E’ molto signorile Laura Pennacchi a resistere alla tentazione di parlare di frode a proposito della proposta di Renzi di “lavoro di cittadinanza” in alternativa al “reddito di cittadinanza”. In effetti avrebbe tutte le ragioni, dal momento che tale proposta è stata da lei presentata più volte negli scorsi anni in nome dell’obiettivo della piena e buona occupazione e ha già suscitato sul sito di Sbilanciamoci un ampio dibattito. E’ chiaro che Renzi usa tale espressione in modo diverso e ipocrita per finalità in parte opposte a  quelle evocate da Pennacchi. Se l’obiettivo  può essere lo stesso (il raggiungimento della piena occupazione), le modalità sono in effetti differenti. Laura Pennacchi insiste sull’esistenza di una dicotomia tra lavoro e reddito e, se – come ci ha insegnato Keynes – l’economia di mercato non è in grado di raggiungere tale obiettivo per carenza di domanda effettiva (e non per una presunta rigidità del mercato del lavoro, come è invece implicito nella filosofia del Jobs Act renziano), l’unica strada  percorribile è una robusta iniezione di investimenti pubblici sul modello del New Deal roosveltiano degli anni ’30.

New Deal, per l’appunto. E’ possibile una sua riattualizzazione? Ne dubitiamo, se non altro perché a 85 anni di distanza, le modalità del processo di accumulazione e, soprattutto, di valorizzazione (creazione di ricchezza) sono drasticamente mutate. Ampia è la letteratura al riguardo, soprattutto quella relativa a sottolineare come oggi la produttività del lavoro (ovvero l’accumulazione) sia sempre più basata sullo sfruttamento di economie di scala di tipo dinamico (e non statico, come in passato): l’apprendimento, la relazione e la riproduzione. Tutto ciò ha implicato un’evoluzione delle forme di organizzazione produttiva (per flussi) e una svalorizzazione del lavoro, superando la vecchia separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Le nuove tecnologie (ieri quelle informatiche-digitali, oggi quelle legate alla bio-robotica, nano e biotecnologie e all’intelligenza artificiale – algoritmi)  hanno infatti permesso l’utilizzo ai fini produttivi (valore di scambio) e quindi mercificabili di molte facoltà umane e vitali. Ciò che per il profitto prima poteva essere considerato “improduttivo”, oggi lo è diventato: formazione, attività relazionale, consumo, riproduzione sociale definiscono un nuovo tempo di lavoro-vita, di cui solo una parte viene certificata come effettivamente produttiva secondo le regole della contrattazione giuslavorista e quindi potenzialmente remunerabile.

In tale contesto, ciò che si modifica è il concetto di disoccupazione. Le statistiche ufficiali ci dicono che in Italia il tasso di disoccupazione si colloca al di sopra dell’11%. Sappiamo che, se consideriamo anche la cassa integrazione e i cd. “scoraggiati”, si supera abbondantemente il 20%

[1]. Dietro questi numeri, tuttavia, si nasconde una realtà nuova. I disoccupati infatti sono inseriti nella catena di produzione di valore, per l’accumulazione capitalistica e la produzione di plusvalore non sono cioè del tutto “improduttivi”: sono “occupati” non retribuiti. Ad esempio i consumatori fidelizzati a una catena della grande distribuzione (non tutti quindi) diventano forza lavoro attiva, oltre che semplici consumatori, perché “lavorano” nella produzione dei big data. Laddove le nuove modalità di organizzazione capitalistica utilizza le megamacchine e le piattaforme di condivisione sociale (facebook , ecc.) si verificano atti di produzione di plusvalore, tanto maggiore quanto più tale partecipazione è gratuita e supposta volontaria (solo per fare alcuni esempi noti). Non è un caso che il confine tra lavoro remunerato (sotto forma di salario o in altri modi) e lavoro non pagato tende sempre più a diventare labile così come avviene anche per la separazione tra lavoro etero-diretto (che implica una qualche forma di subalternità con uno specifico committente o datore di lavoro) e lavoro auto-diretto (che induce a processi di assoggettamento e di subalternità sociale e a forme di estrazione di ricchezza a beneficio altrui). Lungi dal trovarci in un contesto di fine del lavoro siamo in un contesto di lavoro senza fine, proprio perchè la quota di lavoro non pagato (o sottopagato, grazie alla precarietà e all’economia della promessa [2]) è in costante crescita.

L’accelerazione tecnologica del nuovo millennio, inoltre, svolge un ruolo fondamentale, spesso sottovalutato, quasi che il progresso tecnologico fosse neutrale (come vorrebbe l’economia mainstream). La nuova frontiera non a caso ha a che fare con la gestione dei dati (data-mining), con nuovi prodotti finanziari (i derivati di II generazione), con l’ibridazione uomo-macchinico, con le nuove tecniche di manipolazione genetica e di cura, con la riduzione nell’utilizzo dello spazio sia reale che virtuale (nanotecnologie). Tutti i processi, che nell’alveo della tradizione capitalistica, sono destinate a impattare negativamente sull’occupazione “tradizionale”, soprattutto nel terziario (materiale e immateriale), che nelle ultime decadi aveva fatto da spugna per l’emorragia dell’occupazione manifatturiera in seguito all’Ict.

Tale dinamica tende ad ampliare i già elevati processi di frammentazione del lavoro. L’attuale governance europea del lavoro (Jobs Act, Loi Travail, riforma Harz IV, Ley Trabajo) si muove non a caso in questa direzione proprio nell’illusione della piena occupazione: non più solo tra lavoro stabile e lavoro precario ma sempre più tra lavoro pagato e lavoro non pagato.

Più che l’obiettivo di una piena e buona occupazione, dovremmo porci quello di un pieno e buon reddito. Un reddito che non finalizzato a finanziare i presunti “fannulloni” (nel nome di un etica del lavoro novecentesca, oggi ipocrita e fuori dalla storia) ma a remunerare quel tempo di vita diventato produttivo e non riconosciuto come tale. Un reddito che non è altro la restituzione di un’anticipazione di creazione di valore a beneficio del capitale, frutto di una cooperazione sociale che è oggi la base dello sfruttamento contemporaneo. Lo scandalo di questa posizione è che, essendo il reddito di base una remunerazione (e non pura assistenza), è per definizione incondizionato. Si tratta di una rottura  culturale, prima ancora che politica, che non viene compresa né dai nostalgici della fabbrica e della buona e sana economia materiale né dai fautori nostrani del reddito di cittadinanza, presi come sono a introdurre forme di obblighi lavorativi (il lavoro socialmente utile, ad esempio, moderna forma di lavoro forzato che oggi si vuole estendere anche ai profughi per un diritto di residenza e di fuga che, in quanto inalienabile, dovrebbe essere già di per se dato). La dicotomia tra reddito e lavoro risulta così superata, in quanto reddito e salario sono fra loro complementari (a quando l’introduzione di un salario minimo?).

Una volta compresa la rottura, allora si potrà discutere delle modalità e della tempistica di attuazione, delle forme di finanziamento e del livello, iniziando da un reddito minimo.

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Note:

[1] A.Fumagalli, Lavoro male comune, B. Mondadori, Milano, 2015, cap. 2.

[2] M. Bascetta (a cura di), L’economia politica della promessa, Manifestolibri, Roma, 2015, con  contributi di Giuseppe Allegri, Marco Bascetta, Giuseppe Bronzini, Roberto Ciccarelli,  Andrea Colombo, Valeria Graziano, Cristina Morini.