Il problema emerso dalla contestazione a Ca’ Foscari, con le proteste contro Emanuele Fiano, tocca il nodo centrale della questione: l’equiparazione tra antisemitismo e antisionismo.

Qual è la posizione principale che viene censurata nel discorso mainstream in Italia, e che genera reazioni violente?
Ve lo dico io: è la posizione secondo cui lo Stato di Israele si fonda su un progetto sionista di natura coloniale, e dunque fascista, che deve essere criticato e contrastato, e rispetto al quale occorre immaginare un’alternativa politica e giuridica a Israele così com’è sempre stato e come agisce oggi.

Cerchiamo quindi di affrontare l’argomento nel modo più laico e pacato possibile.
Il problema non è che Emanuele Fiano non possa esprimersi — anche perché la sua posizione è pienamente sostenuta da un solido sistema di potere e trova ampia rappresentazione nella sfera mediatica italiana.

Quel blocco politico e culturale che difende implicitamente il progetto sionista, pur criticando il governo Netanyahu, è una delle tesi più diffuse e più tutelate nei media italiani.
La formula “Israele sì, ma non deve esagerare con il massacro” è, in fondo, la posizione comune di tutti i governi europei: una posizione che, di fatto, continua a sostenere il progetto sionista e il genocidio in corso.
Emanuele Fiano, dunque, non rappresenta una minoranza silenziata o censurata: al contrario, incarna una delle voci più protette dal potere costituito.

Detto questo, proviamo a capire che cosa stessero dicendo gli studenti — o, più in generale, chi oggi si dichiara antisionista.
È proprio questa parola, “antisionismo”, a costituire il vero spauracchio del potere:

“Dobbiamo impedire, in tutti i modi, che il dibattito pubblico mainstream possa legittimare la messa in discussione di Israele come progetto politico in sé.”

Ma allora chiediamoci: perché si ha così paura di questa posizione?
Che cosa comporta, realmente, dirsi antisionisti e non antisemiti?
E perché questa distinzione — storicamente chiara e politicamente fondata — oggi viene sistematicamente rimossa dal discorso pubblico?

Questa è una posizione legittima, coerente con i principi del diritto internazionale e con la difesa universale dei diritti umani.
Ed è proprio da qui che nasce un punto di rottura: oggi non è più sostenibile una posizione “sionista di sinistra”, perché equivale, di fatto, a una posizione “fascista di sinistra.”

Ci sono ebrei antisionisti che condividono questa mia posizione — e credo che sia anche la posizione della maggioranza di coloro che scendono in piazza per fermare il genocidio a Gaza.
Questo, a sua volta, spiega uno dei motivi (non l’unico) dello scollamento crescente tra la politica rappresentativa — anche di sinistra — e la società reale, in cui metà della popolazione ormai non vota più.

Ciò che gli antisionisti stanno dicendo, in Occidente come in Italia, è che non sono disposti a sostenere un’idea di un colonialismo dal volto umano.
Dire che non è legittimo definirsi “sionista di sinistra” equivale a dire che non è legittimo, in una democrazia antifascista per costituzione, sostenere un colonialismo dai buoni propositi o un fascismo su base etnica ma progressista.

Questa è la questione che si vuole porre — e che il dibattito mainstream si guarda bene dall’affrontare.
Meglio tacitare e squalificare come “terroristi”, “antisemiti” o “violenti” tutti coloro che esprimono questa posizione — una posizione, in realtà, più che ragionevole e pienamente legittima.

Non ci nascondiamo nemmeno il fatto che questa discussione abbia una lunga tradizione e non nasca certo oggi.
Ma è proprio oggi che i nodi vengono al pettine, e non possiamo più permetterci di tenere gli occhi chiusi.
Su questo punto esiste una volontà esplicita di censura: il decreto legge 1627, in discussione al senato,  che equipara antisemitismo e antisionismo, secondo la definizione dell’IHRA, ne è un tassello fondamentale.

Lo Stato di Israele è nato nel 1948 come risposta politica alla Seconda guerra mondiale, sotto la regia del Regno Unito e di una parte del movimento ebraico che teorizzava la costruzione di uno Stato sionista.
È evidente, quindi, che Israele porta in sé un peccato d’origine: essere nato come risposta al nazifascismo, ma fondato su una logica coloniale.
Un progetto al tempo stesso antifascista e coloniale.

In Italia, il Partito Comunista Italiano mantenne per gran parte del Novecento posizioni filosioniste, spesso anche più convinte di quelle della Democrazia Cristiana. Ma chi oggi si dichiara antisionista non può non riconoscere che l’anima coloniale e fondamentalista religiosa del progetto dello Stato di Israele — presente sin dalle sue origini, nella sua costituzione e nel suo DNA politico — ha di gran lunga prevalso sulle tensioni socialiste e su ogni visione multiculturale e integrata di convivenza tra Israele e Palestina.

Credete che lo Stato di Israele, così come è stato concepito, sia in grado di assumere il ruolo di pacificatore o di assimilatore di altri popoli? No, non lo è. Deve essere ripensato radicalmente, per poter stabilire relazioni diplomatiche internazionali fondate su basi non coloniali e prive di discriminazioni etniche.

Ciò che le posizioni antisioniste internazionali stanno affermando è che il progetto stesso di Israele è stato fondato sulla Nakba — cioè sullo sterminio, l’espulsione e l’espropriazione della popolazione e delle proprietà palestinesi — e che da allora, dal 1948,  lo Stato israeliano ha continuato a definire secondo la legge i palestinesi residenti in Israele come cittadini di serie B.

È lo Stato di Israele (e non solo l’attuale governo) ad aver promosso e consolidato le colonie — una terminologia riconosciuta e non contestata — in Cisgiordania: vere e proprie città che occupano illegalmente, secondo il diritto internazionale, i territori palestinesi.

Lo Stato di Israele è dunque costitutivamente uno Stato che riproduce, nei fatti e nella teoria, un regime di apartheid.
Ed è questo ciò che non si vuole dire.

La conseguenza è evidente: un’internazionale di sinistra coerente con i propri principi non può che schierarsi a favore dei diritti umani, della Corte Internazionale di Giustizia e criticare il progetto di Israele nei suoi fondamenti stessi.

O, quantomeno, se ne dovrebbe poter parlare liberamente.

Invece, ciò che sta accadendo oggi è che sia i media sia la legge stanno cercando di rendere questa posizione illegittima, o addirittura illegale e criminale.

Ricordatevelo: le parole che avete appena letto, in Italia, potrebbero presto diventare perseguibili per legge.
Dobbiamo quindi cominciare a chiederci che cosa possiamo ancora scrivere, dire o pensare — e per quanto tempo — prima di rischiare di finire in galera semplicemente per aver tentato di aprire un dibattito.

 

Immagine in aperura: murales di Banksy sul muro di Betlemme che separa palestinesi da israeliani