Prosegue l’esame parlamentare della riforma del mercato del lavoro, targata Job Act; dopo il voto del Senato nel mese corrente dovrebbe pronunciarsi la Camera. L’accordo dei tre partiti dovrebbe introdurre modifiche di poco conto, per salvare la faccia alla minoranza bersaniana; e dunque, salvo sorprese, il voto finale arriverà prima della fine d’anno. Con la fiducia, probabilmente, e lasciando ai successivi decreti legislativi delegati (senza passaggio parlamentare) eventuali ulteriori mediazioni. Nel frattempo sale il malcontento.

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Gli organi di propaganda del governo in carica, a sostegno del Jobs Act in vista dell’ormai imminente approvazione, hanno aperto una durissima polemica nei confronti del sindacato in generale e della CGIL in particolare. Con argomenti suggestivi e con una straordinaria disinvoltura si sostiene che le nuove norme consentiranno finalmente l’estensione delle tutele e dei diritti al mondo dei precari, abbattendo ingiustificati arcaici privilegi. La responsabilità dello sfruttamento della fascia debole viene attribuita principalmente (e perfino esclusivamente) alle organizzazioni tradizionali dei lavoratori stabilizzati, con l’aperta accusa di voler perpetuare un trattamento discriminatorio e una divisione ingiusta che penalizza soprattutto i giovani.
Il magico slogan dell’apparato renziano consiste nell’affermare che la riforma darà un contratto a chi ancora ne è privo. Una menzogna ad effetto, comunicata da bugiardi professionisti. Il problema non è allora quello di difendere i confederali (che si sono meritati di tutto), ma di svelare un inganno, di smascherare i falsari insediatisi nella cabina di comando.
Va infatti subito chiarito che l’affermazione sul contratto non ha il minimo fondamento tecnico giuridico, in poche parole è totalmente falsa. Deputati, senatori, giornalisti ed esperti sono per giunta perfettamente consapevoli di mentire, ma non hanno la minima intenzione di desistere posto che, pur se mendace, la premessa sfocia in una conclusione reale, ovvero l’abbattimento del costo del lavoro, in tempi brevi e dentro la crisi.

Lavoro senza contratto?

Qui e oggi (intendo: con le norme vigenti) non esiste una prestazione lavorativa senza contratto. E non può esistere, perché l’ordinamento comunque la regola per come avvenuta, pur in assenza di atti o patti scritti; si è creato, volutamente, un equivoco nella comunicazione, equiparando la “mancanza di contratto scritto” alla “mancanza di contratto/assenza di diritti”. Tuttavia le cose non stanno affatto così. Probabilmente malvolentieri, ma anche il professor Michele Tiraboschi o il senatore Pietro Ichino sarebbero costretti ad ammetterlo (e a bocciare i loro studenti che lo negassero nel corso di un esame). Già nel 1901 (con la pubblicazione del primo moderno trattato giuslavoristico in Italia) era acquisito il principio secondo il quale la vendita del proprio tempo e la sua utilizzazione nell’impresa erano sufficienti a far nascere l’obbligazione contrattuale, anche in assenza di forme.
Dunque una prestazione in nero, già oggi e senza bisogno di riforme, comporta in ogni caso l’esistenza giuridica di un contratto. Con quali regole? Qui viene il bello (e per le imprese il brutto che vogliono eliminare). In assenza di regole scritte diverse si applicano infatti le regole ordinarie, automaticamente. Dunque qualora vi sia stata una prestazione settimanale in nero (un muratore o una commessa per esempio) si tratta, secondo le leggi italiane, a tutti gli effetti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e a tempo indeterminato; con una tutela ridotta se la società ha meno di 15 dipendenti e con la tutela piena se i dipendenti sono invece più di 15. Ed anche la contribuzione sociale (infortuni e pensione) è dovuta per intero; anzi ricade sull’azienda anche la quota contributiva a carico del lavoratore.
Pur con questa (attuale e vigente) sanzione (ben più severa di una sostanziale presa in giro come le cosiddette tutele crescenti) il lavoro nero è nel nostro paese una quota pari al 28%. Ogni 100 ore prestate, ben 28 sono clandestine (nonostante le urla e gli strepiti di Salvini e della Lega Nord). Attenzione: non sono 28 lavoratori su 100, ma 28 ore lavorate su 100, il che è ben diverso. Ma il dato è ugualmente significativo. Evidentemente neppure una dissuasione così potente raggiunge lo scopo.
Le medesime conseguenze sanzionatorie accompagnano tutti i contratti precari scorretti: quelli a termine, quelli a progetto, quelli di collaborazione. Per non incorrere nella tagliola della trasformazione automatica in un contratto stabile e definitivo la variopinta serie di contratti precari (stages, termine, progetto, ecc. ecc.) debbono essere curati attentante nella forma. Contrariamente a quel che si crede comunemente avere il contratto scritto non è sempre un vantaggio per il lavoratore.
Torniamo all’argomentazione della propaganda diffusa sulla riforma del lavoro dal governo Renzi, ed esaminiamola alla luce delle modifiche, che, a loro dire (ma sanno di mentire) dovrebbe aumentare di ben due milioni di unità le assunzioni a tempo indeterminato.
La liberalizzazione del voucher (quota annua elevata presumibilmente almeno fino ad ottomila euro) consentirà a qualunque impresa di utilizzare un part time (o, se ne ha bisogno, numerosi part time fino ad 8.000,00 euro annui ciascuno) per 20 ore settimanali, senza limiti e impegni. Il costo di una paga oraria netta di euro 7,50 (un netto teorico corrispondente di 1200 euro mensili quale riferimento) costa all’impresa 10,00 euro complessivi, sostanzialmente senza costi aggiuntivi di gestione e senza rischi di maternità o malattia cui far fronte. Assumere un part time a 20 ore settimanali con il nuovo contratto a tutele crescenti costerebbe, per dare lo stesso netto di retribuzione, almeno 18,00 euro orari (ma con la tutela della maternità e della malattia a far da scheletro nell’armadio). Dunque la gran parte delle attività flessibili saranno in concreto risolte utilizzando o i contratti a termine o i voucher (il che del resto sta già avvenendo nei padiglioni fieristici e nelle strutture dei servizi di pulizia); solo un imprenditore pazzo opterà per una spesa doppia quando senza rischi, grazie alle nuove norme, potrà contenere invece la spesa. Il contratto a tutele crescenti serve solo a limare il potere contrattuale e il sistema dei diritti di una minoranza da assumere necessariamente in pianta stabile (per ragioni tecniche od organizzative); ed ove mai in futuro a qualcuno venisse in mente di conquistarsi con una causa l’accertamento di un rapporto a tempo indeterminato (o più modestamente di contrattare la buona uscita a conclusione di un rapporto per qualche motivo irregolare) il potere contrattuale si presenterà ridotto in quanto, a differenza di prima, approderà comunque ad una stabilità già azzoppata dalla ragnatela di decreti in arrivo.

La liberalizzazione totalizzante del contratto di lavoro

Questa è dunque la reale portata della riforma chiamata Jobs Act. I rapporti a tempo pieno e a tempo indeterminato rimarranno una minoranza rispetto a quelli flessibili, ma anch’essi saranno meno garantiti e tutelati; le sanzioni per le imprese che useranno false partite Iva o lavoro nero saranno assai più modeste, sia per i termini di decadenza già introdotti sia per le conseguenze che il nuovo contratto comporterà automaticamente. La liberalizzazione del voucher costituisce ulteriore zona di salvaguardia per l’utilizzo selvaggio, a chiamata, senza regole (o meglio con la legificazione della mancanza di regole protettive del dipendente). La cattiva flessibilità, lungi dall’essere contrastata, viene contrattualizzata (nel senso di legittimata e agevolata) e dunque finirà con l’imporsi definitivamente come la forma ordinaria del rapporto di lavoro. Di conseguenza nel testo della riforma anche gli ammortizzatori sociali vengono tagliati (sia la CIG che l’ASPI), per accelerare un rapido ingresso nell’ampio bacino dei sempre disponibili in attesa di spremitura. Il miraggio del contratto per chi non lo ha mai avuto è, dunque, un falso assoluto, in vista di un dono avvelenato ad ulteriore danno dei giovani precari.
Va detto che, nel quadro che si va delineando, non pare avere uno spazio strategico, per la tutela di questa nuova composizione del lavoro, la forma sindacato, quale si è nel tempo sviluppata e sedimentata. Non è una questione di mera critica ai comportamenti (indubbiamente in molte occasioni vergognosi) delle strutture confederali; anche correggendo la linea in senso radicale, o sostituendo i disonesti con gli onesti, lo scompenso fra soggetti e struttura rimane; è un dato storico, fisiologico. Lo stesso sindacalismo di base (pure protagonista di lotte importanti e presenza attiva di rilievo nell’arena di scontro sociale) non riesce mai a legare insieme soggettività ed organizzazione, nascendo crescendo e morendo di volta in volta all’interno di singoli ambiti circoscritti, senza sedimentare in modo continuativo. Sindacato è un termine con significati davvero molteplici e spesso contraddittori; non solo per l’articolazione in segmenti che si combattono (capitale e lavoro) mediante conflitto sociale, ma anche per l’estensione ad ambiti diversi dalla guerra salariale (nella criminalità provvede alla cosiddetta protezione, al pizzo; nella finanza punta al controllo monopolistico di quote del mercato mediante i patti). In questa fase di crisi politico-economica, per quel che qui ci interessa (costo del lavoro), è soprattutto istituzione o controllo ; nelle forme migliori costituisce una struttura di appoggio logistico, di supporto tecnico (od occorrendo specializzato: consulenti, medici, avvocati, fiscalisti), di comunicazione mediatica. Si parte dalla lotta (e si chiama la base a raccolta) e si conclude trattando a palazzo, puntualmente accettando le imposizioni della BCE o di organismi similari. Senza scampo.

La crisi irreversibile della forma sindacato

Come può, allora, utilizzare questa forma sindacato una moltitudine che ha perso ormai qualsiasi rapporto di lungo periodo con un luogo stabile di prestazione, che partecipa indifferentemente al processo di realizzazione dei beni materiali come di quelli immateriali, che viene chiamata a compiti spesso così parcellizzati da rendere incomprensibile agli stessi esecutori l’utilizzazione reale della loro energia e della loro cooperazione, che subisce l’imposizione doppia di una disponibilità ininterrotta ma di una retribuzione limitata ai soli istanti di servizio riconosciuto come tale, che ha infine acquisito la piena consapevolezza di non avere una propria esistenza autonoma rispetto a quella che l’odierno ciclo finanziarizzato esige. Ormai anche amare, vestirsi, leggere, telefonare, nutrirsi sono attività che non appartengono più solo alla sfera privata, ma rientrano nella struttura organizzata dal potere (un lavoratore prende il voucher da Autogrill, ci compra un maglione da Benetton, mangia da Eataly, con il cellulare posta la foto sul sito Facebook). Come può questa forma sindacato spezzare la catena e consentire l’emancipazione? L’organizzazione era nata, in fondo, per creare una sorta di monopolio dell’offerta lavorativa da contrapporre ad uno speculare monopolio della domanda padronale; ma in un meccanismo totalmente globalizzato che continuamente si scompone e ricompone e in cui non si intravedono più argini o confini questa specifica forma ha davvero un senso e un futuro? Non credo, con tutta franchezza. E tanto meno ha possibilità di sopravvivere la forma che, nel medesimo tempo storico, ha seguito un tragitto parallelo, ovvero la forma partito. Con modalità assai diverse sindacato e partito, nel passato, trovarono e fondarono meccanismi che assicuravano reciproca sopravvivenza e autonome funzioni (come cinghia di trasmissione in Italia, come gruppo di pressione lobbistica in Usa, come collaboratore di pianificazione in Cina); ed il partito si è sempre contraddistinto quale forma associativa rivolta alla traduzione legislativa del compromesso (conservazione, abrogazione, mutamento di norme), e dunque viveva ben articolato nel territorio, con funzionari legati alle comunità che li esprimevano. Ora i partiti sono tutti diventati liquidi, vivono per le elezioni e per eleggere i parlamentari scelti come in una sorta di concorso; sono un’altra cosa e non si vede come la forma partito quale è in concreto oggi materializzata possa rivestire interesse o utilità ai fini dello sviluppo del processo di emancipazione del precariato moderno.
Eppure il governo Renzi si è ugualmente scatenato contro la forma sindacato, prolunga l’attacco, bastona perfino la Fiom, vuole lo scontro. Il motivo, ovviamente, c’è. In mancanza di strutture alternative e di fronte all’ampiezza degli effetti della crisi questa del sindacato appare come l’unica difesa esistente. Nella società della comunicazione spettacolare anche la rappresentazione della difesa rischia di poter diventare un’arma e dunque determina reazioni. L’unica difesa, dicevamo, ed apparente, fragile. E’ vero; ma anche allo stato senza alternative visibili. Il primo ministro Renzi vuole (l’immagine rende l’idea) asfaltare sia la Fiom che la Cgil (per poi concludere l’opera con i sindacati di base); egli vuole espropriare i lavoratori stabili e i lavoratori precari anche di questa ultima speranza di difesa, procedere al massacro delle illusioni per poter finalmente imporre un costo del lavoro basso ad una manodopera completamente domata e flessibilizzata. Il successo di piazza delle recenti mobilitazioni non potrà che accelerare la resa dei conti.
Il cammino di precarizzazione, atomizzazione, scomposizione del lavoro prosegue, è in atto. Così come procede inarrestabile il mutamento della composizione della forza lavoro: inutile rievocare gli strumenti analitici nati per esaminare quella che un tempo si articolava in indagine sulla composizione tecnica e composizione politica. Qui ci troviamo di fronte a qualche cosa di nuovo, ad uno sciame in perenne movimento. Ci troviamo di fronte alla forma sciame ed è partire da ciò, senza negare il problema, che la questione potrà cominciare a dipanarsi.

La forma sciame

Lo sciame ha una particolare caratteristica (negli insetti, ad esempio), quella di muoversi (movimento, ci dice qualche cosa?), con ogni sua parte, insieme e nella stessa direzione, unito pur se con un apparente disordine interno durante lo spostamento; a sciame le api vanno a costruire e fondare nuove colonie e non è mai prudente cercare di fermarle. In fisica nucleare l’insieme delle particelle costituenti lo sciame viene prodotto nel corso di moltiplicazioni successive da una particella di energia assai grande nell’attraversamento di un mezzo materiale.
Dunque non è solo il movimento a caratterizzare la forma sciame, ma il movimento insieme, ognuno con la propria soggettività e autonomia e tutti nella stessa direzione. Nel momento stesso in cui si pretendesse di rompere l’unità complessiva (o, peggio, di mutare la direzione) la struttura non sarebbe più la medesima, verrebbe meno e lo sciame si trasformerebbe in confusione senza senso.
La moltitudine dei precari ha per propria natura la forma dello sciame; in luogo di rimuoverla ci si deve riconoscere, la deve assumere come premessa, deve rivendicarla. Questa è l’unica soluzione possibile. Complessa forse, ma senza alternative. E dentro la forma sciame va collocato quello che abbiamo cercato di definire come il comune (non i beni comuni naturalmente!). Una sorta di scienza dello sciame e del comune. Invertendo il meccanismo di costruzione del concetto e riportando al centro i soggetti (le soggettività) uno sciame di sapienza.
Maria Luisa Gatti Perer (1929-2009) insegnava storia dell’arte alla Cattolica di Milano ed era una mente straordinaria. Commentando un passo di Platone, a proposito dello sciame di sapienza, così lo definiva: un insieme di elementi che debbono essere esaminati e definiti, un gruppo non unificato, ma che potrebbe costituire un insieme ordinato di grande valore se venisse adeguatamente definito e interpretato.

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