Dopo una estenuante sequenza di accesi conflitti la crisi politica è scoppiata quasi d’improvviso in pieno agosto e altrettanto rapidamente si è risolta, grazie al tradizionale trasformismo che in Italia poggia su solide radici.

Insolente, e quasi temerario, Salvini contava sulle divisioni del campo avverso per impadronirsi della macchina governativa italiana e per candidarsi alla guida della destra reazionaria europea, costruendo una sorta di federazione dei movimenti nazionalisti e xenofobi che si sono diffusi ormai in quasi tutti i paesi dell’Unione. Era (e rimane) un progetto assai ambizioso, in guerra dichiarata con l’intero apparato di comando economico, militare e finanziario del vecchio continente.

La crescita davvero straordinaria del consenso elettorale per la Lega nella recente consultazione transnazionale e la conquista inarrestabile dei governi regionali ad ogni scadenza elettorale evidenziavano un notevole arretramento del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico, entrambi intimiditi e quasi rassegnati alla disfatta, come un pugile ormai suonato che spera solo nella campana per riposarsi all’angolo.

Il sindacato (compreso quello di base) non appariva capace di organizzare proteste e lotte significative, e i militanti anzi non potevano essere considerati del tutto insensibili alla propaganda della destra sociale; la sinistra più radicale protestava certamente, ma più spaventata e preoccupata del futuro politico che in grado di scatenare una risposta di massa.

In questa complessiva cornice Salvini, eccitato dai sondaggi e spinto dalla cupidigia di potere dei suoi sergenti, decise di tentare la sorte, senza indugiare oltre e soprattutto senza riflettere a fondo sulla reale consistenza delle forze in campo. Le vicende di Varufakis e di Tsipras evidentemente non gli avevano insegnato nulla, il guascone lombardo perseverava nella convinzione che la BCE e la Commissione Europea avrebbero finito con l’accettare anche un esito sgradito della consultazione nazionale anticipata, accettandolo come vincitore e venendo a patti, senza reagire con la violenza e con il complotto. Si sentiva la vittoria in pugno.

In esecuzione di questo progetto la Lega prima ha votato contro la nomina di Ursula von der Leyen (a differenza del più prudente Orban), poi ha preannunciato una manovra nazionale in aperto contrasto con le indicazioni della Commissione Europea, aprendo infine la crisi sulla base di questa scelta programmatica; la questione fiscale era la colonna portante della mozione di sfiducia, dell’attacco frontale agli alleati di governo risultati decisivi nella votazione del parlamento europeo. E sulla questione fiscale, ovvero sull’elaborazione della legge finanziaria, si è giocata in agosto la partita di governo; solo una conclusione fulminea poteva condurre al voto in tempi tali da consentire alla nuova maggioranza di destra il varo di una manovra economica di aperta rottura, sfidando la minaccia della procedura d’infrazione.

Le liti precedenti erano state, a ben vedere, di corto respiro; accese certo, ma di poca sostanza, senza difficoltà di compromesso: finti litigi, ad uso della rappresentazione spettacolare di una presunta sicurezza. La questione della sicurezza sostanziale rimaneva nel cassetto, non rientrava nei programmi di governo, dall’inquinamento alla sanità, dagli infortuni sul lavoro alla guerra. Nel primo quadrimestre del 2019 in Italia i morti sul lavoro sono stati 303; al primo posto di questa classifica troviamo la ricca Regione Lombardia, con 35 vittime accertate (Vega, Osservatorio Sicurezza sul Lavoro, in base ai dati Inail, notoriamente errati per difetto). E 40 (il 7,7%) sono i migranti morti in questo modo. Su questo tuttavia maggioranza e opposizione tacevano con mutuo accordo consenziente. Da bravi commedianti fingevano di litigare, perfettamente consapevoli di non avere alcuna ragione sostanziale per farlo. Semplicemente rinviavano, cercando di rimuovere lo spettro della legge finanziaria, a fine anno.

La pur mutata composizione del parlamento europeo non era sufficiente per un radicale rivolgimento di rotta; e fino al passaggio di consegne rimane in carica, con pieni poteri, la vecchia commissione. L’avvio della procedura d’infrazione non è cosa di poco conto, specie considerando il possibile devastante effetto moltiplicatore connesso alle operazioni finanziarie e al ruolo della BCE (senza Draghi). Oltre un terzo degli elettori italiani ha scelto come proprio rappresentante in Europa quel bel tipo di Matteo Salvini; ma l’apparato di comando, per sua natura e per sua storia, se ne infischia delle urne quando l’esito del voto non è conforme ai piani. Si impone invece con la forza degli strumenti finanziari o, in caso di ostacoli e resistenze, con l’intero ioni finanzulmineo poteva condurre al votapparato repressivo, poliziesco, giudiziario, militare. La concezione politica dell’apparato di comando non è quella della vecchia democrazia rappresentativa, ma si riassume nella suggestiva teoria del pilota automatico. Non solo viene applicata la regola autoritaria di reprimere le lotte sociali con il manganello e di ricondurre ogni manifestazione del dissenso nell’ambito del diritto penale; viene anche vanificato il voto, qualificato come un pronunciamento inammissibile e illegale laddove si ponga in contrasto con le linee guida elaborate dalla cabina di regia. Oriol Junqueras, Toni Comin e Charles Puigdemont sono deputati eletti nella regione catalana, ma non possono mettere piede in aula per via dell’ordine di carcerazione emesso dal Tribunale Supremo e della recentissima condanna ad oltre dieci anni di carcere; il popolo greco aveva risposto no! alle imposizioni della finanza ma Tsipras si è dovuto piegare lo stesso alle condizioni imposte per evitare guai peggiori. Non è questione di destra o sinistra; il pilota automatico non accetta insubordinazioni, esige invece adeguamento e obbedienza, a prescindere direbbe Totò. Accogliere o respingere migranti, sparare o non sparare ai ladri negli appartamenti, curare i tossicodipendenti o lasciarli morire sulle panchine, aprire o chiudere i bordelli, appendere o rimuovere crocefissi nelle scuole, tutte queste cose non hanno il minimo interesse per gli apparati finanziari; le comunità territoriali sono libere di affidarsi al signor Salvini o alla signora Boldrini, facciano come credono, basta che paghino. I nuovi barbari che detengono le chiavi del comando non hanno religione, non conoscono morale, sono senza radici e senza principi. Salvo uno, solido e fermo: non bisogna mettere in discussione i pagamenti, guai a toccare i soldi, quelli sono sacri.

Salvini aveva ottenuto il beneficio di una prudente fiducia da parte del capitalismo finanziario grazie alla campagna mediatica a sostegno degli investimenti in grandi opere, compreso il problematico TAV della linea Torino-Lione; ma in quello stesso ambiente aveva anche suscitato non poche perplessità con il taglio delle aliquote fiscali alle partite IVA con fatturato inferiore ai 65 mila euro o con il varo di quota cento per l’accesso alla pensione.

Bisogna tuttavia osservare che per le grandi opere il PD non aveva esitato a sostenere la posizione del Centro Destra e della Lega e che la stessa CGIL del nuovo segretario Landini non mostrava di avere interesse ad opporsi preferendo coltivare altri obiettivi; a fronte di uno schieramento così ampio il Movimento 5 Stelle aveva di fatto scelto il compromesso di un dissenso rassegnato, lasciando a Giuseppe Conte l’incarico di rendere ufficiale il cedimento. Dunque la spesa in grandi opere non era più questione di contrasto, la cabina di comando era tranquilla, non aveva necessità di concedere contropartite per un traguardo comunque raggiunto e acquisito. Merito (o meglio colpa, dal nostro punto di vista) di Salvini, certamente; ma la gratitudine non rientra fra i valori che il capitale finanziario ritiene degni di essere coltivati.

La crisi di Agosto ha posto invece, fin da subito, quale elemento decisivo, il contrasto fra le due forze di governo nel voto al parlamento europeo. Il commissario italiano, espressione della minoranza leghista, sarebbe rimasto ospite sgradito e debole di una maggioranza apertamente osteggiata dalla coppia Lega/Fratelli d’Italia; per giunta l’appoggio del Movimento 5 Stelle a Ursula von der Leyen (anticipato da Conte nei colloqui) era risultato decisivo, aggravato dal consenso di Orban e Berlusconi, lasciando intravedere un orizzonte di isolamento politico dei partiti c.d. sovranisti.

Salvini era convinto di piegare Berlusconi alle sue condizioni, senza lasciargli alternativa: in caso di voto anticipato l’asse con la destra era sufficiente a raggiungere la quota del 40%, rendendo marginale Forza Italia, già consumata dalle piccole erosioni interne, irrilevante al di fuori di un’alleanza di destra. Il nuovo esecutivo, nel disegno di Matteo Salvini, si sarebbe posto in guerra aperta con la Commissione Europea, sfidandola sul terreno del debito, contando che il consenso delle urne avrebbe legittimato un rifiuto delle regole di bilancio rendendo inefficace ogni procedura di infrazione. Alla guida di un paese membro del G8 intendeva costruire una rete politica neonazionalista unificando i partiti della destra xenofoba presenti nell’Unione con effetto se non sinergico almeno moltiplicatore.

Il piano non era solo suggestivo; aveva anche possibilità di giungere a compimento. Una minaccia effettiva produce reazioni, modifica i comportamenti delle forze in campo e dei soggetti che le dirigono, separa gli alleati, unifica i nemici, altera l’equilibrio apparente di strutture poco solide come le due Camere italiane. Il guascone lombardo ha giocato sulla debolezza altrui senza avere altro sostegno di quello, rivelatosi fragile alla prova dei fatti, di un sostegno elettorale assai ampio. I suoi avversari avevano i soldi e le armi, di cui invece lui non disponeva.

Nel lamentare di essere vittime del complotto ordito dalla struttura europea di comando politico e finanziario i dirigenti della Lega si rivelano solo ingenui e sprovveduti; la Commissione Europea ha solo sventato una minaccia ricevuta, gli speculatori finanziari hanno solo continuato a fare il loro mestiere, giocando con il denaro e scommettendo sul vincitore. PD e Movimento 5 Stelle hanno incassato il debito di fiducia maturato con il voto per Ursula von der Leyen, resuscitando l’inossidabile Travicello Gentiloni, ora ribattezzato Lazzaro Gentiloni. La nuova maggioranza si presenta senza alcun dubbio variopinta e sgangherata, con passaggi inattesi da un partito all’altro, ma al momento sembra non avere alcuna intenzione di lasciare il campo.

La manovra economica, di basso profilo, risponde alle regole europee; l’avamposto del populismo sovranista sognato da Matteo Salvini non è riuscito a diventare governo, è relegato ad uno delle numerose trincee di opposizione. Il compromesso sul progetto di bilancio da far accettare in Commissione Europea e in BCE ha delle crepe vistose e presenta contraddizioni evidenti. Ma rispetta i rapporti di forza, la lezione greca costituisce un messaggio ricevuto e accettato da tutti i partiti della coalizione, L&U compresa: hanno fatto di necessità virtù.

Ma sarebbe un errore fatale pensare che la partita sia chiusa. Sulla questione fiscale si gioca il prossimo futuro, e lasciarla in mano alla destra xenofoba reazionaria nazionalsocialista non può che condurre ad un disastro di proporzioni attualmente neppure esattamente prevedibili. Accettare la logica del prelievo come dato oggettivo, della redistribuzione equa del prelevato come programma, significa accettare la sconfitta, anche strategica, di ogni aspirazione ribelle e di ogni lotta per la liberazione dalla trappola del precariato. Non è possibile che la guerra all’uso del contante diventi un elemento costitutivo del programma di un movimento costituente fondato sulla cooperazione e sul mutualismo. Le informazioni raccolte utilizzando i circuiti informatici di pagamento si traducono in oro per le strutture finanziarie, che oltre tutto ricevono commissioni aggiuntive. Ma di questo non si parla, si pensa solo al rastrellamento di risorse e a porre il preteso debito a carico delle moltitudini.

Questo non significa certo sognare cortei di protesta con un programma di difesa del contante, sia ben chiaro; significa solo svelare l’essenza reale del progetto governativo di pagamento tracciato, il piano complessivo del programma di prelievo, la frode del pareggio di bilancio, il trucco di una simulata lotta all’evasione che si traduce sempre e soltanto nel controllo delle vite umane, nella schiavitù dei soggetti. I più grandi evasori sono le banche, sono gli spacciatori di prodotti finanziari, i gestori dei paradisi fiscali cui si vorrebbe consegnare la tracciatura dei pagamenti! Ovvero sono gli stessi che controllano la cabina di comando. Perché mai dovrebbero farsi carico di una maggiore imposizione a vantaggio di un popolo con cui non hanno nessun legame e che intendono invece spremere quanto più possibile? Non ha alcun senso!

La questione politica, o se si preferisce economica, del prelievo fiscale riveste oggettivamente un carattere esplosivo, la tregua concessa dalla Commissione e dalla BCE (sempre che venga sia confermata e sempre che il governo italiano trovi intesa interna) non risolve il nodo cruciale, l’orizzonte non appare rassicurante.

La forbice che separa ricchi e poveri si è allargata, al punto da suscitare allarme anche dentro il palazzo; la mediazione di un ceto medio fiducioso nelle istituzioni è venuta meno a causa della sparizione di questa struttura di frontiera posta fra la grande impresa e il lavoro produttivo. La diminuita capacità di destinare risorse all’istruzione, alla ricerca, alla sanità, alle pensioni è ormai una caratteristica di tutta l’economia globale, in ogni paese del pianeta. L’allargarsi costante della forbice si salda con gli effetti della maggior pressione fiscale, provocando disagio, malessere sociale, tensione, rabbia. Le vittime sono alla ricerca di untori da linciare; la destra li propone nella comunicazione mediatica, scrive copioni dello spettacolo.

La guerra, sempre più estesa e diffusa, alimenta gli effetti della crisi. L’opzione autoritaria appare evidente sia nella repressione della protesta francese sia nel carcere inflitto agli autonomisti spagnoli; nell’un caso e nell’altro costituisce una risposta a contestazioni del prelievo fiscale ritenuti incompatibili con le scelte legate al pilota automatico. L’opzione autoritaria si articola nell’uso della polizia e nelle sanzioni economiche, nella minaccia alla libertà e al piccolo risparmio che ancora consente alle moltitudini di sopravvivere. Ma è diffusa una sensazione di insicurezza, di debolezza e di sfiducia; e si va radicando nelle coscienze individuale una sorta di rassegnazione di fronte alla violenza di stato, alla prepotenza criminale, alla guerra.

Il cambio di passo, la riappropriazione delle risorse, la rivendicazione solidale e mutualistica del comune non possono prescindere dal rifiuto politico del debito, dalla elaborazione di una piattaforma rivendicativa che ponga al centro del programma di emancipazione la pressione fiscale. Dentro le comunità territoriali cresce il desiderio di buone pratiche, di esperienze sociali davvero alternative e dichiaratamente estranee alle compagini governative necessariamente prigioniere del pilota automatico quale che sia la loro composizione, indipendentemente dalla buona o cattiva fede dei protagonisti. La comunità è un vocabolo che ritroviamo sia nei primi atti fondativi dell’Unione Europea sia in quella straordinaria purtroppo dimenticata esperienza che fu – Comes – l’unione degli scrittori europei contro il dispotismo. La questione fiscale va ricondotta dentro la comunità, dentro la solidarietà, contro la guerra. Ma non può e non deve essere lasciata nelle mani di avventuriero pericoloso come Salvini, e neppure in quelle senza prospettive dell’attuale compagine di governo. Sarebbe davvero un disastro; la bolla sta scoppiando.

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