Il gruppo di ricerca “Emidio di Treviri” è un progetto di inchiesta sul post-sisma del Centro Italia. Questo articolo è a cura di due componenti del collettivo, Davide Olori e Marta Menghi.

A 11 mesi dalla prima scossa, sembra ormai sempre più chiaro che il prolungarsi della fase emergenziale non sia soltanto l’effetto della superfetazione normativa tipica della gestione del post-disastro, ma si configuri come una precisa volontà politica. In questo quadro, il  Contributo per l’Autonoma Sistemazione (C.A.S.) che rappresenta la soluzione preponderante adottata dal Governo per gestire la popolazione terremotata delle 4 regioni del centro Italia, si è trasformato, nei fatti, in una forma iniqua di sostegno al reddito che ha penalizzato, nei fatti, le fasce di popolazione maggiormente “vulnerabili”. Nelle sue distorsioni tale soluzione, non essendo stata calibrata in base allo status socio-economico di partenza dei nuclei familiari, ha contribuito a deformare il mercato degli affitti e ha generato un ampio ventaglio di diseguaglianze.

I contributi ai disastrati nella storia recente

All’indomani del terremoto del ‘97 che interessò l’Appennino Umbro-Marchigiano, il contributo di autonoma sistemazione fu introdotto come misura di sostegno per gli sfollati che avevano optato per soluzioni abitative autonome, in alternativa ai container.  All’epoca, circa il 60% dei nuclei familiari evacuati usufruì del contributo, che oscillava tra 77,47 euro/mese per persona (per i soggetti ospitati in comunità) ed un massimo di 309, 87 euro/mese per le famiglie più numerose

[1].Nella fase di ricostruzione il contributo venne esteso con le stesse modalità anche ai nuclei familiari che avevano trovato una dimora autonoma per il periodo di esecuzione dei lavori di ristrutturazione dei propri edifici danneggiati (ai sensi della Legge. 61/98 – Ord.Minist.le 2947/99). In quella gestione, un contributo analogo, ma rapportato alla superficie ove era svolta l’attività, venne concesso anche alle aziende commerciali o artigianali che avevano trasferito l’attività per il periodo necessario per eseguire i lavori di ristrutturazione. Dal 01/01/2002 il CAS venne regolato dall’Ordinanza Commissariale n.78 del 19 luglio 2002 che circoscriveva l’erogazione solo a quei soggetti che avevano trovato una sistemazione autonoma onerosa o che erano ospitati da parenti entro il IV grado.

Nel 2009, dopo gli eventi calamitosi che colpirono L’Aquila, furono 25.583 persone ad usufruire del Cas nella prima fase emergenziale. Diversamente da quanto accaduto nella Valnerina, il numero degli aquilani beneficiari del contributo si ridusse drasticamente nell’estate del 2010[2]. Dal mese di agosto quasi il 60% degli sfollati cessò di ricevere il contributo poiché, impugnando l’ordinanza 3870, il Comune richiese al Sed (Servizio elaborazione dati) di procedere alla chiusura di 8.572 pratiche. Le nuove condizioni introdotte dall’ordinanza e le auto-dichiarazioni che l’amministrazione comunale aveva fatto compilare ai cittadini nella primavera precedente attestavano che ben 14.027 persone non erano più in possesso “dei requisiti per ottenere il beneficio”. Non solo, nella fase di ricostruzione, a 500 nuclei familiari il contributo venne addirittura richiesto indietro, poiché altre due ordinanze, (la 3827 del 10 marzo 2010, e la successiva 3857) avevano stabilito nel frattempo che qualora gli aventi diritto al contributo non avessero terminato i lavori di ristrutturazione degli edifici danneggiati entro 6 mesi il diritto al CAS sarebbe immediatamente decaduto.

Il CAS nel dopo-terremoto dell’Italia Centrale

Dopo il terremoto che ha devastato le regioni dell’Italia centrale, appare sempre più evidente che la strategia adottata dal governo sia quella di prolungare il più possibile la fase d’emergenza. La mancata partenza della ricostruzione leggera (cioè di ciò che ha subito piccoli danni riparabili) e i ritardi epocali nella consegna delle cosiddette “casette” (SAE) per coloro che avrebbero dovuto aspettare la ricostruzione pesante, mostrano in maniera inequivocabile la gravità del prolungarsi del “tempo dell’attesa”. Queste mancate soluzioni hanno prodotto una generale condizione di esasperazione nella popolazione, implementando il processo di desertificazione (ormai quasi definitiva) dei territori delle aree interne. Agli abitanti terremotati sono state proposte due alternative che implicavano implicitamente l’abbandono dei luoghi d’origine. La prima è stata quella di continuare l’esperienza della tendopoli nelle strutture alberghiere: una soluzione fortemente caldeggiata dalla Protezione Civile per un celere sgombero delle tensostrutture all’inizio dell’autunno a solo poche settimane dal sisma. Oltre che comportare costi esorbitanti per le casse pubbliche, tale soluzione si è trasformata in un alienante dispositivo di gestione delle fasce di popolazione che l’avevano scelta, medicalizzando la quotidianità degli sfollati, in gran parte anziani e soggetti vulnerabili.[3]

La seconda soluzione, è stata quella di usufruire del contributo per l’autonoma sistemazione per provvedere liberamente alla propria soluzione abitativa. In tutto il cratere, circa 37.000 persone hanno optato per questa opzione. Di per sé lo strumento presenta alcuni indiscutibili vantaggi: non funzionando come rimborso, in primo luogo non innesca il meccanismo escludente della produzione di certificazioni burocratiche che nell’emergenza può rappresentare per molti un problema non poco rilevante e, secondariamente, prevede una quota standard nella quale viene considerata anche una somma per le prime spese di chi ha perso tutto e deve ristabilire la propria quotidianità. Al tempo stesso però, il rischio reale è che tale misura, in un contesto in cui l’estrema dilatazione del tempo dell’emergenza non fa scorgere neanche i primi albori di una ricostruzione, catalizzi il processo di allontanamento di gran parte della popolazione dalle aree interne verso zone “più attrattive” e, soprattutto, in cui l’offerta immobiliare è più ampia. Tale criticità sarebbe stata relativa se la misura si fosse limitata al breve periodo. Purtroppo, il protrarsi dell’attesa di soluzioni definitive oltre che alimentare la vulnerabilità dei soggetti cristallizza il processo di spopolamento (o se volete, di quel fenomeno che i saggi del Commissario alla Ricostruzione, in maniera assai più fantasiosa amano definire la “nuova geografia di relazioni tra la costa e le aree interne”).

Così, il CAS si è trasformato in uno strumento che non solo ha allontanato i terremotati dai luoghi d’origine e al tempo stesso ha gonfiato i mercati immobiliari “di sponda”. Infatti, che – come già accennato  – il contributo era stato pensato esagerando i prezzi degli affitti, per permettere un margine utile alle famiglie per realizzare quegli acquisti minimi utili a ristabilire il quotidiano.

 

Dal dossier ppcc:

I nuclei familiari la cui abitazione è stata sgomberata, distrutta in tutto o in parte a seguito del terremoto. Dopo il sisma del 30 Ottobre l’ordinanza 408/2016 aumenta il contributo di autonoma sistemazione per le famiglie, in base al numero dei componenti:

• una persona, da 300 a 400 euro mensili

• due persone, da 400 a 500 euro mensili

• tre persone, da 600 a 700 euro mensili

• quattro persone, da 600 a 800 euro mensili

• cinque o più persone, da 600 a 900 euro mensili

Hanno diritto al CAS anche agli studenti iscritti agli anni accademici 2015/2016 e 2016/2017 presso Istituti universitari con sede nei comuni interessati dagli eventi sismici.

Saranno i Comuni, che effettuano l’istruttoria e gestiscono le attività correlate all’assegnazione dei contributi per l’autonoma sistemazione, a rideterminare i contributi secondo le nuove disposizioni, anche quelli in via di erogazione.

 

Oltre a questo livello di problematicità, che potrebbe essere superficialmente definito di ordine territorialista ma da cui in realtà conseguono una serie di effetti a catena sull’assetto socio-economico delle zone colpite e la produzione di nuove disuguaglianze, desertificazione etc., esiste un secondo livello di criticità sollevato dal CAS.

Quella che viene pensata come una misura uguale per tutti in realtà subisce una profonda differenziazione a livello territoriale: la sua applicazione viene infatti delegata alle singole amministrazioni comunali che si differenziano in base alle decisioni tecniche e politiche deliberate nelle varie giunte. Si manifestano così profondi squilibri tra il SUPER-CAS di Amatrice (RI, Lazio), pensato con un’integrazione regionale che aumenta ancora di più gli importi per famiglia, e i comuni dove l’applicazione dello strumento viene rigidamente circoscritta sulla base di regolamenti inventati dai tecnici locali come ad esempio a Comunanza (AP, Marche), dove si esige che i consumi antecedenti al sisma corrispondano a certi livelli, o a Sarnano (MC, Marche), dove i terremotati vengono rimpallati dalla burocrazia.

Una difformità territoriale frutto probabilmente della volontà degli organi centrali di delegare agli enti locali quante più responsabilità possibili, piuttosto che una devoluzione guidata dal principio decentralizzatore che riconosce le specificità dei territori periferici in un’ottica integrata di capacitazione degli organi locali.

Ma ai fini del ragionamento che qui si vuole affrontare è per ora utile soprassedere tutti quei casi in cui il CAS è stato limitato, dove non è stato erogato con costanza, dove arriva agli interessati con notevolissimi ritardi, etc. e quali equilibri politico-istituzionali abbiano guidato certe scelte piuttosto che altre.

Quello che ci preme in questo passaggio sottolineare è come il CAS, persino nella sua applicazione regolare, si sia trasformato da utile sussidio d’emergenza a iniquo contributo al reddito.

Dall’ingiustizia del CAS verso un reddito garantito territoriale?

Se è indubbio che nel breve termine una cifra “arrotondata”, le cui spese non vanno rendicontate e a fondo perduto può essere un modo con cui la collettività ridà fiducia a individui e famiglie che hanno perso tutto nel disastro, è altrettanto vero che superati i primi mesi lo strumento viene piegato a seconda delle necessità individuali.

Difatti a undici mesi dal primo sisma, quasi nessuno sta utilizzando l’intero CAS per la destinazione con cui viene erogato. Esiste una frazione della cifra che viene destinata al risparmio personale e che varia in base alla condizione socio-economica di partenza. Così per quanto una famiglia con due stipendi medi e due figli sia in grado di spendere la quasi totalità del contributo statale per un affitto provvisorio, gonfiando quindi i mercati delle zone limitrofe a quelle terremotate, molte altre salvaguardano una parte per la loro sopravvivenza. Questa parte varia in misura della loro necessità, che dipende strettamente dalle condizioni in cui si trovano nella post-emergenza, e che fa declassare nella maggior parte dei casi la questione abitativa in secondo piano rispetto ad altre impellenze primarie. E’ così che in moltissimi hanno scelto di sopravvivere al primo inverno e durante quest’anno in condizioni di fortuna, nei camper e nelle roulotte, nelle baracche etc. Perchè da un lato alcune necessità primarie si costituivano come prioritarie rispetto all’affitto di un appartamento, dall’altro l’incertezza rispetto allo strumento non permetteva di vagliarla come una soluzione duratura.

Nella foto, un giornale online diffonde l’allarme rispetto all’ipotesi che il CAS decada. Pochi giorni dopo il commissario per l’emergenza conferma la proroga dello stesso. Ciò che però preme evidenziare è la costante incertezza, ben espressa anche nella narrazione dei mass-media. (fonte: http://www.fanpage.it/terremoto-fondi-verso-lo-stop-sfollati- in-ginocchio-se-il-governo-non-interviene/ consultato il 11/7/2017)

Dalle interviste condotte sul campo è emersa la difficoltà per le famiglie di pensare al trasferimento in zone più attrattive dal punto di vista residenziale e ricostruire lì una quotidianità con il rischio di doverla interrompere bruscamente con la fine improvvisa del contributo e trovarsi senza la possibilità di rimanere nella casa affittata e senza risparmi.

Questa presunta giustizia che caratterizza un contributo “uguale per tutti” confligge profondamente con il concetto di equità, principio guida dell’azione pubblica. Una donazione a pioggia, consolidata nel tempo, rappresenta una distorsione grave nel rapporto Stato – cittadini, sebbene territorialmente circoscritta.

Se infatti le famiglie e gli individui che hanno saputo mettere a frutto i loro capitali sociali, culturali ed economici per superare il momento emergenziale ricevono somme identiche a quelle di chi è meno fortunato, più esposto o più vulnerabile, allora lo strumento diventa immediatamente un attivatore di disuguaglianza.

Se il principio con cui viene pensato il CAS è valido, è il suo disegno nonché la sua applicazione a destare più di una criticità, come sottolineato nei precedenti passaggi. Va quindi ripensato nell’impianto generale, nel rapporto che le persone coinvolte in un disastro possono stabilire con la collettività e il territorio. Va reso davvero equo, secondo il principio di proporzionalità. Andrebbe in questo senso lanciato l’invito alle popolazioni coinvolte, agli attori sociali e istituzionali che agiscono nel cratere, ma anche al dibattito pubblico generale a ripensare uno strumento per il sostegno alla sopravvivenza, sotto forma di reddito garantito territoriale, per chi è colpito dai disastri socio-naturali. Immaginato non come un contributo a pioggia, ma come una forma di intervento statale che contribuisce a lottare contro l’accelerazione della vulnerabilità nel post-disastro, contro lo spopolamento dei luoghi, contro il manifestarsi delle ingiustizie sociali nei momenti più critici che la collettività è costretta ad affrontare.

 

Note

[1] http://www.osservatorioricostruzione.regione.umbria.it/canale.asp?id=331

[2] http://www.commissarioperlaricostruzione.it/Informare/Archivio-notizie/Contributo-di-autonoma-sistemazione-per-L-Aquila-ecco-perche-i-beneficiari-diminuiscono

[3] Dopo la terza scossa del 30 ottobre, e su spinta di alcune istituzioni regionali come l’Umbria, l’introduzione dei moduli abitativi collettivi (MAC) è sembrata andare nella direzione di proporre la stessa modalità assistenziale degli hotel sul territorio terremotato, tramite l’installazione di villaggi di container. Proprio a causa della natura con cui questi villaggi vengono progettati, estremamente alienante (condivisione degli spazi angusti e dei servizi primari) e medicalizzante (orari della mensa, limitazioni nella gestione del quotidiano, servizi esternalizzati per pulizia e cucina etc.) questa soluzione si è rivelata di gran lunga minoritaria e spesso si è convertita a sua volta in un problema per i servizi sociali, che lì hanno visto concentrarsi la maggior parte delle casistiche di intervento.

Fonte dell’immagine: Ansa.

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