Lies and lethargies police the world

                                                                              In its periods of peace. What pain taught

                                                                               Is soon forgotten; we celebrate

                                                                             What ought to happen as if it where done.

H. Auden, The Age of Anxiety

                                                                                          

 (Menzogna e letargo pattugliano il mondo

                                                                                           nei periodi di pace. Noi scordiamo presto

                                                                                           ciò che il dolore ci insegna; celebriamo 

                                                                                          quel che dovrebbe accadere

                                                                                           come se fosse accaduto)                                                                                    

                                                                                                        

Massimiliano Valerii (Aquila, 1972), direttore generale del Censis, ha pubblicato di recente, presso Ponte alle Grazie, un saggio davvero interessante, La notte di un’epoca. L’autore, funzionario di lungo corso in forza alla Fondazione già dal 2001, appartiene alla ormai esigua schiera di grand commis de l’Etat, è un tipico esemplare di vecchio conio liberale. Un conservatore nel suo intimo, ma anche un lettore attento degli avvenimenti contemporanei, capace di cogliere nelle cose, fiutando, l’odore della rabbia popolare e della potenziale rivolta sociale. E non ha dubbi quest’uomo in ordine al dato oggettivo della storica rottura di un patto sociale  che aveva guidato lo sviluppo capitalistico in Europa per oltre mezzo secolo, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il frutto di questa rottura è la lunga fase di transizione dentro la quale stiamo vivendo e nell’ambito della quale tutti noi siamo costretti a muoverci, ad operare. Con il muro di Berlino sono caduti numerosi miti su cui poggiava la struttura complessiva della crescita, e dell’estrazione di valore, nel secolo scorso. La crisi ha travolto la speranza collettiva in un futuro migliore per la generazione immediatamente successiva; è subentrata invece l’incertezza. Il nuovo assetto del capitalismo prevede la rimozione, sia pure per gradi, di quello precedente; dunque la sussunzione di ogni soggetto in un diverso ordinamento sociale e giuridico, piegando le resistenze. Nessuno può sottrarsi ormai alla condizione precaria, elemento indispensabile di governo che consente di acquisire l’esistenza stessa dei soggetti nel sistema che caratterizza, qui e oggi, il meccanismo del valore. Ilposto fisso appare come una sorta di fiaba, di leggenda legata ad una comunità antica e scomparsa. L’imprenditore non progetta secondo lo schema del lungo periodo, non intende creare una struttura stabile da lasciare agli eredi perché proseguano nel condurre quella specifica attività. Mira invece a realizzare immediatamente il profitto, senza legami reali con il territorio, tanto meno con le persone che lo abitano. E ovviamente questo viene immediatamente percepito dai dipendenti, dai subordinati, dagli esecutori, consapevoli, in pieno, di non poter contare su punti fermi. Ci troviamo di fronte ad una sorta di antropologia dell’insicurezza; e le molte riflessioni di questo attento funzionario ci consentono di meglio valutare il recente rapporto annuale presentato e pubblicato il 6 dicembre con riferimento alla situazione italiana del 2019, proprio per sua iniziativa, sulla base della sua attività di ricerca e di elaborazione dei numeri a disposizione.

Il rapporto del Censis per l’anno 2019 è stato reso noto il 6 dicembre; accanto alle cifre connesse ai rilievi statistici compaiono anche considerazioni suggestive che hanno provocato una discussione animata in ambito politico, economico, universitario, sindacale, sociale. Il quadro offerto appare fortemente contraddittorio, ma questo, in epoca di transizione, non deve stupire, costituisce anzi uno stimolo a non dare nulla per scontato o inevitabile, a cercar di comprendere l’essenza delle questioni. Prevale il senso di incertezza (69,9%) su ottimismo (13,8%) e pessimismo (17,2%); ma al tempo stesso tuttavia lo sciame precario resiste, attua vere e proprie strategie individuali, per difendersi con caparbietà nell’arco temporale di un futuro immediato. I singoli soggetti operano separatamente, ma il loro comportamento assume una dimensione collettiva, diviene quel che il Censis definisce furore di vivere. Un furore, rileva il rapporto, capace di vincere su tutto. Sembra quasi una parola d’ordine degli anarchici americani!

Incertezza e istinto di sopravvivenza convivono, generando uno stato di insopportabile ansietà che si respira nell’intero tessuto di rapporti sociali. Cresce l’insofferenza e aumenta il disprezzo verso il ceto politico della rappresentanza parlamentare, sia in Italia sia negli altri paesi fondatori dell’Unione Europea; e al tempo stesso si è radicata la convinzione che le decisioni vengono comunque prese in ambiti ristretti impermeabili ad ogni verifica. Nessuno conosce la sede o il recapito dei misteriosi mercati che operano senza preoccuparsi di avere un mandato e neppure un consenso. Torna alla mente una considerazione di Guy Debord (Commentari, 1988, XXX, traduzione di Fabio Vasari): La società moderna che fino al 1968 passava da un successo all’altro e si era convinta di essere amata ha dovuto rinunziare da allora a questi sogni; preferisce essere temuta. Sa bene che la sua aria innocente non tornerà più. In questo clima il sentimento popolare, piuttosto di dover subire le angherie di frotte fameliche riunite in branchi istituzionali eletti, preferisce avere a che fare con un solo uomo forteal comando, rendendo almeno trasparente in modo rapido il destino che ci attende. I numeri pubblicati dal Censis certificano la crisi profonda del patto sociale su cui si fondavano insieme il consenso e il profitto, sono il ritratto della nuova costituzione materiale introdotta con la forza dall’orda barbara del capitalismo finanziarizzato, del mutato ordine di governo in sostituzione di quello precedente, ormai inadatto alla società precaria. Tre italiani su dieci hanno gettato la tessera elettorale; nessun partito resiste stabilmente sopra la soglia del 30% e dunque l’astensione costituisce una forma anomala e variegata di maggioranza relativa. E il 90% della popolazione si dichiara stufa di esponenti politici impegnati in risse televisive, puro spettacolo senza conseguenze concrete visibili. La metà degli italiani preferisce un uomo forte; ma non è desiderio di fascismo, è piuttosto un inquietante segnale di rassegnazione, di scelta individuale come unica via possibile di sopravvivenza qui e oggi. Prevale su tutto la paura, il senso di impotenza di fronte al dipanarsi degli eventi. La percezione raccolta nella ricerca si traduce nella convinzione (70%) di un sensibile incremento del razzismo, dell’intolleranza, della prevaricazione. Ne esce acciaccata la tradizionale esperienza di solidarietà coltivata, con diversa concreta applicazione, dal movimento cattolico, dal movimento socialista e comunista, perfino dal liberalismo democratico e repubblicano. Il sistematico fallimento delle banche popolari (ultima quella di Bari), nate proprio all’insegna di un radicato mutualismo, ci appare come il simbolo di un cambio di passo; Fedele Lampertico (Vicenza), Luigi Luzzatti (Milano) e Tiziano Zalli (Lodi) intendevano legare la raccolta del credito alle popolazioni residenti nel territorio, la loro idea dibanca non poteva essere separata da una concezione del mondo fondata sulla famiglia, sulla stabilità, sul compromesso sociale. Il rapporto Censis del 2019 mostra invece scenari di conflitto in cui prevale uno sfrenato individualismo, in cui domina la consapevolezza di non poter contare più sul rispetto dei patti, delle regole, della solidarietà sociale. Il telefono portatile, smartphone, è il simbolo di questo modo di vivere nel tempo della transizione; la gran parte delle relazioni viene mediata da uno strumento organizzato e controllato senza consentire interventi di sorta. L’insieme dei comportamenti individuali (nel lavoro, negli affetti, nei consumi) viene registrato e codificato, trasformato in informazioni, comunicazioni, dominio, profitto. Le modalità di utilizzo sono imposte e non sono eludibili, al tempo stesso non è neppure concepibile, ormai, un’esistenza quotidiana senza smartphone. L’instabilità, l’insicurezza, la solitudine, il timore costringono a cercare aiuto, se non quiete, appoggiandosi costantemente al mezzo cardinale di contatto con il mondo. Un italiano su quattro non esce più di casa senza portare con sé il caricabatteria; il 50,9% lo consulta come prima azione della giornata e come ultima nel momento in cui si appresta a dormire. L’uomo forte, interlocutore unico per conoscere le decisioni del potere, sembra una soluzione ragionevole, la meno svantaggiosa per chi sa di doversi comunque piegare al sopruso senza possibilità di reagire.

Non esiste, a ben vedere, contraddizione fra la disponibilità ad accettare la soluzione di un uomo forte e la pervicace risoluzione collettiva di accumulazione della liquidità, per contanti o per deposito bancario libero da vincoli in ipotesi di ritiro. Il rapporto rileva come, negli ultimi dieci anni e nonostante il permanere della crisi, l’incremento di contanti e depositi ammonta al 33,6%, un dato di assoluto rilievo che va necessariamente collegato ad una strategia difensiva scelta, quasi d’istinto, dai soggetti che compongono lo sciame precario. Il 69,9% di incerti, rifiutando la semplicistica dicotomia ottimismo/pessimismo, mostra disincantata sfiducia verso le strutture neocapitalistiche finanziarizzate, siano esse pubbliche o private; le perdite accumulate dai risparmiatori durante la lunga crisi dell’ultimo decennio hanno lasciato il segno, generando sentimenti di sospetto e diffidenza. Il deposito bancario è certamente tracciato, non del tutto privo di rischio, esposto a manovre fiscali improvvise per alleggerire il debito di stato. Durante la notte fra il 9 e il 10 luglio 1992 il governo del socialista Amato (oggi in carica quale giudice costituzionale) effettuò un prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti, senza preavviso e con l’intento di controbilanciare la straordinaria operazione speculativa di George Soros ai danni della lira; da allora lo spettro di una nuova patrimoniale agita qualche sonno nelle vecchie abitazioni borghesi. Tuttavia appare oggi difficile, nella società della comunicazione, determinante anche in sede politica, il ripetersi di un simile rastrellamento della moneta; le dimensioni di una reazione popolare contro una simile manovra neppure sono davvero prevedibili e comunque nessuna istituzione pare disposta a correre un rischio del genere. L’accumulazione di liquido si pone come una difesa individuale poco pericolosa, una maniera di utilizzare il risparmio per sopravvivere alla fase, magari utilizzandola per affiancare alle entrate ufficiali una quota di sommerso, di nero. D’altro canto, a prescindere dal rapporto Censis, la quota complessiva di fatturato moonlighting ammonta pacificamente a circa il 26/28% dell’importo nazionale complessivo. Ovviamente l’economia criminale vera e propria (droga, prostituzione, scommesse clandestine, estorsione) non può per sua natura prescindere dall’uso del contante, con una grande disponibilità ad acquisire qualsiasi valuta purché a prezzi reali di mercato. Ma per le stesse ragioni dubitiamo che i pur abilissimi ricercatori del Censis siano in grado di elaborare simili dati, se non in via meramente presuntiva.

I dati relativi al sensibile incremento di accumulazione del liquido, tramite contante o deposito svincolato di pronto uso, richiedono maggiore attenzione interpretativa, oltre le suggestioni dell’apparenza. Sostenere che un tetto al contante possa condurre all’equità fiscale, stanando gli evasori, mi pare costituisca una soluzione non solo superficiale e semplicistica, ma anche di impossibile esecuzione. I ceti popolari, la fascia debole resa ancora più fragile dal progredire della forbice che separa ricchi e poveri, si difendono come possono. La questione fiscale è tornata, come già era accaduto sul finire del XIX secolo, al centro delle esistenze individuali. Non è solo il prelievo delle imposte sul reddito (anche, ma non solo); è piuttosto l’insieme delle imposte, dirette e indirette, che tagliano le risorse e provocano disagio, ansia. I costi delle cure sanitarie, della benzina, delle comunicazioni, delle locazioni non diminuiscono, sono un pedaggio cui è impossibile sfuggire, un salasso quotidiano. Senza un programma rivendicativo e sociale che riporti al centro del conflitto la resistenza al prelievo il rassegnato ricorso all’uomo forte appare davvero inevitabile, percepito come male minore.

Il problema reale si presenta dunque assai chiaro, ove finalmente l’elaborazione teorica della sinistra rivoluzionaria italiana decida di misurarsi con l’attuale composizione del lavoro e con la sua condizione precaria. Il problema sta infatti in quella che il rapporto Censis definisce resilienza popolare e che viene espressamente collegata dai ricercatori al fenomeno di accumulazione del liquido. Qui si torna al lavoro.

L’occupazione, avverte il rapporto del Censis, è aumentata di ben 321.000 unità nell’ultimo decennio, con una tendenza confermata anche nel 2019. Ma si è modificata al tempo stesso la composizione interna degli occupati: calano i contratti a tempo pieno (meno 867.000), aumentano quelli a tempo parziale (più 1.200.000). Soprattutto deve essere rilevato un sostanziale calo delle retribuzioni, caratteristica questa tutta italiana: fra il 2001 e il 2017 l’incremento nel nostro paese è stato pari a 1,4% contro il 13,7% della Germania e il 20,4% della Francia.

A commento del rapporto 2019 riteniamo utili alcune considerazioni  e osservazioni legate al contenzioso sindacale e alle controversie giuslavoritische. Il contratto di lavoro formalmente a tempo parziale (specie nei settori dell’edilizia e della logistica) viene spesso incrementato di fatto – e in nero – mediante prestazioni supplementari che consentono la sopravvivenza grazie al connesso incremento del bilancio familiare. La liquidità rappresenta allora il necessario mezzo di regolamento della prestazione resa moonlighting per poi tornare in circolazione mediante forme di acquisto a loro volta ibride (compro merce parte in bianco e parte in nero in cambio di uno sconto). Accanto alle prestazioni supplementari o comunque almeno in parte irregolari si allarga il fenomeno della migrazione costante dal tradizionale lavoro subordinato a quello registrato come autonomo. La normativa varata dal governo gialloverde nel 2018 ha certamente favorito il passaggio verso strutture di microimpresa, specie nei settori del trasporto, dei servizi, della sanità, del piccolo commercio o dell’artigianato. Il numero di imprese italiane è diminuito (16,3%) mentre quello di imprese gestite da immigrati è aumentato (48,4%) più che compensando il calo. Nonostante la profonda crisi demografica emerge una continua modifica del mosaico che caratterizza l’insieme complessivo dei residenti, il tessuto sociale varia senza sosta. La liquidità viene utilizzata dagli incerti anche per finanziare queste piccole forme di start up che nascono o muoiono nel gran mare della condizione precaria; o anche per affiancare i proventi ottenuti ricorrendo ai sussidi pubblici (indennità di disoccupazione, reddito di cittadinanza ecc. ecc.). Segnala il rapporto del Censis un dato che si pone in controtendenza rispetto al quadro generale di recessione, ovvero un notevole incremento delle strutture di intelligenza artificiale e della robotica; nel 2019 le installazioni italiane sono state quasi il doppio di quelle francesi e spagnole, pur se ancora sensibilmente inferiori a quelle tedesche. La disponibilità, a pronta cassa, di liquido serve anche a tenere il passo in queste nuove attività. Il furore di vivere bilancia dunque lo stato di ansia e per il momento ci convive, quasi fosse una sorta di stratagemma per dare un senso all’esistenza aggredita dalle circostanze. Nel frattempo le generazioni più giovani sembrano attirate dal vivo desiderio di contrastare le distruzioni dell’ambiente, di modificare radicalmente il territorio, l’alimentazione, lo stile di vita. Anche questo è, in fondo, furore di vivere.

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