“Où s’adresser pour réclamer justice,
si c’est l’iniquité des puissants qui nous tue!…
On peut faire ce que précisément Créuse fait,
fait tout au long de la pièce
…c’est la parrhesia”
M. Foucault

1. L’Europa

E’ stato proprio Varoufakis lo scorso novembre in un seminario sull’estetica della moneta tenuto a Berkeley a ricordare come la signora Thatcher fosse contrarissima all’euro. Proprio io, diceva, che sono stato a duecento manifestazioni contro di lei. Proprio io, mi trovo ora a citare la Thatcher. Era stata accolta con scetticismo, l’opposizione intransigente della Thatcher. Allora, solo lei si era opposta all’integrazione monetaria, ma la sua opposizione le era costata cara: prima le dimissioni del Ministro degli Esteri Geoffrey Howe, e poi le proprie nel novembre del 1990. Venticinque anni dopo le sue posizioni tornano ad essere oggetto di discussione, ironicamente da parte di quegli stessi critici della scuola neo-liberale a cui lei si ispirava per difendere la necessità di mantenere disperso il potere e decentralizzate le decisioni senza cedere la sovranità a “un super-stato

[…] che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”.

Varoufakis riprende la Thatcher e poi torna al presente, a quell’unione europea divisa in modo quasi tragicomico proprio dall’unione monetaria in quello che sembra, per citare il suo libro, “uno squilibrio fondamentale”. È Christian Marazzi che riporta l’attenzione su questo concetto laddove descrive la situazione contemporanea come una situazione di squilibrio fondamentale, “quella situazione in cui alcuni paesi importano eccessivamente e altri esportano anch’essi eccessivamente, utilizzando i ricavi di queste esportazioni non per investire al loro interno, bensì per finanziare i deficit e i debiti dei paesi importatori” (Marazzi, 2015). Mi vengono sempre i milioni di barili di greggio stoccati in petroliere che vanno su e giù nelle acque dell’oceano in attesa che le fluttuazioni dei prezzi consentano un utile, a descrivere l’evoluzione di quello che un tempo, in modo spavaldo, si definiva l’equilibrio di domanda e offerta. Al contrario, oggi questa specie di scollamento, questo divorzio tra domanda e offerta sembra aver portato a quella che Marx definiva la “sospensione del capitale”, un processo che invano cerca compensazione in “quella ingegneria finanziaria ipertossica che, nel 2008, ha fatto esplodere la bolla dei subprime, innescando una crisi globale senza precedenti” (Marazzi, 2015). Era stato un umile genio napoletano a mettere in guardia da questa deriva. Tanti anni fa Augusto Graziani aveva scritto che la politica valutaria di tenere stabili i cambi esteri inaugurata da Andreatta si sarebbe trasformata in Italia in una vera e propria politica industriale che avrebbe costretto gli imprenditori a riguadagnare, in termini di produttività e di contrazione del costo del lavoro, quello che prima potevano ottenere con la svalutazione differenziata. Avvisava, in altre parole, che la rinuncia alla svalutazione della lira rispetto al marco avrebbe danneggiato le esportazioni, conducendoci verso una situazione, appunto, di squilibrio fondamentale, quella situazione in cui ai paesi periferici rimane solo di ricorrere al debito per importare dai paesi esportatori, mentre i paesi esportatori fanno leva sul credito per trasformare le economie periferiche in sfiatatoi coatti per le proprie eccedenze. Troppo tardi, ora, per inveire o recriminare sul passato. Fatto sta che anche ad occhio nudo il Sud europeo si è trasformato in un corpo che pare dato in sacrificio alla moneta: una zona periferica in rapporto simbiotico al capitale come in una specie di guerra diffusa dove l’erosione del tessuto produttivo e la disperazione sociale sono le ragioni stesse del suo volgare spettacolo altrove.

Eccoci dunque in Grecia, in quella situazione di agonia che l’Economist ha equiparato a quella di depressione negli anni Trenta negli Stati Uniti, dove il rapporto debito-Pil è del 181%, la disoccupazione giovanile è al 60%, i salari sono calati del 40%, le pensioni sono state tagliate del 50%. In questa stessa Grecia l’elezione di Syriza all’inizio era parsa un miracolo. Altr@ molto più di me han seguito le difficoltà di un processo ricompositivo sotto l’egidia di un continuo ricatto da parte dei vertici di Bruxelles. Fatto sta che al momento delle elezioni Syriza apre una falla nel discorso neo-liberale. Una specie di tubo di ossigeno. La voce del capitale, quel sofisticatissimo ordine del discorso tenuto in vita a colpi di censura, reclusione, suicidi, espulsioni, premi, incentivi, ricatti e repressione da Berlino a Washington passando per Bruxelles trova ora un controcanto nel governo di Atene. L’entusiasmo per il neo-governo greco sembra intercettare i desideri sepolti nelle viscere delle periferie europee. Al centro del dibattito è d’un tratto una verità scandalosa: il fatto che l’austerità è sbagliata. Non solo è sbagliata dal punto di vista morale: è sbagliata dal punto di vista dell’analisi economica. L’invidia della “scienza triste” nei confronti della fisica ha spinto il mondo a credere in un metodo scientifico “teologico” che difende in modo eroico modelli matematici così avulsi alla complessità sociale da richiedere una continua “tortura dei dati” per evitare di esserne umiliati, punge Varoufakis nei suoi scritti più belli. L’austerità è sbagliata e la Grecia sembra per un istante capace di incarnare l’alternativa in grado di sfidarla restituendo al dibattito europeo un respiro e un senso di possibilità svaniti da tempo.

E’ più complicato di così, ovviamente.

Subito dopo le elezioni Syriza chiede il condono del 50% del debito. Le ragioni? Crisi umanitaria. Vi ricorderete la risposta: NEIN. Non si trattava solo di un no: il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, da una evidente posizione di nervosismo politico, avvisava la Grecia di “non ricattare la Germania”, aggiungendo che la Grecia “non vedrà nemmeno un euro fin quando non avrò ottemperato a tutti gli impegni presi”. Tsipras rispondeva seccamente che la Grecia “non intende fare ricatti, ma neppure ha intenzione di accettarne”, e la cosa si chiudeva così, per dirla con Varoufakis, d’accordo di non essere d’accordo. Torno tra poco sul linguaggio di Schäuble, perché va ragionato. Va notato sin da ora, infatti, che il linguaggio di Schäuble non è il linguaggio del carnefice. È il linguaggio della vittima.

Il 9 febbraio la Grecia ci riprova e chiede alla Germania di saldare i propri debiti di guerra, una cifra quasi doppia rispetto a quella oggi richiesta ad Atene. Albrecht Ritschl, storico economico tedesco della London School of Economics, lo sostiene da tempo, la Germania ha il dovere di condonare il debito greco come fu fatto nel dopoguerra con la Germania per evitare una deriva storica pari a quella nazista degli anni trenta. Una provocazione, se vogliamo, che sottende però a una verità fastidiosa, per la Germania, ovvero al fatto che il debito è una questione politica che rimanda a null’altro che a rapporti di forza contingenti per i quali è completamente legittimo porre la questione di “chi deve cosa a chi”. Ancora una volta la Germania respinge al mittente e il Ministro Federale degli Affari Economici Sigmar Gabriel taglia la testa al toro: “la probabilità [che la Germania ripaghi danni di guerra alla Grecia] è pari a zero”.

Il 18 febbraio la Grecia chiede formalmente una proroga di sei mesi all’Unione europea, alla Bce e al Fondo monetario internazionale, in un cambio di strategia netto. Nel frattempo, infatti, alcune cose sono cambiate. La Bce ha minacciato di tagliare la Ela, Emergency liquidity assistance, linea di crediti d’emergenza con cui la Banca Centrale tiene in vita il sistema bancario greco, innescando così una corsa agli sportelli a bassa intensità che continuerà per tutto il mese di febbraio. La minaccia si aggiunge alla decisione del 4 febbraio 2015 di non accettare più come garanzia “collaterale” i titoli di stato greci creando così le condizioni per una situazione di crisi di liquidità destinata ad acuirsi nel corso delle trattative – si veda su questo le analisi di Andrea Fumagalli del 6 febbraio e del 25 febbraio. Costas Lapavitsas, in un post sul Guardian, ha stimato che verso la fine del negoziato le banche greche stavano perdendo un miliardo di euro al giorno. Schäuble sostiene che Tsipras deve fare i conti con la verità; il Ministro delle Finanze irlandese commenta che il sistema bancario greco rischia di andare pancia all’aria in pochi giorni. Su Repubblica Carlo Clericetti parla di “una pesantissima invasione di campo, un tentativo inaccettabile di condizionamento che mira ad indebolire una delle parti, quella che già di suo è la più debole”. Michel Husson assimila la decisione della Bce a “un colpo di stato finanziario” che “illustra la volontà, tutta politica, di destabilizzare il governo greco”.

Fatto sta che il 18 febbraio Atene invia una lettera all’Eurogruppo nella quale si impegna a pagare il debito ma parla dei costi sociali della crisi e della necessità di mitigarli aumentando l’equità sociale (social fairness) in vista di un tentativo di dare solidità alle finanze greche e di garantire la sostenibilità al debito. Sostenibilità del debito è già un concetto chiaro. Significa che la Grecia da un lato promette di liquidare i creditori europei e dall’altro ribadisce di intervenire sui bisogni sociali riportando l’economia greca a un bilancio attivo capace di garantire ad Atene un minimo di autonomia quanto alle riforme da attuare.

Nella modalità con cui questo prospetto è presentato nel primo draft, e ancora di più in quelli successivi, la trattativa a questo punto si configura come una specie di ibrido teorico che tenta di riconciliare due letture contrapposte della crisi greca e altrettanto contrapposte soluzioni. Da un lato la necessità di intervenire sulla domanda e di sollevare dal baratro gli strati più esposti della popolazione, e dall’altro il bisogno invece di raggiungere gli obiettivi di pareggio di bilancio dei creditori, tagliando ulteriormente il salario sociale e trasformando la sfera riproduttiva in uno spazio di accumulazione per le banche europee. Due letture inconciliabili, dunque, a indicare una relazione conflittuale che la Grecia aggira, sposta, allarga e ridiscute a colpi di negoziazione e ancora di estenuante contrattazione, accettando di rimanere all’interno dei processi di ristrutturazione preesistenti a patto di portare avanti un programma politico che, a differenza di come normalmente avviene, ha radici etiche: alzare il salario minimo, ripristinare la tredicesima per i pensionati, riassumere i dipendenti pubblici licenziati, introdurre servizi sanitari gratuiti per i disoccupati, e quant’altro.

È facile ricordare come è andata perché di nuovo, la Germania immediatamente, e unilateralmente, cassa la richiesta greca poche ore dopo averla ricevuta. Tradotto con le parole del Die Tageszeitung, questa volta la risposta è NEIN!NEIN!NEIN!NEIN!NEIN! L’oltranzismo della Merkel viene, allora, stemperato dal vice-cancelliere Sigmar Gabriel, per cui negoziare con il governo greco è “un primo passo nella giusta direzione”. Ciò a cui risponde Sigmar Gabriel, in quelle ore, è il rischio di isolamento della Germania sulla questione greca.

In questo contesto di negoziazione tra esigenze contrapposte non sorprende che l’ultima fase del processo ruoti tutta attorno al concetto di avanzo primario. L’ultimo draft riconosce alla Grecia la possibilità di garantire ai creditori un avanzo genericamente definito “adeguato”, tenendo conto delle effettive condizioni dell’economia nel 2015, un dato, questo, in contrapposizione netta con quanto pattuito dal precedente governo greco secondo il quale l’avanzo primario che la Grecia doveva ai creditori sarebbe triplicato in pochi anni, arrivando addirittura al 7,2% dal 2020 al 2030, in un processo estrattivo disegnato in buona sostanza per condannare il paese a morte. Su questo non nuoce ricordare per inciso che la cosa non è una novità: le stesse istituzioni lo fanno da almeno trent’anni in tutto il resto del mondo, condannare interi paesi a morte, dunque la speranza nei negoziati, per chi ne ha, è malriposta in partenza, anche se la cosa (la violenza del debito nel resto del mondo), dobbiamo ammetterlo, ha fatto spesso meno scalpore, perché la Grecia, avrebbe detto Cesaire, è il primo paese bianco ad essere catturato dai “fratelli nemici” nella sua morsa. Fatto sta che bozza finale dell’accordo – per questi quattro mesi – abbassa la quota di surplus primario greco da trasferire ai creditori in quello che, dirà poi Krugman, descrive un buon risultato per la Grecia. Il documento aggiunge poi che la Grecia si impegna “ad astenersi dal ritirare qualunque misura o da modifiche unilaterali delle politiche e delle riforme strutturali che possano avere un impatto negativo sugli obiettivi di bilancio, la ripresa o la stabilità, come valutato dalle istituzioni”. Senza stare a ricommentare tutte le riforme introdotte, diciamo che il draft finale trova un difficile compromesso tra richieste dei creditori e i bisogni sociali greci. Un compromesso in cui la contrattazione di uno spazio di autonomia coesiste con l’accettazione di lasciare alle istituzioni della Troika il ruolo di tutore nelle riforme, e la necessità di alleviare le condizioni di povertà estrema per gli strati più vulnerabili della popolazione coesiste con la promessa di liquidare i creditori, il tutto, però, a partire da condizioni che, per i prossimi quattro mesi almeno, lasciano alla Grecia la possibilità di iniziare un processo di riforme più ampio come previsto in sede elettorale. Un compromesso, insomma, in cui, di fatto, si potrebbe dire, gli ossimori e le opposizioni sono tali che si annullano a vicenda, lasciando difficile definire chi ha vinto e chi ha perso. Un compromesso, forse, volto precisamente a nascondere che nessuno poteva vincere, anzi tutti potevano perdere, e in cui l’alternativa era un salto nel buio di tale portata che il debitore acconsente a tenere in vita il creditore, e il creditore acconsente a non dissanguare, per ora, il debitore, come in una guerra in cui carnefice e vittima decidono controvoglia di tenersi temporaneamente in vita a vicenda. Un accordo, dunque, in cui il punto d’incontro sembra essersi trovato su due piani. In cambio di una sorta di “ambiguità costruttiva” da parte della Troika sull’avanzo primario, la Grecia ha accettato di rimanere, stanti le attuali condizioni, dentro il memorandum, concedendo altresì di rimanere dentro il suo linguaggio. In pochi giorni, al linguaggio conflittuale dell’immediato dopo-elezioni si sostituisce così un linguaggio neutro in cui la Grecia riconosce alla Troika il ruolo di “istituzioni”, o addirittura partners, depotenziando il clima di conflitto che aveva accolto con toni trionfalistici l’elezione di Tsipras.

È noto che la “normalizzazione” del linguaggio di Syriza ha fatto saltare sulla sedia la sinistra, in particolare quella sinistra vecchia scuola che fa parte di Syriza e che avrebbe preferito il conflitto frontale alla negoziazione – con gli scenari che poi vedremo. Per diversi giorni, è stato proprio il linguaggio ad essere oggetto di critiche, più ancora che i termini dell’accordo, cosa certamente eccentrica per degli strutturalisti tradizionali come la vecchia guardia emme-elle nel partito. Fatto sta che il punto è purtroppo rilevante. Stathis Kouvelakis per esempio l’altra sera durante un dibattito con Alex Callinicos ha messo in risalto che il governo Greco ha smesso di dire la verità. È così?

Per Morgan Stanley, la fine delle contrattazioni ha posto la Grecia al centro di un trilemma.
Morgan Stanley ha dichiarato qualche giorno fa che le probabilità che la Grecia venga costretta ad uscire dall’Euro sono invariate dopo il negoziato. Secondo la banca d’affari, infatti, la Grecia è al centro di un trilemma impossibile da risolvere: rimanere nella moneta unica, rispettare gli accordi del memorandum e rispettare gli accordi elettorali sono banalmente tre esigenze tra loro inconciliabili. Alla fine delle contrattazioni sembra dunque che il fragile equilibrio in cui si trova la Grecia all’interno di un rapporto di forze radicalmente avverso sia inversamente proporzionale all’enormità delle promesse che essa ha fatto ai creditori e agli elettori. Pur avendo Varoufakis ribadito più volte che gli obiettivi che la Grecia si è preposta per questi mesi sono realistici, a significare che gli interventi da fare nei mesi a venire non andranno a inasprire la recessione o le sofferenze della popolazione greca, pur sempre stiamo parlando di promesse al limite dell’acrobazia politica per uno stato in bancarotta tenuto al collo dai creditori, lacerato dall’austerità e incalzato dalle lotte intestine.

La domanda è, perchè mantenere questo complicato equilibrio? È proprio vero, come scrive Kouvelakis, che Syriza ha smesso di dire la verità? Ed è proprio vero che stare in equilibrio in questo momento è cosa vile?

La verità

C’è un passaggio, ne Il governo di sè e degli altri, in cui Foucault fa questa domanda. Dove andare, chiede Foucault, a domandar giustizia quando è l’iniquità del potere ciò che ci distrugge? A chi rivolgersi quando sono proprio i poteri esistenti quelli che ci minacciano? Bisogna fare come Creusa, risponde. Bisogna tornare alla parresia.

Creusa è la madre del figlio di Apollo, Ione. Apollo l’ha sedotta da giovane e poi abbandonata, decidendo altresì di non riconoscere il figlio, perché di quella violenza il dio si vergogna. Apollo continuerà nonostante questo a splendere del colore radiante dell’oro mentre lei si lacera nell’oscurità, sola e privata di Ione. Dopo anni segreti di dolori ingoiati Creusa affronta Apollo e accetta il rischio della sua vendetta perché non riesce a vivere con quella spina nel cuore. Creusa non teme l’inferno. Ci vive già. E in una lunga invettiva pubblica affronta Apollo. L’invettiva ripresa dallo Ione di Euripide è una pubblica denuncia nella quale Creusa si rivolge al dio a partire da una condizione di inferiorità. Il coraggio di Creusa denuda la viltà del “dio profetico il cui dovere è dire la verità ai mortali”. Apollo non è abbastanza coraggioso da rivelare le proprie colpe, scrive Foucault, e il coraggio di Creusa lo rivela. Nella confessione la verità funziona come una pietra di paragone. L’enunciato parresiastico ha uno specifico rapporto con la verità che rompe la relazione tra bios e logos e denuda la relazione dell’altro con il vero. Non è più la gerarchia ciò che afferma la verità, ma la relazione tra la verità e la condotta a partire da una posizione di pericolo. In questo senso Creusa denuda la viltà di Apollo, allo stesso modo in cui Tsipras immediatamente dopo le elezioni denuda la violenza di Bruxelles esponendo la Germania all’isolamento. Esattamente questo era il ruolo della Grecia nei giorni immediatamente successivi le elezioni, quello del parresiasta.

E poi?

Se guardiamo alla contrattazione Grecia-Troika con la lente della verità, la questione si fa complicata. In questa contrattazione, infatti, non c’è un carnefice. Ci sono due vittime.
La veemenza con cui Schäuble accusa la Grecia di “non ricattare la Germania” non è casuale né isolata. In tutta la contrattazione, infatti, il linguaggio del creditore non è il linguaggio del carnefice. È il linguaggio della vittima.

Alla Grecia “è stato già concesso molto”, dice Dijsselbloem. I greci “non pensano che a evadere le tasse”, chiosa la Lagarde. La Grecia “non vedrà nemmeno un euro fin quando non avrò ottemperato a tutti gli impegni presi”, accusa Schäuble.

Ne Il freddo e il crudele, Deleuze si sofferma sul linguaggio della vittima. È il sadico, infatti, che usa il linguaggio della vittima. Il sadismo nasce contro la volontà altrui, scrive Deleuze, e questa assenza di consenso richiede una attenta sterilità, una precisa indifferenza, addirittura la formalizzazione dei ruoli perché solo in quella formalizzazione impersonale vive la sospensione del reale e la riproduzione della violenza. In generale il linguaggio della vittima nasce da una sorta di compensazione per cui la manipolazione delle circostanze diventa condizione fondamentale per dare al sadico la possibilità di “dare libero sfogo alla propria potenza, la voluttà de faire le mal pour le plaisir de le faire, il piacere di usare violenza per il gusto di usarla contro qualcosa che sta “sotto di lui”, scrive Nietzsche nella Genealogia della Morale. Un contesto paradossale, in cui la sobrietà del linguaggio cela di fatto una situazione di guerra, in un’oscillazione continua tra senso e non senso che crea uno stordimento privo di risoluzione perché solo in questa irrisolutezza vive la sospensione del reale e la riproduzione della violenza.

Ecco che in conferenza stampa Varufakis si dilunga, risponde ad ogni domanda, intrattiene, nel bene e nel male. Dijsselbloem, Schäuble, Lagarde, invece, sono essenziali. Il sadismo si presenta sempre con accuratezza, scriveva Deleuze. Il suo linguaggio è sempre scarno perché la violenza è qualcosa che non parla o parla poco (Deleuze, 1996:12). In questa sua sterilità il linguaggio della vittima ha una finalità prima: produrre realtà.

Quando la Lagarde attribuisce la colpa della crisi ai greci fa esattamente questo, rivendica il ruolo della Troika quale creditore universale e al contempo quale soggetto interpretatore incaricato di produrre un mondo nel quale la Grecia è non solo il debitore ma il colpevole. Quanto stiamo facendo qui è precisamente tornare all’origine della teoria del debito e della colpa per come formulata da Nietzsche e interpretata da Deleuze come una relazione che si struttura all’interno di un rapporto dialettico nel quale la forza che domina “afferma la propria differenza e ne gioisce”, mentre descrive le forze dominate come qualche cosa di colpevole, qualche cosa di cattivo, qualche cosa “da rettificare, da imbrigliare, da limitare, addirittura da negare, da sopprimere” (Deleuze, 1978:54). In questo contesto la lenta agonia greca nel cuore dell’opulenza non è un caso. È una “sanzione naturale”. Non è un caso che molti autori abbiano ripreso Polanyi per spiegare questa crisi. Il punto è che nel regime di verità del creditore le ragioni del debito greco nulla hanno a che vedere con la tesi del disequilibrio fondamentale. La verità è che è colpa tua. Sei tu, Grecia, che ci hai messi in questo disastro. E tu, disoccupat@ grec@. Siete voi, con la vostra improduttività, con il vostro ozio e con la vostra corruzione che avete causato tutto questo. E siete voi che dovete pagare. “It’s payback time”, intima senza pudore la Lagarde ai Greci. “Don’t expect sympathy”.

Per Deleuze il linguaggio del sadico ha dunque una funzione istituente. Il sadico vive in uno “spazio puramente psichico” nel quale “distruzione e purezza si confondono e divengono una sola esigenza assoluta”, scrive Klossowski. Nel suo movimento distruttore, il sadico partecipa a quella che Sade descriveva come “natura seconda”, una realtà che lo trascende e nel nome della quale egli “produce, imitandola, atti di violenza” (Deleuze, 1996). L’austerità, in questo contesto, non è solo una politica economica. E’ un processo di purificazione in cui le “istituzioni” agiscono in nome di una necessità che le trascende. Una specie di giudizio universale nel quale la finanza quale soggetto interpretatore incaricato di valutare il merito e la colpa di ciascuno fa leva sul male per conseguire la purificazione del mondo.

In questo scenario, il fatto che la Grecia abbia accettato di rimanere, per ora, dentro il memorandum e dentro il suo linguaggio implica non solo il rispetto dei termini pattuiti ma che la Grecia acconsente per il momento attuale a rimanere in una posizione dialettica nella quale accetta altresì di essere definita dalle forze creditrici. Per capirci, il punto non è più che l’austerità è tanatopolitica (politica della morte!) e a Bruxelles vivono dei sicari. Il punto è che la Grecia è colpevole. Da questo punto di vista non sorprendono le critiche al negoziato. Per quanto Varoufakis si proponesse di riabilitare la dignità greca, per così dire, questo accordo non lo fa. Il negoziato lascia la Grecia all’interno della struttura dialettica nella quale il creditore è la voce della verità. Non deve allora sorprendere che quando il 28 febbraio Tsipras annuncia di voler introdurre misure di emergenza quali elettricità gratuita e agevolazioni alimentari per 300 mila famiglie povere la stampa definisca questo intervento come una provocazione nei confronti dell’Europa. Nell’interpretazione del creditore, l’agonia sociale non è una questione umanitaria. È la “sanzione della natura”. Come tale rispondere ai bisogni sociali significa non solo compromettere il creditore. Significa mettere a rischio il progetto di giustizia universale della Troika. È evidente che questo quadro delirante finisce da una parte sola: a proteggere la sfera riproduttiva greca come proprietà dei creditori – loro frontiera di accumulazione – trasformando il corpo della società greca in una risorsa estrattiva primaria per una sorta di welfare insanguinato per il sistema finanziario globale.

L’Angelus

E dunque perché accettare questo accordo?
È stato detto:
per ricatto;
per corruzione;
per viltà;
per strategia.

Il ricatto mi pare un dato incontrovertibile.
Ma l’interpretazione più interessante mi pare quella del silenzio.
L’altro giorno Akis Gavriilidis scriveva in un articolo molto bello che la strategia scelta da Tsipras e Varoufakis durante la trattativa con l’Eurogruppo è stata di non “attaccare frontalmente una forza di gran lunga superiore e morire eroicamente”, ma piuttosto di optare “per una de-territorializzazione”. In altre parole, la scelta sarebbe stata non tanto tra verità o resa ma per una specie di temporaneo silenzio, una “ambiguità costruttiva”.
Sarebbe inopportuno negare che ciò che Gavriilidis descrive come “ambiguità costruttiva” è descritta con termini assai meno lusinghieri dalla sinistra di Syriza. E sarebbe anche inopportuno tacere che, mentre scrivo, l’intervista di Varoufakis alla TV greca di Enikos ha ben poco di scintillante. Frasi fatte, start-up, oscurità, un richiamo al fatto che pagare le tasse sarebbe “patriottico”… per una voce capace di dire la verità, questa è indubbiamente una mimesi vistosa, per così dire.

Ma supponiamo che di ambiguità strategica si tratti.

In una recente intervista Euclid Tsakalotos, sottosegretario allo sviluppo economico molto vicino a Varoufakis e voce assai meno controversa, diceva che la reazione per la negoziazione dovrebbe essere “nè eccitazione nè delusione” in quanto “il lavoro da fare è tutto ancora avanti”. Il trilemma, qui, descrive un compromesso finalizzato a prendere tempo e spazio, come scriveva Mezzadra, in cui Syriza accetta di rimanere temporaneamente in sospeso su un trono di spine non tanto per viltà, quanto per lavorare a qualcosa di più complesso che trascende l’immediato.

La questione greca, del resto, per quanto la cosa non piaccia ai critici di Syrizia, è inscindibile dall’Europa. Ciò che non piace a Stathis Kouvelakis e agli altri della cd “Piattaforma di Sinistra”, marxisti vecchia scuola, figli della resistenza che sostengono l’urgenza di default e Grexit da “dentro e contro” Syriza, è che la questione europea non scompare nemmeno uscendosene. Costas Lapavitsas, che si vocifera destinato a prendere il posto di Varoufakis qualora la linea europeista lasciasse spazio alla Grexit, ha scritto chiaramente che “il passo vitale è realizzare che la strategia di sperare di ottenere un cambiamento radicale all’interno del quadro istituzionale della moneta unica è giunta al capolinea”. Ma se questo è vero – e secondo me lo è – il problema è che non basta che la strada della negoziazione sia finita perché la strada della Grexit sia percorribile. La prospettiva del Grexit come quella del default interno all’Euro apre, infatti, a moltissimi se.

1. Il “se” del contagio.
2. Il “se” della deriva nazionalista.
3. Questi due “se” sarebbero già sufficienti a fungere da deterrente non fosse che
4. La Grecia è in agonia.

Molti analisti economici tendono a sostenere che l’eventualità del Grexit costituirebbe un non-evento nell’economia globale. Non lo so, di certo io leggo sempre con più attenzione quelli che sostengono il contrario. Se questo fosse il quadro, il trilemma di cui parla Morgan Stanley si tradurrebbe in una situazione triplice in cui l’unico termometro d’azione, per Tsipras, sarebbe dato dall’equilibrio tra l’esasperazione interna e il ricomporsi di un minimo di complicità internazionale. La non esasperazione interna è la conditio sine qua non per alcuna trattativa con l’Europa. Il ricomporsi di un minimo di complicità estera è la conditio sine qua non della fine delle trattative. Muoversi nello iato dell’interdipendenza tra questi elementi è l’unica condizione per ciò che Clausewitz definiva come una vittoria finale. Ed è con rassegnata reticenza mi rivolgo al lessico di un teorico militare.

A conclusioni simili arriva Akis Gavriilidis quando suggerisce che la situazione in cui siamo non richiede di prepararsi a uno scontro frontale con una forza di dimensioni assai maggiori. Questa non è Sparta, dice, questa è Salamina, battaglia assai meno spettacolare in cui la flotta persiana fu tuttavia sconfitta. Da questo punto di vista, continua Gavriilidis, il tono provocatorio utilizzato da buona parte della vecchia sinistra emme-elle, “rivoluzione o morte”, “eroi o schiavi”, “rivoluzione subito poi chissà”, richiama formule che, per dirlo ancora con Akis Gavriilidis, paiono “presupporre una concezione della strategia eurocentrica e maschilista […]; una concezione organizzata attorno all’immagine della battaglia finale nella quale uno deve dimostrare coraggio e avere la meglio sull’avversario”. Una specie di replica machista, “sovranista” e dialettica, per alcuni versi anche allettante, se vogliamo, nel suo slancio reattivo, che in un certo senso richiama un quadro politico quasi sudamericano in un contesto però diverso, più complicato, di stretta interdipendenza e per più versi inedito come quello dell’Eurozona.

Da questo punto di vista non sorprende che la “linea Varoufakis” sia oggetto di critiche, politiche e personali. Varoufakis ha, infatti, dichiarato più volte che l’idea del Grexit è lo scenario peggiore. Per Varoufakis la Grecia ha scelto di abbandonare un “gioco a somma zero” a favore di una politica che si prefigga un risultato positivo per “l’europeo medio”. Non una soluzione che sia buona “per il contribuente greco e cat