Non si ferma l’attacco violento sferrato per cancellare i pochi diritti rimasti.

La storia non vi assolverà.

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Negli ultimi due-tre mesi i passaggi parlamentari sono stati particolarmente rapidi e significativi; non possono essere ignorati o sottovalutati, e sarebbe un grave errore di lettura pretendere di scomporli, nella vana ricerca di contraddizioni che vengono invece di volta in volta superate.

In Senato la minoranza del partito democratico si è costantemente allineata, votando (o bigiando la votazione, che nella sostanza è poi la stessa cosa) una vergognosa legge delega che non solo ha liberalizzato, in piena crisi, qualsiasi tipo di licenziamento economico o disciplinare, ma che prepara anche una ormai imminente riduzione degli ammortizzatori sociali in danno di chi sarà privato del salario a seguito del venir meno di un posto di lavoro. La dura legge dei numeri inchioda i parlamentari che si pretendevano dissidenti; se coerentemente (e soprattutto mantenendo un briciolo di decenza) costoro avessero votato un chiaro aperto diniego alla legge delega, questa semplicemente non sarebbe passata, sarebbe stata respinta. Il loro voto è risultato, alla prova dei fatti, decisivo e sono dunque senza ombra di dubbio i responsabili di questo disastro. La pattuglia di collaborazionisti non comprende (purtroppo) solo funzionari allenati al compromesso (Fassina li rappresenta bene), ma anche figure storiche come Mario Tronti. Non ci possono essere incertezze o ambiguità di fronte a questo dato politico; va messo in risalto e compreso, senza inutili moralismi che non ci appartengono. E il dato politico sta nella saldatura stretta, organica, di medio periodo, fra l’esecutivo delle larghe intese e i rappresentanti parlamentari fino ad ieri di orientamento riformista; l’intero partito democratico (compresa la sua sinistra, e incluso il filone di estrazione operaista) ha scelto l’alleanza con la BCE come unica via possibile, assumendosi il compito, in prima persona, di rastrellare ogni risorsa possibile, comprimendo i salari, tagliando la spesa pubblica, imponendo una sorta di operoso silenzio fondato sulla paura del domani, sul ricatto costante, sulla minaccia di togliere anche quel poco che rimane.

Il trattamento riservato alla delegazione del governo greco ci pare, sotto questo profilo, emblematico.

Si è trattato, come bene ebbe a scrivere sulle colonne del Manifesto il professor Nanni Alleva, di un vero e proprio tradimento dei chierici (definire intellettuale il bocconiano Fassina può sembrare azzardato, il cognome Dirindin fa pensare più a Disney che a Keynes nonostante una cattedra a Torino, ma complessivamente chierici in qualche modo lo sono tutti questi parlamentari, e certamente un Luigi Manconi o un Mario Tronti). Votando la fiducia al governo Renzi costoro hanno tradito non tanto il precariato italiano (che li ha sempre percepiti come estranei e spesso ostili) ma soprattutto se stessi, la propria vocazione solidale e la propria vicenda umana. Con quella scelta di voto in favore delle larghe intese hanno firmato la resa e chiuso definitivamente l’esperienza socialdemocratico riformista in Italia.

Immediatamente dopo l’approvazione della legge delega sono stati scritti i primi due decreti attuativi (ed è ormai quasi pronto il terzo), che entreranno in vigore verso la fine di febbraio, al termine di una ridicola quanto inutile valutazione all’interno delle commissioni. Un voto negativo in aula (che era possibile) avrebbe portato a nuove elezioni con il sistema proporzionale, ovvero quello che attualmente è in vigore dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha giudicato illegittima la legge utilizzata per eleggere l’attuale parlamento. Un voto con il sistema proporzionale avrebbe consentito alle liste di opposizione di raccogliere consensi propri senza l’insidia di compromessi impossibili (in particolare radunare 5 Stelle e Sinistra Radicale in un solo contenitore presenta ostacoli insormontabili) e un risultato alla greca non poteva (e per certi versi non può) certo essere escluso a priori.

Infatti il governo Renzi è corso subito ai ripari, con velocità. In parlamento si è subito tagliato il dibattito per consentire all’asse PD/Forza Italia di varare il maggioritario a liste bloccate, con il palese scopo di evitare i rischi di un voto a meccanismo proporzionale. Il regista dell’operazione, balzato all’onore delle cronache come un eroe delle larghe intese, altri non è che il senatore Stefano Esposito, da Moncalieri, il nemico giurato del movimento in Val di Susa, il SI TAV per antonomasia (quello, per la cronaca, che non ha esitato a definire il suo collega di partito Fassina un parassita). E subito l’esecutivo Renzi lo ha premiato, in sede locale, assegnando alle strutture politiche del territorio ben 250 milioni di euro aggiuntivi da spendere nell’ennesima variante al progetto di valico.

Lo spettacolo cui ormai quotidianamente assistiamo durante la discussione che prepara le cosiddette riforme costituzionali lascia esterrefatti; lanci di quinterni con emendamenti bloccati, schiaffi, insulti e pugni, sedute notturne, voltafaccia improvvisi e passaggi disinvolti da uno schieramento all’altro. Ed ancora una volta ritroviamo in prima linea i chierici del tradimento, gli esponenti della sinistra socialdemocratica ormai allo sbando che si stringono come pretoriani intorno ai ministri assicurando loro l’appoggio incondizionato e lasciando il precariato in balia degli effetti della crisi. Eppure abbiamo davanti in modo chiaro quanto sarebbe facile, in questo quadro politico così frammentato, introdurre elementi di critica decisiva alla politica europea di austerità; oltre agli eletti rimasti nel gruppo dei 5 Stelle e ai sopravvissuti di SEL si sta facendo più forte la pressione della destra leghista e popolare che intravede margini di trattativa e si affiancano a loro, per agguantare denaro, truppe di boiardi affamati e di rappresentanti della criminalità organizzata.

Invece di puntare tutto sull’attacco alla stabilità governativa per poter sperare in un rimescolamento delle carte (il precariato certamente nulla ha da perdere e tutto da guadagnare ove si giungesse alla caduta del governo), la sinistra PD si è congiunta a quella radicale illudendosi che l’elezione di un vecchio democristiano di Sicilia potesse aiutare il loro rientro nelle stanze del potere. Hanno subito la legge delega che distrugge i residui diritti dei lavoratori stabili e di quelli precari, hanno ingoiato una legge elettorale che si avvia al traguardo e garantisce alle larghe intese di scongiurare qualsiasi pericolo; e subito hanno dimenticato la sostanza di una sconfitta storica salendo sul carro presidenziale di un vecchio politicante rotto ad ogni compromesso, in piena sintonia con la BCE e con la politica europea di austerità. Va detto senza peli sulla lingua alla sinistra del PD, Tronti e Manconi compresi: per citare la celebre difesa di Fidel Castro (al processo per l’assalto alla Moncada) possiamo garantirvi che la storia non vi assolverà!

Questi ultimi due-tre mesi segnano davvero la conclusione di una fase, forse di un’epoca. Non è più possibile pensare a un rapporto dei movimenti, magari conflittuale o dialettico, con le due anime tradizionali della politica italiana, quella socialdemocratica e quella cattolica popolare. Hanno chiuso, si sono trasformati nel nulla. La loro collocazione ormai stabilmente minoritaria nell’ambito delle rispettive aree di provenienza (ormai trasformate, ideologicamente finanziarizzate) non è in alcun modo reversibile; è un elemento ormai oggettivo, definitivo. Non esistono spazi di mediazione; il punto di vista precario esige dunque l’elaborazione di un pensiero e di un progetto politico che puntino esplicitamente a cancellare il partito democratico dalla mappa della politica (riducendolo alle dimensioni del partito socialista greco). Fino a quando non sarà accaduto continueremo ad essere prigionieri di una ragnatela da cui appare impossibile uscire. La profondità della crisi politica si fa sempre più visibile; per esempio lo si è potuto constatare in occasione dello scandalo delle primarie in Liguria e ci si prepara a soluzioni attualmente poco prevedibili in Puglia e Campania. Di contro appaiono ancora troppo prudenti le risposte alla crisi del sindacalismo di base e della Fiom nazionale; non è possibile infatti prescindere ormai dal necessario presupposto di un punto di vista e di un progetto che si prefigga, esplicitamente, la caduta, a qualunque costo, del governo in carica e l’avvio di un percorso che conduca alla ridefinizione della mappa organizzativa (non solo e non tanto nel voto ma anche e soprattutto) dei movimenti sociali, ponendo al centro di tutto, contro l’austerità e contro il PD, l’idea centrale di cooperazione e solidarietà. Dobbiamo ricostruire, nel vivo dei territori europei, i nuclei di mutuo soccorso trasformando il generico concetto di comune in una rete che sia visibile, reale. Questo vale certamente per la Spagna, ma anche e principalmente per Francia e Germania. Forse è ormai il tempo di riappropriarci interamente, a partire dai soggetti, della politica. Ha ragione Bifo circa la necessità di una nostra internazionale precaria se davvero non intendiamo meritarci quel che a palazzo ci vanno apparecchiando.

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