari, il vero ambito in cui si crea (e si distrugge) moneta. La teoria quantitativa della moneta (che definisce un rapporto tra crescita dell’offerta di moneta e aumento dei prezzi quando la produzione si avvicina alla sua massima capacità) oggi non ha più senso all’interno dei processi di valorizzazione bio-cognitiva e delle piattaforme. Lo dimostra il fatto che l’enorme ammontare di liquidità immesso sui mercati creditizi e finanziari abbia inciso sul tasso d’inflazione solo per lo 0,5%, al punto che sino a un anno fa il tasso d’inflazione europeo era al di sotto dell’obiettivo programmato del 2%.

Si potrebbe ora dire che la recente impennata dei prezzi pone una situazione del tutto nuova. Ma quali son le cause che hanno portato all’aumento del tasso di inflazione? Si tratta di una discussione aperta ma di una cosa possiamo essere certi: la responsabilità non è della politica monetaria espansiva del QE. Nel contesto che abbiamo descritto, non vi è più un legame diretto tra quantità di moneta e livello dei prezzi. Di conseguenza, una politica monetaria restrittiva, che via aumento dei tassi d’interessi, riduca la liquidità in circolazione per ridurre l’incremento dei prezzi rischia di avere come unico risultato quello di favorire una spirale recessiva. Si tratterebbe di una situazione deleteria proprio in una congiuntura che vede la dinamica del Pil rallentare a livello globale a causa delle tensioni geopolitiche in corso.

Ciò vale a prescindere dal fatto che l’inflazione sia più causata da variabili di domanda (come pare essere negli Usa) che da variabili di offerta (come è invece nel caso europeo e italiano). Negli Usa, il tasso di inflazione ha raggiunto livelli che non si vedevano da quaranta anni e sicuramente tale dato è influenzato, oltre che dall’incremento dei prezzi delle materie prime (negli Usa un gallone di benzina costa oggi 5, 19$ contro un prezzo inferiore a 4$ di inizio anno, pari a 1,32 euro al litro) e dall’aumento dei costi della logistica, anche dall’aumento della domanda. È il risultato della ripresa americana dopo il periodo di lock-down seguito alla sindemia da Covid-19. Ed è proprio, l’influenza della crescita della domanda a spiegare il perché l’inflazione Usa è di 2 punti percentuali superiore a quella europea. Ciò significa che la stretta della FED sui tassi d’interesse sarà in grado di ridurre l’inflazione solo in modo molto parziale.

Come cercavamo di analizzare in un precedente contributo su Effimera, il fatto che il prezzo del petrolio e del gas metano aumentasse era dato per scontato dopo il forte ribasso a seguiti degli effetti recessivi dovuta alla sindemia da Covid-19. Di fronte alla forte ripresa della domanda globale (soprattutto in Cina e negli Usa), la crescita della conseguente domanda di materie prime ha trainato l’aumento dei prezzi, anche per effetto di due fattori concomitanti: lo sviluppo di tensioni speculative sui prodotti derivati “future” energetici (in particolare petrolio), con l’esito di anticipare all’oggi attese future sull’aumento dei prezzi, e le difficoltà di approvvigionamento dei beni intermedi in seguito alle strozzature della catena internazionale di subfornitura, che ha penalizzato e rallentato l’offerta dei beni finali ma ne ha aumentato il costo di produzione.

A differenza degli anni Settanta, l’aumento dei prezzi è infatti avvenuto in assenza di un aumento dei salari e del costo del lavoro. Relativamente all’Italia, i dati Istat del primo trimestre 2022 sulla dinamica del mercato del lavoro, ci dicono che “su base annua il costo del lavoro si riduce dello 0,2%, per effetto della riduzione di entrambe le sue componenti (-0,2% le retribuzioni e -0,4% gli oneri sociali)”. In molti settori, l’aumento dei prezzi non è causato da incrementi di costi di produzione (se non in maniera contenuta) ma esclusivamente dall’aumento del margine di guadagno (mark-up). Siamo cioè in presenza di un’inflazione da profitto[1].

Da questo punto di vista, una politica monetaria restrittiva sarebbe del tutto inefficace e avrebbe l’effetto di buttare benzina sul fuoco, senza intervenire sulle vere cause dell’inflazione, e, ancora una volta, finirebbe per essere di sostegno alla profittabilità del sistema delle grandi imprese. Se la situazione bellica in atto porta ad un processo di trasformazione della biopolitica in necropolitica, altrettanto si può dire dell’economia: dalla bio-economia alla necroeconomia.

NOTE

[1] Al riguardo occorre ricordare che parte delle consegne di questi mesi di gas russo in Italia sono avvenute alle condizioni di prezzo stipulate prima che la guerra iniziasse. Ciò significa che oggi non paghiamo il gas russo 135$ al Mgw ma ad un prezzo che è la metà. È anche da tale situazioni che si generano lauti profitti.