In tempo di dibattito crescente sui processi di accumulazione del capitale, tra estrattivismo, imprinting, nuove forme di sfruttamento, presentiamo la recensione di Elia Zaru (già autore di “La postmodernità di ‘Empire'”, Mimesis, 2019) al testo di Andrea Fumagalli, Alfonso Giuliani, Stefano Lucarelli, Carlo Vercellone: “Cognitive Capitalism, Welfare and Labour. The Commonfare Hypothesis” (Routledge 2019). Al centro dell’analisi il tema del valore, nelle sue diverse declinazioni, dal valore – rete, al valore – natura, al valore – corpo. Non a caso i temi che Effimera sta analizzando nel ciclo di seminari su lavoro, corpo e natura.

Alla recensione di Zaru segue un commento di Stefano Lucarelli, uno degli autori del volume.

 

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Tra il 2011 e il 2012 un intenso ciclo di mobilitazioni portò centinaia di migliaia di persone nelle strade inglesi,prima contro i tagli del governo alla spesa pubblica e l’aumento delle tasse per l’istruzione, poi con la piattaforma Occupy. Una foto scattata in occasione di queste giornate presso l’acampada di Finsbury Square a Londra ritrae uno striscione che rappresenta una fila di persone in coda presso un ufficio di collocamento e la scritta, a caratteri cubitali, «capitalism isn’t working». L’idea che si stia verificando un qualche tipo di «malfunzionamento» del capitalismo èdiffusa da tempo, e si è acuita proprio in seguito alla crisi del 2007-2009. Di per sé questa considerazione non appare troppo problematica. Eppure,osservarla a partire dal suo rovescio permette di evidenziarne la natura critica: affermare che«il capitalismo non sta funzionando»nel mezzo di una crisisignifica implicare la possibilità che esso funzioni «bene»in altro modo, senza la crisi. In altre parole, ciò vuol dire paventare la possibilità di un funzionamento «corretto» del capitalismo che eviti la polarizzazione sociale tra chi ha e chi non ha. Del resto, anche in certi ambienti di stretta osservanza liberale c’è chi ritiene che la crisi del capitalismo consista in un’assenza dello stesso.

Queste considerazioni ignorano la natura del capitalismo, esplicitamente dichiarata invece da chi, come Alan Greenspan, per quasi trent’anni (1987-2006) è stato il massimo dirigente di una delle istituzioni capitalistiche per eccellenza, la Federal Reserve. Parlando con la BBC nel settembre 2009, Greenspan ha affermato: «la crisi si verificherà ancora, ma sarà di natura diversa. Le crisi sono tutte differenti tra loro, ma condividono un movente fondamentale: l’inesauribile capacità degli esseri umani di pensare che i lunghi periodi di prosperità che stanno vivendo continueranno in futuro». Ciò che Greenspan intende dal canto suo (e su cui molto si potrebbe discutere: la crisi come risultato naturale del comportamento umano)conferma l’idea della crisi come costante del capitalismo.

In altri termini: se proprio di «malfunzionamento del capitalismo» si vuole parlare, esso è da ricercarsi nel modo in cui il sistema ha funzionato durante i «trenta gloriosi», piuttosto che nella crisi recente. Se questo è vero, stupisce l’attaccamento che alcuni hanno dimostrato per la categoria di «fordismo», a volte considerata ancora pienamente adatta a rappresentare il regime di accumulazione contemporaneo. Poiché si rifiutano di riconoscere realmente la rottura – la crisi – di quel paradigma, i fautori del continuismo spinto si mostrano incapaci di cogliere la dinamica del rapporto tra crisi e ristrutturazione del capitale nel suo complesso. Motivo per cui essi spesso guardano con sospetto all’utilizzo di categorie come quella di «postfordismo». Eppure, oltre la teoria, un minimo di analisi storica dovrebbe aiutare a comprendere le profonde modificazioni che hanno investito il mondo capitalista nelle ultime quattro decadi, e dunque a rigettare le posizioni esclusivamente continuiste.

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Precisamente all’intersezione tra queste due dimensioni – storica ed economica – si colloca un importante volume scritto da Andrea Fumagalli, Alfonso Giuliani, Stefano Lucarelli e Carlo Vercellone: Cognitive Capitalism, Welfare and Labour. The Commonfare Hypothesis (Routledge 2019). In uno dei saggi presenti all’interno (A financialized monetary economy of production), Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli chiariscono che «interpretare la crisi del 2007 come risultato di un malfunzionamento dei mercati finanziari è sbagliato», poiché il problema non è stato quello di non aver seguito delle regole, ma piuttosto il contrario (p. 112). Come chiariscono gli autori nella loro introduzione comune, è proprio la crisi del 2007-2009 – insieme a quella della «net-economy» nel 2000 – a determinare l’obsolescenza delle letture continuiste, determinando un cambio nella natura dell’accumulazione e del processo di valorizzazione del capitale (p. 1).

I termini di questi mutamenti sono concentrati negli elementi che formano il titolo del volume, a partire dal primo: capitalismo cognitivo. Uno dei meriti di questo libro consiste nel fare chiarezza, in primis sui termini e il loro significato. In questo senso, il testo di Carlo Vercellone e Alfonso Giuliani (An introduction to cognitive capitalism. A Marxist approach) – collocato, non a caso, all’inizio del volume – mostra in modo chiaro il significato della locuzione «capitalismo cognitivo» e quali siano le sue differenze con l’«economia della conoscenza». Contro le interpretazioni di chi vorrebbe ascrivere l’idea del capitalismo cognitivo all’idealismo di opzioni già «post-capitaliste», il saggio ribadisce la natura materialista – nel senso marxiano – di questo paradigma: il termine «capitalismo» indica infatti «la permanenza, al di là di tutte le variazioni, delle invarianti del sistema capitalista; in particolare il ruolo determinante del profitto e la relazione salariale o, più precisamente, le forme differenti di lavoro su cui poggia l’estrazione di plusvalore». Il termine«cognitivo», dall’altra parte, «evidenzia la nuova natura del lavoro, le fonti del valore e la forma della proprietà che supporta l’accumulazione di capitale e le contraddizioni che questo genera» (p. 15).

Sono due le coordinate da tenere presente per orientarsi nel campo teorico e politico che gravita sull’opzione del capitalismo cognitivo. La prima ruota intorno all’idea che oggi tendano a cadere i confini tra rendita e profitto, e che il secondo si trasformi nella prima. La seconda – strettamente legata alla prima– si traduce in un’espressione che ha suscitato scandalo nel marxismo più o meno ortodosso: «crisi della legge del valore». Per quanto riguarda la prima ipotesi, Carlo Vercellone e Stefano Dughera (Metamorphosis of the theory of value and becoming-rent of profit) spiegano che «il profitto, come la rendita, tende a diventare una relazione puramente distribuzionale» poiché nella maggioranza dei casi il capitale si appropria del plusvalore senza svolgere nessuna operazione nel processo produttivo (p. 55). In altre parole, esso agisce come un vampiro; in questo senso, sopravvive come «morto vivente» pur esibendo un corpo perfettamente in salute (p. 56). Secondo questa ipotesi, il processo produttivo nella sfera cognitiva si dà già in modo cooperativo: è «il Comune» come «modo di produzione concreto, […] portatore di un’alternativa sia all’egemonia della logica burocratico-amministrativa dello Stato sia all’economia di mercato capitalista» (Carlo Vercellone, Alfonso Giuliani, Common and commons in the contradictory dynamics between knowledge-based economy and cognitive capitalism, p. 132). Come affermano Fumagalli e Lucarelli (Cognitive capitalism, an empirical and theoretical analysis), nel capitalismo cognitivo il Comune è soggetto «all’appropriazione privata da parte del capitale» il quale viene valorizzato nell’intero ciclo vitale della conoscenza (p. 129).

Proprio questa estensione porta Fumagalli a parlare di capitalismo «bio-cognitivo» (Twenty-theses on contemporary capitalism – bio-cognitive capitalism) in cui «il mercato finanziario, la conoscenza e le relazioni sono il motore dell’accumulazione» (p. 63) e «la vita stessa diventa valore» (p. 68). Si tratta di un ampliamento delle fonti della valorizzazione che investe in pieno anche il welfare (altro elemento indicatore presente nel titolo del volume), ormai in procinto di diventare esso stesso «la fonte di una valorizzazione capitalistica diretta» (p. 70) da analizzarsi, nuovamente, con le lenti del «divenire-rendita del profitto» (p. 64). L’estensione dei processi di valorizzazione alla vita nel suo complesso va di pari passo con un altro mutamento rispetto al capitalismo fordista, che Fumagalli sintetizza come «una nuova fase della sussunzione del lavoro al capitale, dove allo stesso tempo la sussunzione formale e quella reale tendono a fondersi e ad alimentarsi a vicenda» dando origine a quella che l’autore definisce «sussunzione vitale» (p. 79). La «nuova forma di sfruttamento» nel capitalismo bio-cognitivo (New forms of exploitation in bio-cognitive capitalism) è caratterizzata dalla compresenza di processi estensivi e intensivi di estrazione del valore, ma la loro interconnessione e pervasività è tale da mandare in crisi la teoria del valore: «quando la vita diventa forza lavoro, il tempo di lavoro non è misurato tramite unità standard (ore, giorni). La giornata lavorativa non ha limiti, se non quelli naturali. Siamo in presenza di una sussunzione formale e di estrazione di plusvalore assoluto. Quando la vita diventa forza lavoro poiché il cervello diventa macchina, o meglio, “capitale fisso e variabile allo stesso tempo”, l’intensificazione della performance lavorativa raggiunge il suo massimo: siamo in presenza di sussunzione reale ed estrazione di plusvalore relativo» (p. 80). Ma «crisi della teoria del valore» non significa, come Vercellone e Dughera spiegano chiaramente, «abbandono» della teoria marxiana. Piuttosto, contro chi la pensa come una legge «a-storica», una categoria «quasi-naturale» (p. 34), si tratta di ribadire la necessità di una sua rimodulazione in ragione della congiuntura, come il miglior materialismo insegna.

Nella sussunzione vitale rimane centrale la questione del Comune: se, infatti, da una parte nel capitalismo bio-cognitivo «le forme della sussunzione e dunque dello sfruttamento si moltiplicano», dall’altra «l’eterogeneità di queste forme deriva dalla mancanza di una chiara distinzione tra elemento umano ed elemento macchinico»; si osserva «un’ibridazione che sottolinea nuovi modi del conflitto e al tempo stesso la possibilità di processi di auto-organizzazione» (p. 90). L’esistenza concreta di questa opzione – il Comune come modo di produzione alternativo, processo di auto-organizzazione esistente – non significa però l’assunzione di una posizione teleologica circa la sconfitta del capitalismo, più o meno parassitario esso sia. La storia «non è un processo lineare ma procede per salti» e dunque se dal lato del capitale «la tendenza verso una nuova organizzazione cognitiva della produzione non segna, ipso facto, la fine del taylorismo, nemmeno nel campo del lavoro intellettuale» (p. 45), dal lato del lavoro è possibile che si verifichi «la corruzione del Comune» (p. 133). Le parole che seguono sono ancora più chiare nello spazzare via dal tavolo qualsiasi utilizzo deterministico dell’idea di «tendenza»: «in questa nuova fase del capitalismo, modelli produttivi differenti continueranno a co-esistere e a intrecciarsi» (p. 45).

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Proprio sulla questione della «tendenza», di derivazione operaista, interviene Negri nella sua postfazione: «la tendenza non si riferisce a una direzione deterministica, a un movimento darwiniano – anche se descrive una evoluzione. Quest’ultima – che si configura come un’interazione di tendenze e contro-tendenze (come analizzato nel Capitale in più di un’occasione) – mostra che il capitale è fragile nel suo sviluppo, e che la composizione organica di capitale si presenta sempre in modi differenti, poiché registra l’impatto dei movimenti sociali e delle lotte operaie» (p. 177).

Non è un caso che la conclusione del volume sia affidata a Negri. Con il suo testo, si chiude un cerchio che, ritornando all’introduzione, riporta in primo piano una questione fondamentale, nella teoria come nella pratica: quella che riguarda il metodo. In questo volume, la metodologia adottata è quella operaista. Non, si badi bene, nel senso di un «ritorno antiquario» (e un po’ modaiolo), ma di piena sostanza: c’è un metodo da mantenere attivo che lega l’operaismo alla sua declinazione contemporanea – il «neo-operaismo»: «si tratta dell’intuizione, fornita dalla rivista militante Quaderni Rossi, che il rapporto capitale-lavoro coinvolge soggettività in conflitto: soggettività differenti che si muovono su piani diversi e asimmetrici» (p. 5). Per questo, al netto delle diverse sfumature tratteggiate dai singoli autori, l’intero volume si propone come obiettivo «l’evoluzione di questo rapporto tra una soggettività piena (il lavoro vivo) e una soggettività mutilata (il lavoro morto del capitale), in una fase storica in cui la conoscenza vivente incarnata nel general intellect è diventata, oggi più che mai, il perno su cui ruota la valorizzazione» (p. 5).

La continuità non si limita al metodo, ma vuole essere anche di scopo: «dentro e contro» il capitale contemporaneo significa, ancora una volta,individuare nuove forme dello sfruttamento per cogliere nuove modalità dell’antagonismo. Cosa apprendiamo da questo libro? Con le parole di Negri, «impariamo che una politica di classe deve tenere insieme l’appropriazione di capitale fisso e di welfare, lo smantellamento del capitale e la destabilizzazione del suo sistema politico» (p. 177). Un compito certo non facile, ma – vista la pervasività del capitalismo contemporaneo – oggi più che mai necessario, e per la cui riuscita occorre un lavoro politico tutto da costruire.

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Commento di Stefano Lucarelli

Era difficile discutere questo libro, proprio perché, pur partendo da premesse comuni, i vari autori le sviluppano in modi diversi, non sempre complementari.  Elia però ci offre una lettura di grande intelligenza. Non è l’unica possibile, ma è senza dubbio istruttiva. 
Leggendo questa recensione ho compreso che questo libro (più in generale la linea di ricerca aperta anzitutto dagli studi sul capitalismo cognitivo), al quale sono onorato di aver contribuito, invita a sollevare un problema: esiste una tensione che investe lo stesso General Intellect. Quindi lo stesso concetto di Comune. Infatti “Comune” a ben vedere è una costruzione concettuale basata sulla interpretazione neo-operaista di General Intellect.  Il rischio di procedere per costruzioni concettuali senza esperire sino in fondo le contraddizioni reali che la parola General Intellect nomina è a mio avviso molto alto. Ciò contribuisce alle difficoltà che si incontrano oggi nell’agire politico. Può sembrare una tortura ma credo che occorra ancora ripartire dalle contraddizioni del General Intellect, ripartire da una nuova rilettura del Frammento sulle macchine in un tempo in cui le macchine (ma più in generale la tecnica) entrano nelle nostre esistenze in modo diverso. Ciò significa riflettere su cosa stanno divenendo i nostri saperi vivi. Ma esistono ancora dei saperi “nostri”? E in che senso essi sono “vivi”?  E cosa ne è delle possibilità politiche destabilizzanti che emergono dalla “conoscenza comune” dei soggetti (su cui insiste Negri nella postfazione)? La fruibilità comune di questa conoscenza si dà attraverso infrastrutture tecniche che incidono  profondamente sulla psiche dei soggetti quando questi si pongono in relazione. 
Queste infrastrutture (lavoro vivo? lavoro morto? capitale costante? capitale variabile?) incidono sulla nostra rappresentazione del mondo, la destabilizzano e destabilizzano le stesse soggettività. Al di là delle difficoltà palpabili di istituire una nostra legge del valore fuori dal capitalismo, a quale nuova valorizzazione capitalistica condurranno queste tendenze? A che tipo di essere umani? A che tipo di mortali? 
Domande per il 2020 che senza questa recensione non mi sarei posto e non avrei condiviso. 

 

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