1. LE FORME DELLA CRISI
Entrati, ormai, nel settimo anno della crisi economico-finanziaria, possiamo affermareche oggi la crisi non è la stessa che esplose nel 2007. Si debbono, a nostro avviso, individuare alcuni snodi fondamentali, che consentono di collocare le fasi principali. In termini molto sintetici, elenchiamo tre passaggi:
Fase A.2007-09: scoppio della bolla dei sub-prime. L’epicentro della crisi è negli Usa e raggiunge il suo culmine nel settembre 2008 con il fallimento della Lehmann-Brothers. Inizia l’era Obama con un deciso cambio di politica monetaria. L’ortodossia neo-liberista (un ottuso laisser-faire, sostenuto dall’ideologia che i mercati – e in primo luogo il mercato finanziario – siano in grado di autoregolarsi, selezionando le posizioni meno efficienti) lascia il campo a una politica monetaria espansiva (inizio del quantitative easing) accompagnata da una politica fiscale accomodante (aumento del debito Usa). L’intervento dello Stato nel salvataggio delle banche in difficoltà si estende anchealla Gran Bretagna, Olanda, Francia e Germania.
Fase B.2010-12: mentre gli effetti negativi sull’economia reale, soprattutto europea, si intensificano, la speculazione finanziaria internazionale, favorita da un ulteriore processo di concentrazione bancaria e finanziaria, si indirizza verso due nuovi obiettivi: la speculazione sulle commodities (derivati future sul petrolio, soia, grano) che sostiene la ripresa dei paesi Brics (la speculazione sulle materie prime è sempre un ottimo modo per ottenere facili plus-valenze immediate) e la speculazione sui titoli di stato dei paesi europei, che vedono aumentare il proprio debito soprattutto a causa della forte recessione del 2009 (mediamente il Pil diminuisce di quasi il 5%). Parallelamente aumenta l’instabilità dei saldi commerciali, che iniziano a presentare dinamiche sempre più differenziate: Cina e Germania vedono aumentare il surplus, Usa e resto d’Europa vedono aumentare il deficit.
Iniziano così a manifestarsi traiettorie geo-economiche diverse tra aree del pianeta:
a. gli Usa sulla base della forte iniezione di liquidità della Fed presentano una lieve ripresa, più che altro drogata appunto dalla politica monetaria espansiva, anche in funzione della rielezione di Obama del 2012;
b. l’Europa entra nella spirale recessiva trainata dalle politiche di austerity imposte dalla Troika e procede a terminare il duplice progetto di smantellamento del welfare europeo verso forme sempre più rigide di workfare e di precarizzazione del mercato del lavoro;
c. l’area asiatica del sud-est (Cina in testa, India con più difficoltà) procede: i. al rafforzamento del controllo sulle rotte della logistica internazionale e, ii. a rinsaldare la leadership tecnologica nei settori dei beni strumentali, pur in presenza (e a prezzo) di crescenti instabilità sia sul fronte del mercato bancario interno che sul piano del conflitto sociale;
d. il continente sudamericano segnala un buon tasso di crescita, anche qui tuttavia caratterizzato da instabilità che cominciano a evidenziarsi soprattutto sul mercato delle valute.
Fase C.2013-oggi: il 2013 a livello mondiale vede una forte crescita degli indici azionari di tutto il mondo, a riprova che il processo di finanziarizzazione è lungi dall’essere controllato e dal presentare difficoltà. In un’economia finanziaria di produzione ciò non stupisce. Tale processo è però lungi dal favorire la stabilità internazionale. Siamo infatti in presenza di spinte centrifughe, che portano verso una decentralizzazione della struttura del potere imperiale, sia a livello militare, che economico e finanziario, prefigurando la possibilità di una nuova governance plurale (vedi più avanti).
L’Europa è ancora impastoiata dagli effetti recessivi delle politiche d’austerity. L’elezione di Juncker come commissario Europeo ribadisce la linea continuista dell’austerity. Può darsi, anzi appare sicuro, che si possano registrare degli “allentamenti” e un minimo di flessibilità nel vincoli posti dai patti di stabilità, ma la filosofia economica di fondo non pare, almeno nel breve periodo, soggetta a mutamenti. La Germania è stretta nella morsa tra gli effetti negativi della recessione europea del 2013 e della scarsa crescita nel 2014, un tasso di cambio dell’Euro sopravvalutato e la necessità di mantenere un surplus commerciale in grado di sostenere una minima crescita. Ma i tassi d’interessi negativi e lo spettro della deflazione non promettono nulla di buono. La politica monetaria della Bce, pur “non convenzionale” non produce gli effetti desiderati in termini di crescita della domanda aggregata (termine che nel discorso di insediamento di Juncker al parlamento europeo non è stato nominato neanche una volta a differenza di “deregolamentazione del mkt del lavoro per creare un clima imprenditoriale migliore”!).
Negli Usa, il quantitative easing è di fatto imposto dalla necessità di assecondare le convenzioni speculative che l’oligarchia finanziaria continuamente genera. Questo è il primo obiettivo. Se poi c’è anche un po’ di “trickle down” (sgocciolamento) sull’economia reale, meglio, ma non è l’aspetto importante. In tal modo si vuole ribadire che il cuore della valorizzazione sono i mercati finanziari e una “politica keynesiana” adeguata all’oggi è per forza politica di sostegno alla grande finanza. Ciò spiega il forte incremento dei titoli borsistici nel 2013, anche a rischio di scatenare una nuova bolla immobiliare soprattutto nel Sud America, in Cina, Filippine e Brics. Da qui la necessità di evitare chela bolla speculativa si gonfi troppo rapidamente e provvedere ogni tantoad un “raffreddamento”. E’ quello che Greenspan negli anni 2000 chiamava”atterraggio sul morbido”, con i risultati che si sono visti. E’ in questo ambito che è cominciata una politica di riduzione nella creazione di moneta (il famoso tapering) e si vocifera in ottobre di un possibile aumento dei tassi d’interesse. E sappiamo che quandoc’è instabilità, sono i più forti e i free-rider a comandare.
Tutto ciò avviene nel momento in cui si registra anche una crescita dell’instabilità valutaria, innescata dalla politica di svalutazione dello yen giapponese (Abenomics), seguita da forti iniezioni di liquidità, politica che ha costretto sia la Fed che la Bce ad adeguarsi, con grande gioia della speculazione finanziaria. L’esito di questa politica è stato soprattutto minare la stabilità valutaria dei paesi emergenti (dalla Turchia, India, Brasile, Argentina, ecc.) con effetti svalutativi e inflattivi e conseguente aumento dei tassi d’interesse sul debito.
E’ in questo quadro che appare interessante la decisione presa dai Brics nella riunione del 16 luglio 2014 di istituire per la prima volta un’istituzione finanziaria internazionale alternative a quelle, oramai decotte, di Bretton Woods: una sorta di Banca Internazionali degli Investimenti fuori dal controllo occidentale per finanziare infrastrutture con una dote iniziale di 100 mld di dollari. Una notizia che non ha fatto piacere ai principali quotidiani economici mainstream (che l’hanno di fatto snobbata) perché può segnare un cambio nella governance finanziaria mondiale. La governance finanziaria occidentale (unita dallo slogan: Keynes in casa, Smith al di fuori dei confini) rischia così di venire meno, dopo che è stata già persa la leadership economica.
All’interno di questo quadro, occorre poi prendere in considerazione l’aumentata instabilità geopolitica: dall’Ucraina all’indipendenza della Crimea (dove, guarda caso,passa il 70%del petrolio e del gas proveniente dal Mar Caspio – progetto Guam (Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldavia) che ora dovrebbe chiamarsi Gkam, dove la U di Ucraina diventa la K di Krimea sotto diretto controllo della Russia, la grande esclusa dal Guam originale…), dall’Irak (possibile nascita di un califfato che controlla parte dei pozzi petroliferi) alla Siria, alle tensioni in Palestina.
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DALLA GEOECONOMIA DELLA CRISI ALLA VALORIZZAZIONE ECONOMICA.

L’evoluzione della crisi ha confermato alcune intuizioni che già avevamo avanzato negli anni precedenti, all’interno del cd. “approccio post-operaista”. Le riprendiamo in modo sommario:
a. Con la fine del paradigma fordista-taylorista, il nuovo modello di accumulazione tende sempre più basarsi su due pilastri principali: da un lato la finanziarizzazione dell’intero ciclo di valorizzazione, con l’effetto del divenire rendita del profitto e di quote crescenti dei reddito da lavoro (a prescindere dalla sua remunerazione: salariale, autonoma, di compartecipazione, volontaria, schiavista) , dall’altro la cognitivizzazione della prestazione lavorativa a seguito della mutata governance proprietaria, meno rivolta alla proprietà privata materiale (leggi mezzi di produzione) e sempre più finalizzata al controllo dei flussi di sapere e di tecnologia di tipo immateriale. E’ infatti da tali ambiti che si manifesta quella cooperazione sociale e relazionale e quella riproduzione sociale che sono oggi, pur in modi differenti, la più rilevante base (in termini di estrazione di plusvalore) dell’accumulazione capitalistica.
b. Se il processo di finanziarizzazione è sino all’inizio della crisi sotto il controllo delle potenze imperiali dell’Occidente e ne rappresenta la sua fonte di valorizzazione principale, il processo di cognitivizzazione e di indirizzo del paradigma tecnologico tende sempre più a divenire policentrico e non più concentrato nel Nord-Ovest del globo. Si aprono nuove direttrici tecnologiche che da Nord interessano sempre più l’Est e il Sud del mondo. Non stupisce che dal 2006 la Cina sia diventata la nazione con la più elevata quota di export in prodotti high-tech e in brevetti. Prima della crisi abbiamo quindi una governance finanziaria ancora concentrata in mondo prevalentemente anglosassone, mente la governance dei saperi e della conoscenza tende a spostarsi ad oriente e quindi anche verso il Sud del mondo (Sudamerica e Sudafrica).
c. Le diverse configurazione economiche attuali generate dalla crisi ci dicono che anche la governance finanziaria è diventata policentrica e imperiale su scala globale. E’ in questo passaggio che si attua ciò che abbiamo definito la crisi della governance finanziaria così come la avevamo ereditata da quasi trent’anni di neoliberismo occidentale. Ed è in questo passaggio che si registra la crisi del processo di valorizzazione in Europa e nei paesi anglosassoni. E’ solo il mantenimento unilaterale del potere militare e poliziesco su scala globale che consente agli Usa e ai suoi alleati di poter ancora influenzare i conflitti in corso, ma sempre con minor efficacia e successo.
d. All’interno di questo quadro, il processo di accumulazione/valorizzazione capitalistica varia da area a area geografica perché diverse sono le caratteristiche e le soggettività del lavoro vivo di volta in volta interessate. Una nuova divisione internazionale del lavoro si sta definendo, una divisione del lavoro che, a differenza del passato, non si basa sulla diversa specializzazione (mansione) del lavoro all’interno di uno contesto produttivo tendenzialmente omogeneo (quello manifatturiero-materiale) ma su nuovi elementi che prescindono la condizione lavorativa stessa ma hanno che fare, da un lato, con il diverso grado di accesso alla conoscenza (divisione cognitiva del lavoro), dall’altro, con il diverso grado di coinvolgimento della vita al lavoro (divisione vitale del lavoro).
e. Il processo di valorizzazione si presenta oggi assai variegato e flessibile, pur se caratterizzato da alcuni elementi comuni:
i. l’estrazione di plus-valore avviene tramite forme di “sussunzione formale” e non solo di “sussunzione reale”.
ii. siamo in presenza anche di una nuova forma di sussunzione, che possiamo definire “sussunzione vitale”, la cui intensità dipende dal grado di divisione cognitiva e divisione vitale del lavoro. Per “sussunzione vitale”, intendiamo lo sfruttamento diretto della vita messa a lavoro (che va oltre la semplice sussunzione reale, perché si modifica il rapporto “bios/macchinico”) e non solo lo sfruttamento a valle della cooperazione sociale e relazionale degli individui (sussunzione formale). Il modo con cui la vita produce valore assume infatti diverse forme a seconda delle soggettività e dei contesti socio-produttivi e relazionali.
iii. l’intensità dello sfruttamento nel bio-capitalismo cognitivo relazionale e finanziarizzato risulta di gran lunga superiore a quella presente nel capitalismo fordista, ma assume modalità e combinazioni diverse tra i tre tipi di sussunzione testé menzionati (“reale”, “formale” “vitale”). In altre parole, siamo di fronte alla compresenza di “espropriazione” (“dispossession”) e “sfruttamento” (“exploitation”).
iv. L’accumulazione per “espropriazione” può essere letta in due diversi modi, alla Derrida o alla Harvey. Nel primo caso il fenomeno si riferisce essenzialmente ai processi di privatizzazione di beni pubblici e beni comuni (ad esempio, l’acqua), nel secondo caso si riferisce al saccheggio che i paesi occidentali compiono nei confronti di altri paesi, ricchi di materie prime o nuovi ambiti di realizzazione, come strumento di ridistribuzione del surplus produttivo che non riesce a essere realizzato dai paesi più ricchi, oggi in crisi. La crisi valutaria internazionale può essere anche analizzata alla luce di questi processi. In entrambi i casi, si tratta di forme di accumulazione originaria e quindi di sussunzione formale.

La seconda parte del seminario vuole cominciare ad aviare una discussione sulle forme di sfruttamento nelle diverse parti del globo. L’intento è quello di provare a costituire una mappa dei processi di sussunzione.

Alcune questioni:
1. Risulta confermata dopo 7 anni di crisi che nel mondo occidentale anglo-sassone-europeo, pur con tutte le diversità tra le due sponde dell’Atlantico, la valorizzazione è basata prevalentemente su un processo di espropriazione di una capacità di cooperazione sociale autonoma (e quindi immediatamente non riducibile a sfruttamento)? Oppure la crisi, intesa come crisi della gestione di tale processo di espropriazione, ha rimesso in gioco processi di sfruttamento più tradizionali, anche come esito dei processi di precarizzazione e di governance del lavoro vivo?
2. Nei paesi Brics, il processo di espropriazione delle risorse naturali ha lasciato il posto a forme di sussunzione reale o anche processi di espropriazione dell’immateriale? Più in generale, l’accumulazione per espropriazione riguarda solo i beni pubblici e i beni comuni o ha a che fare con il “comune” (al singolare)? E se riguarda il “Comune” si tratta di espropriazione o sfruttamento o di entrambi?
3. Come si collocano gli Usa nella divisione cognitiva del lavoro? E in quali rapporti con la Cina?
4. La Cina ha avuto un’evoluzione molto rapida verso forme di organizzazione della produzione via via sempre più cognitiva. Contemporaneamente, è stata teatro di una elevatissima conflittualità operaia. Sono ravvisabili contraddizioni?
5. L’organizzazione dell’impresa multinazionale si è modificata verso forme ibride di management e finanziarizzazione che ne hanno mutato la struttura di comando. E’ ravvisabile un modello generale di organizzazione di impresa?
6. Nell’eterogeneità dei processi di sussunzioni, come si pone il tema della rappresentanza? E’ possibile parlare di biosindacalismo, come forma di resilienza alla sussunzione vitale?
7. E’ ancora valida la seguente affermazione di qualche anno fa?
“E’ in atto anche una crisi di valorizzazione capitalistica. Nonostante i profondi processi di ristrutturazione organizzativa e tecnologica che hanno allargato la base dell’accumulazione, imponendo – dietro il ricatto del bisogno – la messa a valore della vita, del tempo di vita e della cooperazione sociale umana, la valorizzazione attuale, proprio perché si fonda solo sull’espropriazione esterna della vita e del “comune” umano senza essere in grado di organizzarli, non si trasforma in crescita di plusvalore. Il processo di finanziarizzazione ha sì consentito una poderosa “accumulazione originaria” ma non è stato in grado di tradursi in valorizzazione diretta e reale. E’ questa la contraddizione centrale che sta alla base della crisi attuale”. (www.uninomade.org/bilancio-di-fine-anno-crisi-permanente/- gennaio 2013)
8. I movimenti europei sembrano soffrire pesantemente non solo della crisi economica ma paradossalmente proprio della assenza di solidi assetti politici istituzionali. Diciamola meglio: se il mercato ha preso il posto dello Stato, ovvero se lo Stato si è ridotto a essere portavoce del mercato, aumenta la difficoltà a individuare una reale controparte. Chi è il nostro nemico? E ancora: come ci poniamo, di fonte a esso? Quali strumenti adeguati agitare e agire? Non è materia di poco conto nel momento in cui siamo tutti consapevoli, di per sé, della fragilità delle forme delle coalizione e della riposta comune che, faticando a trovare un vero perno al proprio interno, sbandano.

Quando quindi parliamo di “crisi e nuove forme di valorizzazione economica” intendiamo discutere dei processi di soggettivazione del lavoro e dei processi di interdipendenza e compenetrazione tra i tre tipi di sussunzione e tra i processi di espropriazione e sfruttamento.

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