All’improvviso un’apparizione: appoggiato al bancone del bar/ristorante Sombrero, in compagnia di Filippo, l’avevo intravisto mentre con altri compagni mi intrattenevo sul piazzale antistante la chiesa di Pero; biondo, segaligno, portava un impermeabile di pelle nera, così che risaltava ancor più la sua magrezza dopo tre anni di soggiorno nelle patrie galere.
Non che lo conoscessi, sebbene mi fosse ben nota la sua vicenda, e quella di una quindicina di anarchici accusati di aver messo le bombe nel padiglione Fiat della Fiera Campionaria di Milano e nell’ufficio cambi della stazione centrale il 25 aprile 1969, provocando alcuni feriti e nessun morto per una serie fortuita di circostanze; le indagini presero un’unica direzione – la pista anarchica – nonostante i fascisti avessero nelle settimane precedenti (per restare solo nel capoluogo lombardo ) attaccato sedi politiche e sindacali con bombe incendiarie. Del resto quanto accaduto il 25 aprile verrà replicato il 12 dicembre alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, quando la pista anarchica sarebbe stata l’unica seguita dagli inquirenti con l’arresto di Pinelli, Valpreda e altri pericolosissimi “mostri”, incriminati per aver messo una bomba che provocò una strage, in seguito definita la “madre di tutte le stragi” .
Per la prima volta vidi un anarchico pericoloso. Lo Stato fu costretto a liberarlo assieme ad altri suoi compagni: non solo perché le prove indiziarie si rivelarono presto infondate, ma perché emerse senza ombra di dubbio che a commettere gli attentati erano stati i fascisti. Finalmente, dopo tre anni di detenzione arbitraria Tito Pulsinelli uscì dalla galera; la «pista anarchica», orchestrata dai servizi segreti italiani con la fattiva collaborazione dell’intelligence americana, iniziava a perdere i primi colpi, mentre l’apoftegma «la strage è di Stato», come immediatamente denunciato dagli anarchici, prendeva piede, grazie anche alla sensibilità e onestà di molti intellettuali, giornalisti, politici che cominciarono a squarciare il velo di falsità e complicità poste in essere per coprire i reali mandanti e esecutori. Falsità e complicità al fine di depistare l’opinione pubblica e parte della magistratura celando ciò che era realmente accaduto: la notte del 15 dicembre Federico d’Amato, responsabile dell’Ufficio Affari Riservati, con la sua corte di sbirri fascistoidi giunti appositamente da Roma, prese il comando delle operazioni per coordinare le indagini e indirizzare i responsabili della questura di Milano a seguire la pista preconfezionata in anticipo, al punto da dettare persino il testo della conferenza stampa in cui Guida, Allegra e Calabresi affermarono o almeno lasciarono intendere – consapevoli di mentire – che Giuseppe Pinelli si fosse suicidato perché colpevole assieme a Pietro Valpreda della strage di Piazza Fontana[1].
Ma cosa potevo saperne allora, ragazzino tredicenne, di quanto stava accadendo in Italia, degli scioperi sindacali, delle manifestazioni studentesche, della critica contro una società autoritaria che mostrava la completa incapacità di gestire il vento del cambiamento in tutti i suoi ambiti culturali, artistici, religiosi, scientifici, tecnologici? Niente, di quello scritto più sopra; molto, grazie all’impegno che Don Cesare Sommariva, vice parroco di Pero, aveva profuso per rivitalizzare una comunità di paese costituita prevalentemente da giovani immigrati, operai, casalinghe, promuovendo e organizzando gruppi di studio e di lavoro a difesa del diritto alla salute, all’istruzione, all’autogestione della propria vita in modo da combattere le falsità insite nel progresso economico allora considerato inarrestabile, inevitabile, ma soprattutto incontrastabile.
Sì, a farmi conoscere cosa mai fosse l’anarchia e gli anarchici in quegli anni così turbolenti e effervescenti fu un giovane prete trentaseienne che non solo ci aprì gli occhi su quanto stava accadendo, ma attivamente si prodigò in favore degli arrestati, andando a trovare in carcere Tito Pulsinelli [allora ventitreenne]. Quel prete era “uno di Pero”, uno dei tanti immigrati dal sud d’Italia, uno di noi[2]. E noi non potevamo non essere come lui: risucchiati dalla propaganda ideologica che ad ogni costo e con ogni mezzo doveva addossare la colpa dei malumori sempre più diffusi nei confronti del progresso economico e dello sviluppo sociale, a terribili e mostruosi terroristi. E chi meglio degli anarchici, in un momento di disordine/caos/anarchia, poteva assolvere alla funzione di capro espiatorio?
Di questo discutevo con Tito neppure una decina di giorni fa nel corso di uno dei nostri quasi quotidiani messaggi su WhatsApp, soprattutto da quando la vicenda di Alfredo Cospito ci aveva riportato con la memoria ai primi anni 70. Volevamo capire come la capacità di “fare controinformazione” sulle menzogne propugnate dallo Stato e dai suoi organi di propaganda potesse trovare terreno fertile, superare l’attuale aridità e le spocchiose puntualizzazioni, evitando di finire stritolati dalla macchina repressiva statale già a pieno regime . Poi, assorbiti entrambi da vicende personali, non abbiamo più avuto modo di sentirci sino a quando questo mercoledì primo marzo 2023 Il dolore mi ha sopraffatto, e con me tutti quelli che ti hanno conosciuto, Tito, amico e compagno, apprezzato, amato.
Per me non sei stato soltanto il primo anarchico che ho incontrato nella mia vita, quando la tua era già stata segnata dalla tortura psicofisica iniziata nell’agosto del 69, proseguita nei tre anni che lo Stato terrorista ti tenne prigioniero, continuata per anni e anni. Sei stato uno dei tanti compagni con i quali ho avuto modo di confrontarmi, sapendo quali erano i nostri limiti, ma avendo ben chiaro che nessuna scorciatoia per combattere lo Stato avrebbe raggiunto lo scopo se si fosse allontanata dalla lotta collettiva, autogestionaria, di classe.
E poi che dire del tuo cipiglio situazionista? Già, adesso che ci penso, la definizione di comunista libertario copriva una parte di te; l’altra era riassunta nella tua esperienza con il Maggio Francese, Socialisme ou Barbarie, e i situazionisti dei quali avevi preso il linguaggio, canzonatorio e provocatorio. Proprio questo tuo “essere situazionista” è stata la seconda riscoperta, quella che ci ha avvicinati condividendo alcuni momenti di lotta – ricordo il riuscito e ardito boicottaggio della produzione dei Buondì e dei panettoni Motta nella seconda metà degli anni 70 a Milano – così come le numerose riviste e documenti pubblicati in quegli anni in cui la febbre lottarmatista era aumentata al punto da far delirare non poche persone, anche a Pero. Nel nostro paese e nel nostro piccolo cercammo di fornire risposte più convincenti e meno catastrofiche editando documenti, libri, manifesti; fra questi, il foglio murale La pera è matura, nel quale rispolverammo lo spirito e il linguaggio degli indiani metropolitani, caricandolo della rabbia delle periferie operaie, organizzando le autoriduzioni delle bollette, degli affitti, e dove il sabato mattina si andava fuori dai cancelli delle fabbriche per spazzolare i crumiri che stavano facendo lo straordinario al grido “Lavorare meno, lavorare tutti”. La non-delega, non come valore ma come modo di agire, fu il punto d’incontro dell’autonomia proletaria, l’unica via d’uscita con la quale provammo a spezzare la cappa degli anni di piombo.
Poi partisti per il Messico, l’aria si era fatta soffocante soprattutto a Pero. Alcuni si arruolarono da bravi soldatini nel partito armato, facendo i carcerieri per un mondo di prigioni del popolo; altri si persero per strada, sino a doverli raccogliere stramazzati per un’overdose; altri ancora continuarono a mantenere la barra dritta fra alti e bassi. Noi ci perdemmo di vista, anche se amici comuni ci tenevano informati dei nostri trasferimenti: tu in Venezuela, io a Ischia; sennonché nessuna distanza, né diversa esperienza o condizione sociale ebbe mai modo di allontanarti dalle nostre comuni convinzioni. E il caso volle che entrambi avessimo iniziato a collaborare con la rivista Carmilla di Valerio Evangelisti (altro doloroso addio, nell’anno passato); o nel collaborare con Radio onda d’urto, tu come corrispondente del Centroamerica – attività che già occupava gran parte del tuo tempo nel seguire il blog “Selvas”, curato fino a luglio 2020, prima di fare ritorno in Italia ed affrontare le cure ad una malattia che ti aveva colpito – io come collaboratore occasionale.
Inevitabilmente, con il tuo ritorno a Milano, riprendemmo i contatti e ancora una volta mi spronasti a scrivere di Pero, dopo che ti raccontai delle mie “scoperte” sull’esistenza di un filo rosso che univa le lotte del biennio 20-21 (del secolo scorso) con la resistenza partigiana e i suoi protagonisti, caratterizzatesi a Pero per la presenza della brigata Bruzzi-Malatesta, la cui staffetta era il giovane sedicenne Giuseppe Pinelli; a Pero la locale federazione comunista libertaria contava più di 70 militanti, dei quali due eletti al primo consiglio comunale, e la carica di sindaco era ricoperta dal socialista Guido Besozzi, anch’egli membro della brigata Bruzzi-Malatesta. Filo rosso inspiegabilmente spezzato proprio quando la conoscenza del passato prossimo avrebbe potuto evitare di compiere gli errori commessi dalla mia generazione a causa della orgogliosa tracotanza nella propria invincibile forza, tanto da non calcolarne le conseguenze, tanto da incorrere nella vendetta di Stato.
La stessa vendetta di Stato che, affranti, osservavamo manifestarsi ora nei confronti di Alfredo Cospito e che ci aveva spinti a stringere i rapporti, convinti della necessità di una mobilitazione collettiva in grado di rompere il clima di apatia, insofferenza, se non addirittura connivenza, quotidianamente ostentato anche da quelle forze che un tempo si sarebbero mosse a favore della giustizia e di un giusto trattamento dei detenuti prigionieri dello Stato. Ancora una volta ci siamo messi a scrivere e a trasmettere le informazioni che raccoglievamo da diversi ambiti, per una campagna di sensibilizzazione necessaria affinché la dignità della lotta del nostro compagno non venga continuamente travisata.
Te ne sei andato, e vorrei dirti «sul più bello!» O forse è proprio così, memore del tuo spiccato ottimismo di chi sa che perdente è soltanto chi non lotta.
[1] https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/quellincidente-nessuno-uscito-incolume/
[2] Pero, negli anni tra il ‘53 e il ‘54 era il comune con la più alta percentuale di immigrati dell’intera penisola: cfr, John Foot «Pero: città di immigrazione 1950 – 1970»
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