La congiuntura in Niger è emblematica della crisi del colonialismo francese ed europeo. Qui l’intervista a Amzat Boukari-Yabara, un medico, storico e militante africanista. È uno dei curatori dell’opera collettiva pubblicata nel 2021 da Editions du Seuil, L’Empire qui ne veut pas mourir. Une histoire de la Françafrique (a cura di Thomas Borrel, Amzat Boukari-Yabara, Benoît Collombat, Thomas Deltombe).

Originale, a cura di Francois Bougon

NB: Una recensione di Jean-Pierre Listre di questo libro si trova qui.

Vedi anche su Effimera qui  e qui.

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Il golpe in Niger è l’inizio della fine per la Françafrique?

Da almeno vent’anni si annuncia la morte di Françafrique ma il suo certificato di morte tarda ad arrivare. Il caso del Niger è probabilmente più significativo di quello del Burkina Faso, o addirittura del Mali, perché questo Paese si presenta come uno stabile e fedele alleato di Parigi, una serratura di sicurezza nel Sahel e un partner nelle politiche migratorie europee, nonché il settimo paese del mondo nella produzione di Uranio. Con la sua posizione geografica, il Niger ha un ruolo centrale nel sistema di dominio francese nella subregione, e il putsch di Niamey rafforza la tesi di un effetto domino regolarmente brandito dai funzionari francesi per spiegare la necessità della riconquista di fronte alla perdita di influenza o l’avanzata dei rivali.

Quale sarà il prossimo paese a cadere? Ciad, Costa d’Avorio, Senegal, Congo-Brazzaville, Togo, Camerun, Gabon… Oltre alla diversificazione della sua influenza e alla sua ridistribuzione in settori più discreti, Françafrique ha ancora una serie di roccaforti. Inoltre, questa non è la prima volta che la Francia viene espulsa da una delle sue ex colonie prima di riconnettersi con loro in seguito. In Guinea e Mali al momento dell’indipendenza, in Madagascar negli anni ’70, nella Repubblica Centrafricana negli anni ’90, la Francia è stata costretta ad andar via per tornare meglio un po’ più tardi. Inoltre, la Guinea, anch’essa vittima di un putsch, non ha rotto gli accordi con la Francia, a differenza del Mali e del Burkina Faso, e fino a questa domenica la partenza dei soldati francesi dal Niger non è ufficiale.

NB: L’ultimatum di un’operazione militare della Economic Community of West African States (ECOWAS) (l’organizzazione regionale profrancese) alla giunta che ha preso il potere con un colpo di stato che ha destituito il regime di Bazoum in Niger, è scaduto domenica 6 agosto. A oggi -lunedì pomeriggio- un intervento armato a difesa dell’egemonia francese ed europea è lungi dall’avere l’unanimità: dal Magreb all’Africa dell’Ovest tanti vi si oppongono. Una delegazione ufficiale del Mali e del Burkina a Niamey ha portato la solidarietà ai putschisti; questi due paesi vicini, anch’essi ora governati da militari putschisti, hanno affermato che un intervento armato della ECOWAS in Niger sarebbe una «dichiarazione di guerra» contre di loro.

Come spiegare la cecità delle élite francesi a ciò che sta accadendo in questa regione?

Ci sono due parallelismi piuttosto interessanti. Nel 2021, dopo l’assassinio di Idriss Déby in Ciad, Emmanuel Macron si è precipitato a sostenerne il figlio [Mahamat Idriss – ndr]. Dopo il colpo di stato in Niger del 26 luglio, è tornato dal suo viaggio in Oceania per organizzare un consiglio di difesa. Questo dimostra quanto, dietro gli annunci della fine di Françafrique, tutte le prime reazioni al cambiamento nel cortile di casa perpetuino il sistema, con la voglia di farlo evolvere anche a costo di partire per tornarvi meglio. I cittadini francesi vengono evacuati. Per il momento, quindi, non è del tutto risolta la sorte della presenza militare, né la questione dell’uranio sfruttato dalla Francia. Ma, in ogni caso, togliamo ciò che è considerato secondario, sia che si tratti di aiuti allo sviluppo o di cittadini francesi che in Niger sono piuttosto pochi rispetto ad altri Paesi come il Senegal o la Costa d’Avorio.

Secondo elemento, la politica africana della Francia è una specie di botte delle Danaidi (oddio ??? un’opera fallimentare). Nonostante l’accumulo di segnali, Parigi non vuole capire le critiche e si rifiuta di discutere di un’uscita volontaria dalla Françafrique. Quando la Francia è attaccata e respinta si assiste allora a una reazione che appare come l’orgoglio ferito che cade nel gioco della provocazione. Ad esempio, la cessazione dell’aiuto allo sviluppo, uno strumento della Françafrique, è stata presa come parte di una politica di sanzioni dopo il putsch in Niger. Ma in fondo questa decisione ricorda quella del generale de Gaulle che, infastidito dal fatto che la Guinea di Sékou Touré avesse votato no al referendum del 1958, aveva tagliato i legami economici con questo paese per punirlo di aver scelto l’indipendenza. La sospensione degli aiuti allo sviluppo, oltre alla forma di ricatto che insinua, mira a sconvolgere l’estroversa economia del Niger, che si basa sugli aiuti, senza tener conto delle richieste di associazioni e attivisti che, nell’ambito dell’uscita della Françafrique, invocano l’organizzazione di una fine ufficiale dell’aiuto pubblico allo sviluppo che tenga conto delle alternative proposte in particolare dagli africani stessi.

E più precisamente sul Niger?

Onestamente, il Niger, nell’opinione pubblica francese, si riduce all’uranio. Ciò illustra l’incapacità di pensare ai paesi africani al di là della materia prima e delle risorse che rappresentano. Di conseguenza, le realtà sociali, le questioni più umane vengono rese invisibili a favore di interessi, come la presenza di cittadini francesi, quindi la loro evacuazione. Nel caso del Niger, come nel caso di altri paesi, la dimensione umana che può includere la doppia nazionalità e la diaspora è totalmente spazzata via dalla questione degli interessi.

Inoltre, si è ancora di fronte alle conseguenze dell’intervento in Libia, che ha portato alla destabilizzazione del Sahel e all’instaurarsi per un decennio di un certo tipo di politica inefficace, anche sul piano militare, e che alimenta il risentimento. C’è anche una forma di arroganza “civilista”, profondamente coloniale, che emerge dalle osservazioni fatte dallo stesso Macron a proposito dell’“elevata fecondità” – da sette a otto figli – delle donne nigerine come causa dell’impossibilità di sviluppo di questo paese. Spiccano i vecchi luoghi comuni e questo non incoraggia la popolazione del Niger ad avere stima della Francia.

Catastrofica, infine, la politica migratoria, sia attraverso il posizionamento del Niger come base di controllo dell’Unione Europea delle migrazioni: vi si accolgono anche migranti rimpatriati dal Nord Africa quando non sono abbandonati nel deserto, sia attraverso una politica dei visti ampiamente denunciata e contestata per la sua natura discriminatoria, anche da gran parte delle élite culturali e intellettuali. Abbiamo quindi assistito a una serie di errori strategici, o al rifiuto di abbandonare il comportamento coloniale da parte della Francia, per non parlare della componente maliana e dell’operazione Barkhane.

Eppure Emmanuel Macron non aveva detto di voler porre fine a una certa politica africana?

È piuttosto una regressione quella a cui abbiamo assistito. Macron, per la sua personalità e il suo ego, ha avallato atteggiamenti che non reggono; ha una gestione del potere molto monarchica; ha escluso la vecchia diplomazia, privilegiando gli scoops e la patina mediatica. Il presidente francese pretende fare qualcosa di nuovo con il vecchio. Un po’ come Nicolas Sarkozy che sosteneva il “linguaggio della verità”, Macron sta commettendo degli svarioni, che stanno provocando un fenomeno di rifiuto tra i giovani africani, che aveva preso come suo target da accattivarsi sin dal suo discorso del 2017 a Ouagadougou. Ma il suo sistema rimane fondamentalmente coloniale. Sono molto sorpreso che attorno al presidente francese non ci siano persone un po’ più illuminate, un po’ più aggiornate con la realtà.

Come lo spieghi? È una fissazione per le questioni militari?

L’aspetto militare è relativo, perché la Francia non ha più i mezzi necessari per mantenere da sola una presenza significativa. Inoltre, l’esercito francese in questa regione non aveva lo scopo di andare a combattere i jihadisti, ma di monitorare o accompagnare l’ascesa degli eserciti africani. Di conseguenza, sono emerse molte ambiguità, una situazione molto neocoloniale, che non può che alimentare discorsi cospiratori. Sul versante economico, anche se ci fosse un discorso di Macron su questo tema, la Francia si rifiuta di riconoscere di avere interessi e di essere presente per questo, a differenza dei cinesi, dei russi o degli americani. Di conseguenza, la gioventù africana non può che denunciare questa ipocrisia che si aggiunge al doppio standard tra la condanna dei colpi di stato militari che ne mettono in discussione la presenza e il silenzio di fronte ai presidenti che violano la loro Costituzione espletando un terzo mandato. Infine, ciò che la Francia offre in campo intellettuale è molto debole. E non è recuperando Achille Mbembe che la Francia è riuscita ad approdare all’atteso rinnovamento critico.

Le sinistre sono presenti in questi dibattiti?

Non proprio. A parte i comunisti eletti che sollevano questioni come quelle del franco CFA, degli interventi militari, dell’immagine della Francia e forse del ruolo delle multinazionali, il sistema non consente grandi dibattiti su questioni politiche che riguardano il dominio presidenziale. Tutto ciò che riguarda i gruppi di amicizia in Parlamento rimane davvero in una classica diplomazia della cooperazione. Non è nemmeno lì che andrà a finire.

Al di là della sinistra, più in generale, dal punto di vista della logica ministeriale, per dieci anni, tra il 2012 e il 2022, le questioni africane sono passate sotto l’azione di Jean-Yves Le Drian, prima al Ministero della difesa, con Hollande, poi al Quai d’Orsay (ministero degli esteri) col primo mandato di Macron. L’Africa è rimasta in ambito militare con l’intervento nel Sahel e diplomatico con un prisma economico e delle poste in gioco trasversali tra cui, ad esempio, il clima, le migrazioni, i giovani. In questo contesto, il Niger era la pedina con cui parlava di clima in nome dell’Africa. Ma era davvero un paese telecomandato.

Negli ultimi tempi abbiamo visto Félix Tshisekedi, presidente della Repubblica Democratica del Congo, o Macky Sall, suo omologo senegalese, intervenire nei grandi forum economici organizzati da Macron a Parigi per ridiscutere il finanziamento delle economie africane. Ma si è lì a livello di questioni di multilateralismo, non tanto di politica puramente francese. Ciò solleva interrogativi su ciò che resta realmente di una politica africana della Francia al di là delle vecchie reti di relazioni che vengono riciclate.

PS: In un’altra intervista pubblicata sempre da Médiapart, Idrissa Rahamne, un ricercatore nigerino, afferma che la politica africana francese è “zombie, senza bussola politica ed etica”.  “Con entusiasmo la popolazione rigetta la democrazia, identificata come l’Occidente, la Francia e il partito che era al potere prima del putsch. È possibile che il Niger, con il Mali e il Burkina Faso, e senza dubbio la Guinea, sia entrato in un duraturo inverno militare”. In realtà è questa la conseguenza inevitabile dell’impostura neocoloniale francese ed europea. L’accusa di sovranismo di MBembe e altri contro chi sostiene il putsch segue di fatto lo schema del discorso di Macron che pretende erigersi a difensore della democrazia … Purtroppo, le popolazioni africane sono alla mercé di un disastro culturale e politico che non ha smesso di aggravarsi dopo tanti decenni di colonialismo e poi di neocolonialismo.

Foto di apertura: Ansa

 

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