Dalle pagine del quotidiano Il Manifesto, ecco il secondo appuntamento sul lavoro gratuito a cura di Cristina Morini L’attenzione è rivolta alle case editrici e ai media. Tra stagisti, precarietà diffusa, mobbing e ricatti la ricerca di uno status intellettuale che prevede la rinuncia di un salario e della propria libertà. Pubblichiamo l’articolo all’indomani dell’interessante convegno che si è tenuto ieri, 24 ottobre 2014, proprio sul lavoro gratuito, organizzato dalla Rivista di Sociologia del Lavoro: “Confini e misure del lavoro emergente”.

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Tra cambiamenti epocali della produzione, nuove tecnologie e sistemi digitali, declino della carta stampata e un’espansione del ruolo di internet che nessuno sembra capire né governare, la precarietà è diventata progressivamente la forma “normale” dell’organizzazione del lavoro contemporaneo nelle redazioni di libri e giornali. La crisi economica, innegabile nei numeri che piegano verso il basso le diffusioni di quotidiani e periodici e gli indici di vendita dei libri nonché i ricavi pubblicitari, è stata subito trasformata in una costernata giaculatoria da tutti i grandi e piccoli editori per procedere alle grandi pulizie della fine del primo decennio degli anni 00. Evocando continuamente in contumacia la necessità di procedere a un “serio sviluppo web” e non mai ben definiti “nuovi progetti”, si è intanto fatto ricorso ai tagli, con mille posti di lavoro persi tra i giornalisti solo nel 2013 e 3mila in cinque anniche, per una categoria molto piccola (20mila circa i professionisti attivi), significa una riduzione del 15 per cento in quattro anni (Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti italiani). La Federazione nazionale della stampa ha siglato tutti gli stati di crisi (60 solo in Lombardia nel 2012), con variazioni adatte a ogni tipo di perversione datoriale: prepensionamenti, cassa integrazione, contratti di solidarietà, cessioni di ramo d’azienda, incentivi all’esodo. Nei grandi gruppi, in significativa controtendenza con le battaglie del passato, gli accordi contengono anche clausole di “restituzione”, vale a dire di rinuncia a tutto o parte degli integrativi economici (accordi di secondo livello), dietro la promessa del salvataggio dei posti di lavoro. In più occasioni si è proceduto alla riduzione progressiva dei compensi dei collaboratori. La crisi viene pagata tutta, insomma, e autorizzaa teorizzare che la “motivazione” procurata dal denaro “è discutibile”. Anche questo fa parte della graduale costruzione dell’ideologia del lavoro gratuito.
Nel contempo, si è più che dimezzato (da 173 a 75 nel 2014, fonte Fieg) il numero dei praticanti nei quotidiani, cioè dei giovani che dovrebbero garantire il ricambio generazionale nelle redazioni. Mentre i più anziani venivano prepensionati o espulsi, i venti-trentenni si inserivano con contratti sempre più precari, sottopagati o non pagati affatto. Silenziosamente, dimenticati da tutti, i precari sono esplosi: dal 2000 al 2009 i giornalisti freelance aumentano del 208 per cento (dati Inpgi e Ordine nazionale dei giornalisti) superando i giornalisti assunti ex art.1 (circa 23.000 contro 20.000 nel 2009, vedi Pino Rea, Giornalismo: il lato emerso della professione, Una ricerca sulle condizioni dei giornalisti, Simplicissimus book farm, 2010). Più della metà di loro (55,2 per cento) denuncia un reddito inferiore a 5mila euro lordi.
Non va meglio tra i redattori editoriali precari che rappresentano addirittura il 50 per cento circa dei lavoratori delle redazioni libri. Tra processi di concentrazione e di esternalizzazione che hanno contraddistinto l’editoria dell’ultimo ventennio, un terzo delle figure professionali “esterne” che lavorano stabilmente come “interne” nelle aziende, ma senza diritti, guadagna meno di 900 euro lordi mensili (Rerepre, 2009).
Contemporaneamente,nel 2012 gli stage, previsti obbligatoriamente dalle lauree triennali per tutte le facoltà, sono stati 425mila (Isfol e Repubblica degli stagisti a partire da rilevazioni Unioncamere). Quasi un tirocinante su cinque ha al suo attivo tre o più stage (18,9%). L’analisi di una breve serie storica consente di notare una crescita costante dell’utilizzo di questo strumento, che di anno in anno raddoppia il proprio trend di crescita da un lato, dimezzando dall’altro la sua funzione preliminare all’ingresso nel mercato del lavoro.
Possiamo notare, in prima istanza, che la generalizzazione della precarietà, in un settore come quello editoriale, è progettata esplicitamente per governare, ricattare, comandare, mettere a tacere ogni eterodossia e contemporaneamente pagare di meno, demansionare, ab-usare il lavoratore, raffigurando con ciò, perfettamente, un archetipo delle forme di dominio applicate dal biopotere nel presente. Da sempre spossessato da ogni tipo di protezione, tutela e diritto, il lavoro precario si presta a subire adesso un secondo tipo di passaggio: quello verso il lavoro volontario. La precarizzazione del settore è stata cioè propedeutica alla progressiva devalorizzazione del lavoro che a sua volta prelude il modello del lavoro gratuito, nuova ideazione del presente.

Da lavoro precario a lavoro gratuito

I compensi dei freelance, senza alcun tipo di argine in termini di salario minimo orario, obblighi per i datori di lavoro, garanzie di ammortizzatori sociali, tracollano verso l’abisso dell’assenza di compenso per la prestazione, con pagamenti di due euro per una notizia, di nove per un servizio (Poligrafici editoriale, Editoriale l’Espresso). Sull’online valgono due o quattro euro. Si può arrivare in taluni gruppi editoriali a 18-20 euro lordi (Vogue, Il Messaggero, la Gazzetta dello Sport) a seconda della lunghezza del pezzo. Per miserie così, i pagamenti slittano anche oltre i 120 giorni dopo la pubblicazione. Nel 2013 Mondadori ha richiesto ai propri collaboratori di riconsegnare il 5 per cento dei compensi che avevano ricevuto nell’arco dell’anno. “Richiesta irrituale” e al contempo minacciosa: “è in corso una rigorosa selezione dei partner”.
La responsabilità collettiva in tutto questo processo è enorme. Oltre alle imprese sono implicatigli attori cosiddetti istituzionali, governi e sindacati, che hanno lasciato che ciò si sviluppasse arrivando fino alla suppurazione della legge Fornero e del Jobs Act. Non vanno dimenticati i direttori di testata, i direttori editoriali, di collana, gli editor né i colleghi a tempo indeterminato. Convinti di far parte di una moderna aristocrazia del lavoro, sono i primi – bastardi e innocenti a loro volta – a sviluppare tecniche di mobbing e di sfruttamento dei colleghi precari, invisibilizzandoli, cercando di scaricare su di loro i costi delle ristrutturazioni d’azienda o, più prosaicamente, il lavoro quotidiano di fine giornata.

Responsabilità precaria

Fragili, nella frammentazione e nella individualizzazione dei rapporti, unici responsabili di se stessi poiché la collettività voga in senso inverso, i precari hanno evidentemente adeguato il proprio modo di agire e di sentire agli imperativi del presente. Potenza della capacità di adattamento umana, addestrata darwinianamente dalla tv, dai master universitari, dal marketing, attraverso le parole creatività, merito e autorealizzazione.
Il giovane giornalista si ripaga con il fatto che il giorno dopo leggerà il proprio nome in cima a un pezzo, anche se è solo un semplice stagista, con un piccolo rimborso spese quando va bene. Viene convinto che occorrono doti che, forse, hanno una natura innata. Rivendica la propria funzione, assorbe goccia a goccia l’etica professionalista. Vocazione, destino e capacità che non sono da tutti debbono coniugarsi con la forza di volontà, determinante per arrivare al successo. Per cui, è necessario accettare gli stage e non stancarsi di lavorare, la stanchezza delle ore passate in redazione non si deve far sentire.
Non serve alterigia nell’analizzare questi processi che oggi toccano, con gradazioni diverse, ciascuno e ciascuna di noi. L’arsenale discorsivo del potere spinge sulla costruzione di una figura agile e dinamica che mette a valore il proprio capitale umano, propagandando un modello di disoccupazione produttiva utile alla diffusione di forme di lavoro non salariate. Un modello di lavoro iperflessibile, nel quale l’individuo si assume interamente il rischio d’impresa, essendo l’unico responsabile della mancata ripartizione della ricchezza sociale. La dimensione biopolitica dell’ideologia dell’autoimprenditorialità che mira a proporsi come aspirazione di vita e forma della soggettività, ammette anche il lavoro volontario e gratuito come parte integrante del progetto di emancipazione del soggetto che avrà, dentro questa dimensione, un’ulteriore possibilità di verificare e di mettere alla prova i propri talenti e la propria passione.
Non vi sono reali spazi di autonomia e creatività rispetto al processo produttivo ma soprattutto non è data la possibilità di decidere gli obiettivi da raggiungere o di contrattare le condizioni lavorative. E tuttavia è, apparentemente, il soggetto che decide di darsi, “in modo personale, spontaneo e gratuito”. La generalizzazione della precarietàsortisce l’effetto di scaricare sul lavoratore tutta la gestione del rischio, compresa la responsabilità dell’eventuale fallimento nel raggiungimento degli obiettivi, mentre la crisi genera la normalizzazione di aspettative costantemente decrescenti e finisce per far accettare le offerte al ribasso.

Che fare?

Il soggetto, immerso nella condizione precaria, ulteriormente declassata dalla crisi, si consegna al lavoro che oggi può assumere lo “statuto” di lavoro gratuito. Le condizioni in cui il lavoro precario viene erogato nelle case editrici sono tali da rendere difficoltosa la sottrazione e tangibile la mancanza di alternative concrete. La maggioranza dei freelance ha ben chiara l’ingiustizia cui è costretto a sottoporsi: vorrebbe reddito, in primo luogo, e diritti. Nelle case editrici, più che per sensibilità e fiducia, ormai, nell’eterna promessa di una knowledge society liberatoria sospinta dall’economia della promessa, si accetta di lavorare anche in regime di tendenziale gratuità per non rimanere tagliati fuori, per non strappare le costrizioni di vincoli relazionali dentro rapporti gerarchici fortemente asimmetrici, data la difficoltà a muoversi in un settore paralizzato.
La depoliticizzazione crescente di una frazione consistente del lavoro contemporaneo va connessa poi alla rilevanza assunta dalla nozione “libertà di scelta” neoliberale, una libertà negativa che agisce in senso diametralmente opposto alla presa di coscienza politica e alla tensione verso una reale autonomia da parte delle soggettività. Va decostruita, connettendola alla falsità della promessa: sei libero solo di scegliere il fatto che in realtà sei completamente schiavo.
Da qui anche la necessità di riprendere una critica serrata al lavorismo che ha impregnato la nostra epoca. Va riconfigurato il nostro rapporto con il lavoro, rigettando l’idea del lavoro come un dono, che perde di vista il concetto dello scambio, del rapporto gerarchico, dello sfruttamento, del profitto che ci sta dietro. Il “lavoro di cittadinanza” ha già fatto troppi danni, finendo per assume un valore in sé, pretendendo perciò di svincolarsi, progressivamente, dalla retribuzione, sintomo ed effetto insieme della crisi della misura del valore interna al lavoro contemporaneo. Di fatto una trappola, una trappola della precarietà e dell’autosfruttamento fine a se stesso.
Ovviamente c’è il tema del reddito che non viene mai seriamente preso in considerazione per motivi politici e meno che mai da parte sindacale. Forte dello strumento del reddito la “nuova classe pericolosa”, per usare la definizione di Guy Standing, uscirebbe dall’oscurità del controllo totale nella quale è stata relegata. Ciò che oggi è ansia e depressione, mugugno e avvilimento, potrebbe trasformarsi in un detonatore di nuovi salubri conflitti e soprattutto in un ottimo strumento di tutela, capace di respingerele proposte indecenti che si vanno moltiplicando in questa fase in cui il lavoro è perdente. Si bloccherebbe così il lavoro indecente in un paese privo di una seria politica economica e con un capitalismo cognitivo incapace e a-morale che ha costruito le proprie labili strutture esclusivamente sull’economia della promessa e sulle attitudini degli uomini e delle donne di buona volontà, come se il lavoro fosse senza fini di lucro.
Bisogna, perciò, prima di tutto disimparare. Disimparare linguaggi e obiettivi. Portare altrove la passione e il desiderio e sviluppare forme di “resilienza” sui luoghi di lavoro in modo intelligente piuttosto che piegarsi all’illusione che la “schiavitù” convenga. Il lavoro, bene o male, non è più in grado di renderci liberi e libere, al contrario. Non consente emancipazioni, né godimenti e adesso, in modo incredibilmente ossimorico, neppure retribuzione. Il lavoro cognitivo, oggi degradato attraverso proposte di lavoro non remunerate e da procedure sempre più prive di senso, non deve, innanzitutto, rimettere in discussione la scissione successo-fallimento, reimpostando la ricerca della propria felicità all’interno di un nuovo universo, fatto non di promesse di carriera (quali? dove?) ma di relazioni incarnate e micro-politiche resistenziali?

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