In attesa dell’ennesimo e forse stavolta definitivo incontro al vertice tra Grecia e Istituzioni, pubblichiamo l’articolo di Orsola Costantini.  Mentre l’Unione Europea, fin dall’inizio della crisi, attua la sua trasformazione istituzionale, nei negoziati si scontrano due opposte idee di potere.

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Un susseguirsi di date chiave, di scadenze… sempre col fiato sospeso… arrivando infine a pensare che forse davvero non c’è  altro modo possibile.
Eppure, a giudicare dai resoconti, più che tentativi di accordarsi questi innumerevoli incontri al vertice sono semplici audizioni, in cui i rappresentanti dei creditori – spesso privi di mandato di mediazione – ascoltano le proposte della Grecia. Sono parte di una strategia tesa a mettere il paese ellenico con le spalle al muro.

Ma cosa sta succedendo? Possibile che i politici dell’Eurozona accettino di mettere a rischio la stabilità economica dei loro paesi pur di reclamare i pochi spiccioli ancora racimolabili dall’aumento delle tasse e dalla riduzione delle pensioni in Grecia, operazioni che nessuno può davvero ritenere risolutive della crisi greca?
Ricordiamo che stime recenti del governo greco, riportate dal New York Times, indicano che quasi il 45% dei pensionati greci vive in una condizione al di sotto o pari alla soglia di povertà. Circa il 60% percepisce una pensione inferiore o pari a 700 euro al mese.
La spesa totale per le pensioni conta per il 16% circa del PIL greco, cioè qualcosa come lo 0.3% del PIL dell’Eurozona.

Gli sventurati pensionati greci sono inconsapevolmente diventati terreno di scontro storico tra due idee di potere.

La Grecia ha un governo democraticamente eletto che in nome del mandato del popolo rappresenta gli interessi della nazione. Questa è l’idea di potere che le costituzioni nazionali europee, vestigia del dopoguerra, prevedono e proteggono. E’ un’idea che oggi mostra tutto il suo anacronismo e la sua inadeguatezza di fronte alle forze in campo.

Ma lo scontro non è tanto per tutelare la finanza mondiale o i capitali tedeschi, francesi o italiani dall’eventualità di un default o di una crisi ancora più dura: non si tratta del timore di non riavere i crediti concessi. Anche loro sono pedine di un gioco sul più lungo orizzonte. Altrimenti, il Fondo Monetario Internazionale non avrebbe, nel 2012 e ancora nel 2014, accettato un accordo con il governo conservatore di Samaras che non aveva alcuna speranza di essere rispettato e che infatti Samaras si guardò bene dal rispettare (salvo passare la patata bollente al governo entrante).

L’idea di potere per cui si combatte è quella della società per azioni. Gli azionisti di maggioranza dell’Eurozona sono anche coloro che hanno maggiormente da perdere dal suo fallimento (o da una sua trasformazione in senso più egualitario). Pertanto, non è accettabile che un’economia che conta tra il 2 e il 2,5% di quello dell’Eurozona, una quota risibile del fatturato dell’azienda, metta in scacco tutti gli altri.
Il contendere non è più sul contenuto economico del piano di salvataggio o sulla quantità di euro che esso potrà garantire ai creditori, bensì sulla legittimità del governo greco di mettere condizioni di alcun genere sulla gestione economica e politica della porzione territoriale greca dell’Eurozona.
Per questo, più ancora delle pensioni, dell’IVA e delle tasse sull’energia, la privatizzazione del porto del Pireo appare una questione di importanza politica cruciale.
Le istituzioni europee e, in secondo luogo, il FMI sono chiare: il potere deve averlo chi ha i soldi. Ed esse così si pongono al servizio dei capitali investiti in Europa, come loro braccio politico.

Eppure, nei fatti, le Istituzioni hanno già vinto: il piano presentato dai greci, o almeno la versione che sta circolando, è un piano di austerità. E a maggior ragione questo è vero se si guarda oltre la questione ellenica, ad un’Unione Europea che in questi anni di crisi ha silenziosamente cambiato la sua faccia istituzionale.

Infatti, con la riforma del Patto di Stabilità e Crescita del 2011, il famoso 6 Pack, e l’introduzione del semestre europeo è cominciata una trasformazione del sistema di governo dell’UE che ne ha ridotto il carattere inter-governativo, accentuando il potere centrale della Commissione Europea e la capacità di quest’ultima di influenzare le scelte politiche degli stati membri. Questo, senza rafforzare i debolissimi meccanismi di controllo democratico da parte del Parlamento dell’operato della Commissione e dei vari tavoli tecnici.

Anche in questa fase turbolenta, si discute attivamente di come plasmare l’Europa del futuro. Domenica scorsa, come riporta Die Zeit (qui e qui) le cinque più alte cariche dell’Unione Europea hanno depositato un piano per completare l’unione economica e monetaria dell’area che verrà discusso dal Consiglio giovedì, poche ore prima dell’ennesima fatidica scadenza greca. Il piano a due orizzonti temporali,  2017 e 2025, prevederebbe l’intensificazione delle procedure centralizzate di controllo delle politiche di bilancio e delle regolamentazioni dei mercati nazionali dapprima interpretando in senso esteso i meccanismi esistenti e, in un secondo momento, modificando i Trattati.

Avendo già vinto, le Istituzioni potranno anche mostrarsi improvvisamente magnanime con i greci. Ma quando si tratta di dimostrazioni di principio tutto è possibile.

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