Scritto dal dicembre 1889 al febbraio 1890.
Dopo: “Die Neue Zeit”, n. 5, volume 8, maggio 1890.

 

Prefazione di Nicola Carella e Giulio Fatti

 

Siamo a Londra nel 1890. Il ventennio bismarckiano di precaria pace europea si avvia al termine. All’orizzonte si addensano cupe nubi e si delineano le geometrie che porteranno infine al primo conflitto mondiale.

In questo quadro un ruolo fondamentale era giocato dall’interazione tra l’esplosione della questione nazionale, e il suo utilizzo destabilizzante da parte della Russia zarista, a favore della sua politica imperiale.

Friedrich Engels, ormai settantenne e orfano di Marx, prende posizione su un tema che già divide la neonata seconda internazionale. In questo intervento che qui presentiamo offre una mappa geopolitica al movimento internazionale dei lavoratori, per il quale è una guida intellettuale preziosissima, nonché l’esponente più famoso al mondo.

Nell’intervento disegna una cartografia politica estera della Russia zarista, mettendone a fuoco i legami con la borghesia del Vecchio Continente. Con violenza denuncia la complicità con lo zarismo delle potenze europee. Complicità che ha lo scopo di frenare lo sviluppo del vero scontro della sua epoca: non il conflitto tra diverse nazioni, ma il conflitto tra capitale e lavoro.

In questo saggio Engels analizza i punti di forza e le debolezze del potere zarista, individuando profeticamente come la compromissione delle potenze europee con la Russia porterà inevitabilmente al deflagrare di un conflitto mondiale senza precedenti nella storia umana. Altrettanto profeticamente, Engels indica anche la via d’uscita: la rivoluzione in Russia, auspicata con urgenza per prevenire lo scoppio del conflitto.

Lo scritto si diffonde con successo e in un anno viene pubblicato in ben cinque lingue. Engels intendeva in questo modo proseguire anche i lavori di Marx sulla “questione russa”. Lavori rimasti perlopiù sconosciuti nella Russia sovietica così come in quella contemporanea.

La traduzione di questo testo vuole dunque offrire degli elementi di analisi sul ruolo di una Russia con aspirazioni imperiali sul continente. Attraverso l’analisi di Engels, è possibile osservare con chiarezza i riferimenti storici di Putin e stabilire una connessione critica tra passato zarista e presente neo-zarista; individuare quali sono le invarianti, quali le differenze e individuare la funzione politica della Russia nel contesto politico attuale così come nelle guerre e nelle rivoluzioni di allora.

Oggi, infatti, Putin continuamente recupera il patrimonio “storico, culturale, spirituale” zarista per affermare la politica di potenza della Federazione Russa. Egli stesso ha più volte richiamato esplicitamente l’eredità degli Zar, della tradizione diplomatica russa, della religione Greco Ortodossa e della storia militare, artistica e culturale dell’impero russo. Putin, con un particolare riferimento ad Alessandro III, attinge esattamente alla stessa storia di cui parla Engels. E proprio su quella traiettoria si è mosso Putin nell’ormai noto saggio dell’estate del 2021 in cui anticipava l’invasione dell’Ucraina nell’ottica di un comune destino di liberazione e difesa dei popoli russi. In quest’ottica non sorprende né il parziale apprezzamento espresso da Putin nei confronti di Stalin, il quale sconsigliò la pubblicazione di questo medesimo testo, considerato “puerile”; né a maggior ragione stupisce la vera e propria ossessione, totalmente negativa, che Putin ha ripetutamente mostrato per il traditore della patria e il sabotatore della missione millenaria di Mosca, che ha privato della propria grandezza nazionale e della propria storia imperiale il grande popolo russo: Vladimir Ilic Lenin.

Proprio il Lenin che, purtroppo solo a conflitto già iniziato, come auspicato da Engels ribaltò la storia della Russia e del mondo intero nel 1917[1].

*****

I

Non solo i socialisti, ma ogni partito progressista in ogni paese dell’Europa occidentale, ha un duplice interesse nella vittoria del Partito Rivoluzionario Russo.

Primo, perché l’Impero dello Zar è il cardine della reazione europea, la sua ultima posizione fortificata e insieme il suo grande esercito di riserva; perché anche la sua mera esistenza passiva è una minaccia permanente e un pericolo per noi.

In secondo luogo – e questo punto non viene a oggi sufficientemente ribadito – perché, con la sua incessante ingerenza negli affari dell’Occidente, paralizza e disturba il nostro normale sviluppo, e questo allo scopo di conquistare posizioni geografiche, che assicurerebbero alla Russia il dominio sull’Europa, schiacciando conseguentemente ogni possibilità di progresso sotto il tallone di ferro dello zar.

È impossibile, in Inghilterra, scrivere di politica estera russa senza ricordare subito il nome di David Urquhart. Per cinquant’anni ha lavorato instancabilmente per diffondere tra i suoi connazionali la conoscenza degli scopi e dei metodi della diplomazia russa, materia che comprendeva a fondo; e tuttavia, tutto ciò che ottenne per le sue pene fu scherno e la reputazione di una persona assolutamente noiosa. Ora, a dire il vero, i filistei ordinari classificano sotto questa voce chiunque insista su argomenti sgradevoli, specialmente se così importanti. Ma dunque Urquhart, che odiava i filistei senza comprenderne né la natura né la loro attuale inevitabilità storica, era destinato a fallire. Un Tory della vecchia scuola, vedendo di fronte ai suoi occhi che in Inghilterra solo i Tory avevano fino a quel momento offerto un’efficace resistenza alla Russia, e che l’azione dei liberali inglesi e stranieri, compreso l’intero movimento rivoluzionario nel Continente, aveva generalmente portato solo vantaggi e guadagni per quel potere, egli riteneva che, per resistere davvero all’avanzata russa, bisognasse essere un Tory (oppure un turco), e che ogni liberale e rivoluzionario fosse, consapevolmente o no, uno strumento russo. La sua costante occupazione con la diplomazia russa lo aveva portato a considerarla qualcosa di onnipotente, come in effetti l’unico agente attivo nella storia moderna, nelle cui mani tutti gli altri governi erano solo strumenti passivi; così che, se non per la sua stima altrettanto esagerata della forza della Turchia, non si potrebbe capire perché questa onnipotente diplomazia russa non si fosse impadronita di Costantinopoli molto tempo fa.

Per ridurre dunque tutta la storia moderna dalla Rivoluzione francese in poi ad una partita diplomatica di scacchi tra Russia e Turchia, con gli altri Stati europei pedine della Russia, Urquhart dovette porsi come una sorta di profeta orientale che insegnava, invece di semplici fatti storici, una segreta dottrina esoterica in un misterioso linguaggio iperdiplomatico, ricco di allusioni a fatti generalmente non conosciuti, ma raramente enunciati con chiarezza; ed egli, come infallibile panacea contro la supremazia della diplomazia russa su quella inglese, proponeva il rinnovato impeachment dei Ministri e la sostituzione, al Gabinetto, del Privy Council. Urquhart era un uomo di grande merito, ed oltretutto un ottimo inglese della vecchia scuola; ma i diplomatici russi potrebbero ben dire: “Si M.Urquhart n’existait pas, il faudrait l’inventer” (se il Sig. Urquhart non esistesse, bisognerebbe inventarlo).

Persino tra i rivoluzionari russi del resto esiste ancora un’ignoranza relativamente grande di questo lato della storia russa. Da un lato, perché nella stessa Russia è tollerata solo la vulgata ufficiale; dall’altro, così come moltissimi altri, perché disprezzano troppo il governo dello Zar, credendolo incapace di nulla che sia razionale. Incapace, un po’ per stupidità, un po’ per corruzione. E per quanto riguarda la politica interna russa ciò è abbastanza corretto; lì l’impotenza dello zarismo è chiara come il giorno. Tuttavia dobbiamo conoscere non solo la debolezza, ma anche la forza del nemico. E la politica estera è senza dubbio l’aspetto su cui lo zarismo è forte, molto forte. La diplomazia russa forma, in una certa misura, un moderno Ordine dei Gesuiti, abbastanza potente, se necessario, da superare anche i capricci di uno zar e schiacciare la corruzione nel suo stesso corpo solo per diffonderla più copiosamente all’estero; un Ordine dei Gesuiti originariamente preferibilmente reclutato tra stranieri, Corsi come Pozzo di Borgo, Tedeschi come Nesselrode, Russo-Tedeschi come Lieven, esattamente come la sua fondatrice, Caterina II, era lei stessa una straniera.

L’antica aristocrazia russa aveva del resto ancora troppi interessi mondani, privati e familiari; non aveva l’assoluta affidabilità che il servizio di questo nuovo ordine richiedeva. E poiché la povertà personale e il celibato del sacerdote gesuita cattolico non potevano essere loro imposti, dovettero, per il momento, essere relegati ad incarichi secondari o a posizioni di rappresentanza, ambasciate, ecc. Così, gradualmente, si costruì una scuola di diplomatici autoctoni. Finora solamente un russo purosangue, Gortschakoff, ha ricoperto la carica più alta in questo ordine, e il suo successore, Von Giers, ha nuovamente un cognome straniero.

È stato questo ordine segreto, originariamente reclutato tra avventurieri stranieri, che ha innalzato l’Impero russo alla sua attuale potenza. Con ferrea perseveranza, lo sguardo fisso risolutamente sull’obiettivo, non rifuggendo da alcuna violazione della fede, nessun tradimento, nessun assassinio, nessun servilismo, prodigando mazzette in tutte le direzioni, mai resa arrogante da alcuna vittoria né scoraggiato da nessuna sconfitta, camminando sui cadaveri di milioni  di soldati e di almeno uno zar, questa banda, tanto senza scrupoli quanto talentuosa, ha fatto più di tutti gli eserciti russi per estendere le frontiere della Russia dal Dnepr e dalla Dvina, fin oltre la Vistola, al Prut, al Danubio e il Mare Nero; dal Don e dal Volga, oltre il Caucaso e fino alle sorgenti dell’Oxus e dello Jaxartes; per rendere la Russia grande, potente e temuta e per aprirle la strada verso la sovranità sul mondo. Ma così facendo ha anche rafforzato il potere dello zarismo in patria. Per il pubblico sciovinista la gloria della vittoria, le conquiste che seguono altre conquiste, la potenza e il fascino dello zarismo, superano di gran lunga tutti i peccati, tutto il dispotismo, tutta l’ingiustizia e tutta la sfrenata oppressione. Le roboanti chiacchiere dello sciovinismo compensano pienamente tutte le umiliazioni domestiche. E questo tanto più quanto meno le reali cause e i dettagli di questi successi sono conosciuti in Russia, e vengono sostituiti da una mitologia ufficiale, esattamente tale a quella che governi caritatevoli un po’ ovunque (in Prussia e in Francia per esempio) inventano per il bene dei propri sudditi e per un maggiore incoraggiamento al patriottismo. Così un russo che sia sciovinista, prima o poi cadrà in ginocchio davanti allo zar, come abbiamo visto nel caso di Tichomiroff.

Ma come ha potuto una tale banda di avventurieri riuscire ad acquisire questa enorme influenza nella storia europea? Molto semplicemente. Non hanno creato qualcosa di nuovo dal nulla, non hanno fatto altro che fare il giusto uso di una situazione esistente. La diplomazia russa aveva avuto una base materiale molto ovvia per tutti i suoi risultati.

Guardiamo alla Russia alla metà del secolo scorso: un territorio colossale anche a quel tempo, popolato da un’etnia particolarmente omogenea. Una popolazione tutto sommato non numerosa, ma in rapida crescita; e dunque una crescita garantita di potenza con il semplice trascorrere del tempo. Questa popolazione, intellettualmente stagnante, priva di ogni iniziativa, ma, nei limiti del suo modo tradizionale di esistere, adatta ad essere usata e modellata in qualsiasi cosa; tenace, valorosa, obbediente, sprezzante delle fatiche e dei parimenti, un materiale insuperabile per i soldati nelle guerre di quel tempo dove lo scontro di masse compatte era decisivo. Il paese stesso con un solo lato – il suo lato occidentale – rivolto verso l’Europa, e quindi attaccabile solo da quel lato; senza alcun centro, la conquista del quale avrebbe potuto imporre una pace; salvaguardato quasi assolutamente dalla conquista per la sua assenza di strade, dall’immensità della sua superficie e dalla povertà delle risorse. Qui stava una posizione di forza inespugnabile, pronta per chiunque avesse saputo usarla, laddove ciò potesse essere fatto con impunità, che avrebbe portato guerra dopo guerra su qualsiasi altro governo in Europa.

Forte dell’imprendibilità sul lato difensivo, la Russia era però corrispondentemente debole sul piano dell’offensiva. Il raduno, l’organizzazione, l’equipaggiamento ed i movimenti dei suoi eserciti al suo interno incontrarono enormi ostacoli, e a tutte le difficoltà materiali si aggiunse la sconfinata corruzione degli ufficiali e dei generali. Tutti i tentativi di rendere la Russia capace di attacchi su larga scala sono finora falliti e probabilmente gli ultimi tentativi attuali di introdurre la coscrizione obbligatoria universale, falliranno altrettanto completamente. Si potrebbe dire che le difficoltà crescono col quadrato delle masse da organizzare, a prescindere dall’impossibilità o meno di trovare, con una popolazione cittadina così piccola, l’enorme numero di ufficiali attualmente richiesti. Questa debolezza non mai è stata un segreto per la diplomazia russa. Di conseguenza essa ha, quando possibile, evitato la guerra, l’ha accettata solo come ultima risorsa, e quindi solo alle condizioni a lei più favorevoli. Le si confanno solo quelle guerre in cui gli alleati della Russia devono sopportare il peso dello sforzo bellico, esponendo il proprio territorio alla devastazione come luogo di conflitto, e rifornendo la grande massa di combattenti, e in cui, alle truppe russe, rimane solo il ruolo di forze di riserva. E proprio in quel ruolo sono generalmente risparmiati in battaglia, ma negli scontri decisivi, con sacrifici relativamente piccoli, raccolgono la gloria di spostare l’equilibrio della vittoria; tale fu la loro parte nella guerra del 1813-1815. Ma una guerra condotta in condizioni così favorevoli non è sempre possibile. Perciò la diplomazia russa preferisce usare gli interessi e i desideri antagonistici delle altre potenze ai propri fini, per prendere questi poteri per le orecchie e sfruttare le loro inimicizie a beneficio della propria politica di conquista. Solo contro coloro che sono chiaramente più deboli – Svezia, Turchia, Persia – l’impero zarista combatte per conto proprio, e in questi casi non deve dividere il bottino con nessuno.

Ma torniamo alla Russia del 1760. Questo paese omogeneo e inattaccabile aveva per vicini solo paesi che erano effettivamente o apparentemente deboli, prossimi alla disintegrazione, e quindi pura matière à conquêtes (materia di conquista?). Al nord, la Svezia, il cui potere e prestigio erano andati perduti proprio a causa di Carlo XII che aveva tentato di invadere la Russia, e così facendo aveva rovinato il suo paese e reso evidente l’inattaccabilità della Russia. A sud, i Turchi e i loro tributari, i Tartari di Crimea, relitti di un’antica grandezza. Il potere offensivo dei Turchi era stato spezzato negli ultimi 100 anni, e il loro potere di difesa era ancora notevole, eppure anch’esso in declino. E come migliore prova di questa crescente debolezza, c’erano movimenti ribelli tra i sudditi cristiani, gli Slavi, i Rumeni ed i Greci, che formavano la maggioranza della popolazione nella Penisola Balcanica. Questi cristiani, appartenenti quasi esclusivamente alla Chiesa greca, erano quindi affini ai russi per fede, e gli slavi tra loro, i serbi ed i bulgari, erano inoltre legati ad essi etnicamente. La Russia doveva quindi solo proclamare il suo dovere di proteggere l’oppressa Chiesa greca e gli slavi calpestati, e il campo per la conquista – nel nome della “liberazione degli oppressi” – sarebbe stata a portata di mano.  Allo stesso modo c’erano a sud del Caucaso piccoli Stati cristiani e cristiani armeni sotto sovranità della Turchia, per i quali l’impero zarista poteva posare da “salvatore”. E poi, proprio in questo sud, un premio, superiore a qualsiasi altro che l’Europa potesse offrire, allettava più di tutti il bramoso conquistatore: l’antica capitale dell’Impero Romano d’Oriente, la metropoli dell’intero mondo greco-ortodosso, la città il cui nome russo già esprime il primato sull’oriente e il prestigio che investe il suo possessore agli occhi della cristianità orientale — Costantinopoli-Zargrad.

Zargrad come terza capitale russa insieme a Mosca e Pietroburgo: questo significava non solo supremazia morale sulla cristianità orientale, ma anche il passo decisivo verso la supremazia sull’Europa. Significava il comando esclusivo del Mar Nero, dell’Asia Minore, della penisola balcanica. Avrebbe dato possibilità, ogni volta che lo zar avesse voluto, la chiusura del Mar Nero a tutte le navi mercantili e a tutti gli eserciti tranne quelli russi, la sua trasformazione in un polo navale russo e un luogo di manovra esclusivo per la flotta russa, che da questo sicuro rifugio poteva passare attraverso il Bosforo fortificato e ivi tornare tutte le volte che voleva. Allora la Russia avrebbe avuto solo bisogno di ottenere sotto il medesimo comando, diretto o indiretto, dell’Øresund e degli stretti danesi, per diventare inattaccabile anche sul mare.

Il comando della penisola balcanica porterebbe la Russia fino all’Adriatico. E questa frontiera a sud-ovest sarebbe stata indifendibile, a meno che la frontiera russa non fosse corrispondentemente avanzata lungo tutto l’ovest, e la sfera del suo potere si fosse estesa considerevolmente. Ma in questo caso le condizioni erano, se possibile, ancora più favorevoli.

Innanzitutto, la Polonia, completamente disorganizzata, una repubblica di nobili, fondata sulla spoliazione e sull’oppressione dei contadini, con una costituzione che rendeva impossibile ogni azione nazionale, e che dunque rendeva il paese una facile preda per i suoi vicini. Dall’inizio del secolo era esistita solo, come dicevano gli stessi polacchi, in mezzo al caos (Polska nierzadem stoi); l’intero paese era costantemente occupato e attraversato da truppe straniere, che lo usavano come un’osteria (karczma zajezdna, dicevano i polacchi), a cui di solito si dimenticavano di pagare il conto. Già Pietro il Grande aveva sistematicamente rovinato la Polonia – i suoi successori dovevano solo stendere la mano per prenderla. E per farlo avevano un altro pretesto: il “Principio di nazionalità”. La Polonia, infatti, non era un paese omogeneo. Nel momento in cui la Grande Russia cadde sotto il giogo mongolo, la Russia Bianca e la Piccola Russia (nome ottocentesco dell’Ucraina – nota del traduttore) trovarono protezione contro l’invasione asiatica, unendosi nel cosiddetto Principato lituano. Questo Principato in seguito si unì volontariamente alla Polonia. Successivamente, come conseguenza della maggiore civilizzazione dei polacchi, le nobiltà della Russia Bianca e Piccola diventarono in gran parte polacche; e al tempo della supremazia dei Gesuiti in Polonia, nel XVI secolo, i polacchi greco-ortodossi erano stati costretti alla conversione al Cattolicesimo della Chiesa romana. Ciò diede agli Zar della Grande Russia il tanto atteso pretesto per rivendicare l’ex territorio lituano come un territorio russo di nazionalità ora oppressa dalla Polonia cattolica, sebbene almeno i Piccoli Russi, secondo la più grande autorità vivente sulle lingue slave, Mikiosic, non parlava neanche più un semplice dialetto russo, ma proprio una lingua autonoma. Un ulteriore pretesto per rivendicare il diritto alla propria ingerenza fu quello di definirsi protettori della fede greca, a beneficio degli uniati greco-ortodossi, sebbene si fossero da tempo riconciliati nei confronti della Chiesa romana.

Oltre la Polonia, poi, c’era un altro paese che sembrava essere caduto in una rovina irrimediabile: la Germania. Dalla Guerra dei Trent’anni, il Sacro Romano Impero era uno Stato solo nominalmente. La posizione dei principi all’interno dell’Impero si avvicinava sempre più alla completa sovranità ed il loro potere di sfidare l’imperatore, che in Germania aveva sostituito il liberum veto polacco, era stato, dalla pace di Westfalia, espressamente posto sotto la garanzia della Francia e della Svezia. Un rafforzamento eventuale del potere centrale era quindi subordinato all’assenso dello straniero, il cui diretto interesse era quello di impedire qualsiasi cosa che gli somigliasse. Oltre a questo, la Svezia, grazie alle sue conquiste tedesche, era diventato un membro dell’Impero tedesco, con seggio e voto nelle Diete Imperiali. In ogni guerra l’Imperatore incontrava dei Principi dell’Impero tedesco tra gli alleati dei suoi nemici stranieri; ogni guerra era quindi una guerra civile. Quasi tutti i principi più grandi o quelli secondari dell’Impero erano stati in qualche modo comprati da Luigi XIV, e il paese era così rovinato economicamente che, senza l’afflusso annuale di tangenti francesi, sarebbe stato impossibile mantenere del denaro circolante da utilizzare. [Vedi Gulich. Geschichtliche Darstellung des Handels u. Jena 1830, 2. Banda, S. 201-206. — Nota di Engels] L’imperatore aveva dunque da tempo cercato la sua forza non nel suo impero, che gli costava solo denaro e non gli procurava altro che preoccupazione e vessazioni, ma nei suoi domini austriaci, tedeschi ed extratedeschi. E fianco a fianco con la potenza austriaca, distinta dalla Germania, la potenza prussiana si stava già affermando come una rivale.

Tale era lo stato delle cose in Germania al tempo di Pietro il Grande. Quest’uomo davvero grande, grande in un modo del tutto diverso da Federico “il Grande”, il servitore obbediente della succeditrice di Pietro, Caterina II — fu il primo a cogliere a fondo la condizione meravigliosamente favorevole dell’Europa ai fini della Russia. Non solo rispetto a Svezia, Turchia, Persia, Polonia gli apparvero chiari — molto più chiaramente di quanto non apparisse nel suo cosiddetto Testamento, che sembra opera di un epigono — i punti principali della politica russa. Egli la stabilì fermamente e iniziò a metterla in atto. Fece lo stesso nei confronti della Germania. Si preoccupava anzi molto più della Germania che di qualsiasi altro paese eccetto la Svezia. La Svezia egli doveva spezzare. La Polonia l’avrebbe potuta ottenere non appena avesse deciso di tendere la mano. La Turchia invece era ancora troppo lontana per lui. Ma, mettere un piede in pianta stabile in Germania, per ottenere una posizione che la Francia usava così fruttuosamente e che la Svezia era troppo debole per usare, divenne il suo compito principale. Fece ogni sforzo per diventare un principe tedesco dell’Impero con l’acquisizione di territorio tedesco, ma invano; poté solo avviare il sistema dei matrimoni misti con i principi tedeschi e lo sfruttamento diplomatico dei dissensi interni alla Germania.

Dai tempi di Pietro la situazione era diventata ancora più favorevole alla Russia con l’ascesa della Prussia. Questa diede all’imperatore tedesco, all’interno dell’Impero stesso, un antagonista quasi suo pari, che perpetuò le divisioni della Germania e le portò all’estremo. E nello stesso tempo questo antagonista era ancora abbastanza debole da dipendere dall’aiuto della Francia o della Russia, specialmente della Russia, così che più si emancipava dal suo vassallaggio nei confronti dell’Impero, più inevitabilmente affondava nel vassallaggio della Russia.

Rimanevano così in Europa solo tre Potenze da considerare: Austria, Francia, Inghilterra. E afferrarle per le orecchie, o corromperle con l’esca di un nuovo territorio, non era cosa difficile. Inghilterra e Francia erano ancora, come sempre, rivali sul mare. La Francia doveva essere allettata dalla prospettiva dell’acquisizione di territori in Belgio e Germania. L’Austria poteva essere corrotta facendo penzolare davanti ai suoi occhi vantaggi da guadagnarsi a spese della Francia, della Prussia e, dal tempo di Giuseppe II, della Baviera. Ecco che, con l’abile utilizzo di interessi contrastanti, si crearono alleati forti, preponderantemente forti, pronti all’uso per qualsiasi mossa diplomatica della Russia. E ora, faccia a faccia con queste terre di frontiera in piena disgregazione, faccia a faccia con tre grandi Potenze, le cui tradizioni, condizioni economiche, i cui interessi politici o dinastici e la cui brama di conquista li coinvolgevano in infinite dispute e le teneva occupate a ingannarsi l’un l’altra, di fronte a costoro ecco la Russia, una, omogenea, giovane, in rapida crescita, difficilmente attaccabile e assolutamente inconquistabile, e allo stesso tempo non lavorata, quasi irresistibile, plastica materia grezza. Che opportunità per le persone di talento e ambizione, per le persone che aspirano al potere, non importa come o dove, finché il potere sia reale, finché fornisca un’arena reale per il loro talento e ambizione! E il XVIII secolo “illuminato” produsse tali persone in gran numero: persone che al servizio dell’“Umanità” attraversavano tutta l’Europa, visitavano le Corti di tutti i Principi illuminati – e quale Principe allora non desiderava altro che essere “illuminato”, – che si stabilivano dovunque trovassero un posto favorevole, semi-aristocratico, semi-borghese, in un’Internazionale denazionalizzata dell’Illuminismo. Questa Internazionale cadde in ginocchio davanti alla Semiramide del Nord, una altrettanto denazionalizzata, Sofia Augusta di Anhalt, chiamata Caterina II di Russia, e fu dai ranghi di questa Internazionale che questa stessa Caterina trasse gli elementi per il proprio ordine gesuita della diplomazia russa.

Vediamo ora come funziona questo ordine di gesuiti, come utilizza gli scopi in continua evoluzione delle potenze rivali com