Un incontro intenso quello tenutosi l’1 ottobre 2016 a Modena, nell’ambito del convegno “Riflettere e coordinarsi. Giornata di studio per la tutela della libertà di ricerca e dell’etnografia” (qui il programma completo). Il convegno costituisce la seconda delle tre tappe, organizzate da differenti gruppi di studio tra loro coordinati, anche a Venezia (lo scorso 12 Settembre) e  Bologna (il prossimo 14 Ottobre) in risposta alla recente ondata repressiva che ha visto denunciati e condannati tre antropologi, colpevoli di avere presieduto ad alcune manifestazioni contro la Tav e il taglio degli ulivi in Puglia.

Patrocinata da “Effimera” e dalle riviste scientifiche “Erq” e “Anuac”, la lunga giornata di studio ha visto gli interventi di 23 studiosi strutturati e precari, una folta e continua presenza di pubblico (rimasto stoicamente a seguire le otto ore dell’incontro quasi del tutto privo di pause) e un dibattito finale relativo alle risposte che il mondo universitario è tenuto a dare dinanzi agli attacchi subiti, in difesa di sé stesso, ma anche e soprattutto delle libertà politiche generali, in quadro di crescente repressione delle forme attive di partecipazione e cittadinanza. L’evento non è stato solo un’occasione di critica e auto-critica. Gli studiosi hanno infatti introdotto e discusso le nuove tassonomie del potere e hanno proposto nuove terminologie e accurate definizioni delle trasformazioni in atto, mostrando energicamente l’urgenza di rinnovare e di condividere un lessico analitico comune, capace tanto di rendere conto delle forme specializzate dei poteri neo-liberisti (e del loro impatto sulle pratiche quotidiane della ricerca e della divulgazione scientifica), quanto delle forme localizzate, spesso individualizzate, di resistenza a tale impatto.

Divisi per aree tematiche, i numerosi interventi ospitati nella prima parte hanno scrutato gli effetti della governance universitaria e i modi in cui le politiche e l’economia del reclutamento universitario, associate a nuovi modi di impiego di strumenti e principi quali l’audit o l’accountability, stiano ridisegnando quantitativamente e qualitativamente organici, discipline e offerte didattiche, marginalizzando i saperi critici e offrendo loro – nella cornice predominante della semi-estinzione – solo la possibilità di una conversione ideologica e funzionale. Inoltre, grazie ai contributi di studiosi attivi all’estero, è stato anche possibile affrontare una comparazione internazionale, utile a mostrare come certi dispositivi, specie in Europa meridionale, stiano convergendo e producendo forme di intrappolamento della libera ricerca, ugualmente accompagnate da una restrizione della spesa e da meccanismi di selezione molto netti nel definire il profilo degli studi (e degli studiosi) desiderabili.  In generale, dal dibattito è presto emerso come in Italia e in altri paesi europei le ricerche più passibili di essere “incriminate” risultino quelle che studiano i movimenti sociali legati alle contestazione delle politiche di sviluppo, ambientali e abitative, quelle che si occupano di sanità pubblica e di studi di gender, per non dimenticare quelle condotte sui corpi dell’esercito e della polizia. Si è infine discussa l’introduzione di nuove norme e procedure obbligatorie atte a disciplinare i tempi e le modalità del lavoro sul campo introdotte recentemente nei progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea e da altri donor, con l’obiettivo dichiarato di aumentare la sicurezza dei ricercatori (e la finalità latente di porre limitazioni alle condizioni della raccolta-dati).

La seconda parte del convegno ha invece offerto riflessioni intorno ai dilemmi etici e metodologici volti alla salvaguardia delle persone e dei gruppi osservati, attivi in scenari di crescente criminalizzazione. Sono stati inoltre descritti i modi attraverso cui temi e pratiche di ricerca vengano “addomesticate” e condotte verso obiettivi più conformi, producendo forme di censura ma anche di auto-censura da parte di una forza lavoro intellettuale esposta a variegate forme di ricatto occupazionale.

In risposta a questa oggettiva cornice di restrizione dell’indipendenza intellettuale sono state altresì presentate possibili soluzioni, ricavate da contemporanee esperienze di con-ricerca condotte in contesti rurali meridionali. Esperienze che superano la tradizionale postura degli approcci alla conoscenza animati da una mera “volontà di sapere” a favore di funzioni e pratiche utili a generare processi condivisi di trasformazione economica, caratterizzati dai principi del mutualismo e da altre formule resistenziali individuate dal movimento operaio già sul finire dell’Ottocento per rispondere alla precarietà e alla violenza strutturale delle condizioni dell’esistenza. È stato perciò suggerito che il recupero di queste formule e la loro applicazione al contesto universitario potrebbero aiutare a mitigare l’incertezza dello studioso “non-strutturato”, esposto, come si è detto, al ricatto e all’espulsione, oltre che escluso dalle vestigia del welfare (almeno nel caso di certe tipologie contrattuali).

Insomma ciò che emerge chiaramente dal convegno modenese è la maniera in cui condanne e incriminazioni a carico di ricercatori mettano a nudo, oltre che un certo modo di fare polizia ed esercitare la funzione giudiziaria in scenari di conflitto, la convergenza tra differenti poteri nel disegnare un’etica della presenza universitaria (e civile). Un’etica, in breve, fondata sulla dipendenza intellettuale e sul principio della cooperazione aprioristica coi poteri nella definizione di progetti – di matrice per lo più economica e tecnologica, ma non solo – relativi alla società. Il tutto accompagnato da una ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro che non solo estende l’area della precarietà, impone gli obiettivi da perseguire, fissa criteri assai opinabili di valutazione e restringe così la creatività e il “piacere”, ma che mira soprattutto a produrre un “soggetto”: ossia un cittadino assoggettato e un “impiegato” di strutture sempre più ibride e, comunque, sempre meno “pubbliche”, quasi del tutto deprivato della libertà di dissentire e perseguire obiettivi autonomi, piegato alla volontà e ai fini individuati da agenzie della conoscenza che vanno configurandosi sempre più alla maniera di aziende profondamente verticistiche e guidate dalla competizione (qualcosa che vale per l’Università così come per la pubblica amministrazione in genere, a detrimento non solo del lavoratore, ma dell’interesse generale. Un processo, naturalmente, da tempo ben noto a chi lavora fuori dal pubblico e dall’Università).

Ma dall’incontro modenese emerge anche la convinzione che i saperi liberi e universali siano sempre meno interessanti per le attuali configurazioni del potere e che i classici modi di interpretare funzioni e ruoli professionali siano stati ampiamente superati dall’attuale organizzazione socio-economica. E che, in fondo, sia la stessa ricerca prodotta dentro l’accademia a risultare nel suo complesso superflua e inutile (per lo meno, la maggioranza di essa). E in un quadro in cui i processi sociali non devono essere più compresi o analizzati, ma semplicemente criminalizzati e  repressi, i saperi umanistici e sociali di matrice critica finiscono naturalmente con l’essere percepiti come intrisi della stessa sostanza dei loro oggetti: inutile, superflua, deviante. Una entità parassitica e costosa da criminalizzare ed estirpare.

Tuttavia il tentativo di estirpazione della libertà di ricerca – in particolare di quella etnografica – non pare aver scongiurato l’infestazione; piuttosto sembra averla accelerata. Il convegno ha dimostrato infatti come i recenti casi di criminalizzazione delle pratiche etnografiche abbiano posto le condizioni per un movimento di liberazione per sociologi, antropologi e altri studiosi implicati  nei mercati transazionali della produzione scientifica. Il presupposto di tale movimento non è una faziosità aprioristica e fondamentalista dei ricercatori e delle ricercatrici, ma la constatazione che lo scontro tra istituzioni dello stato di diritto (come quella tra università, corpi dell’esecutivo e magistratura), testimonia la crisi dello stato stesso.  A Modena, insomma, si è assistito ad una singolare inclinazione ad abbattere con urgenza sia i muri di cartapesta che dividono la figura dell’antropologo da quello dell’intellettuale impegnato e dell’attivista per i diritti civili e umani, sia le barriere che dividono i ricercatori precari da quelli strutturati. Una reazione a catena di reciproca legittimazione e riconoscimento tra questi tre ordini di produttori di saperi critici sta progressivamente generando una “comunità di rischio”, come l’ha definita Francesca  Coin nelle sue conclusioni:  una comunità di intellettuali pronta ad assumersi la responsabilità di avviare un processo di progressiva e minuziosa delegittimazione dell’accademia neo-liberista e dell'(ab)uso di azioni poliziesche e giudiziarie per contenere le critiche al sistema.

Per quanto un progetto di risposta organico agli attacchi verrà compiutamente elaborato solo alla fine del prossimo convegno – previsto il 14 Ottobre presso la Libreria Cabral di Bologna e intitolato “Università neoliberale e libertà accademica: il pensiero critico è ancora possibile?” – è già possibile intravedere la volontà di costituire un osservatorio volto a tutelare la libertà degli universitari e, al contempo, di quella società al servizio della quale dovrebbe collocarsi la funzione intellettuale. Uno struttura permanente, insomma, che denunci gli attacchi e tuteli gli individui e i gruppi da quelle pressioni che, come osservato dal breve dossier di Effimera, colpiscono ormai da tempo e con modalità variegate l’Università italiana. Per di più sarà probabilmente prodotto un documento unitario, rivolto alle massime autorità di governo, che sancisce l’autonomia della funzione universitaria e l’irriducibilità di una larga componente intellettuale agli obiettivi e ai progetti perseguiti da quello che è andato definendosi come un complesso giudiziario, poliziesco, economico e amministrativo che attenta alle libertà fondamentali e al bene comune, in materia di ricerca così come di cittadinanza. Un documento, inoltre, che ribadisce che l’Università è un potere  pubblico e che le recenti iniziative giudiziarie ai danni di propri membri, denunciati nello svolgimento della propria funzionale istituzionale, si configurano come veri e propri “sgarbi istituzionali” che non possono essere tralasciati. Così come, del resto, non può essere tralasciata la sostanza di un modello di controllo che sembra negare libertà fondamentali come quelle di manifestazione.

In conclusione, le denunce e le condanne dei mesi scorsi a opera di alcune Procure hanno dunque aperto – per usare una delle espressioni emerse nel corso del convegno – un nuovo “fronte” di rivendicazione e di lotta civile, che mira di fatto a superare la distinzione tra università e società e che intende evidenziare come entrambe siano soggette alle medesime pressioni strutturali, svelando così come vi siano in fondo pochissime differenze tra le forme di ricatto occupazionale, costrizione e disciplinamento che caratterizzano l’università e gli altri settori della produzione.

La speranza che emerge da Modena è, dunque, che queste consapevolezze si estendano ulteriormente e che l’Università italiana possa trovare finalmente l’orgoglio necessario a contrastare attivamente tali tendenze e riaffermare insieme la propria autonomia intellettuale e la propria funzione pubblica e civile.

 

Immagine in apertura: street art from areas including Chancery Lane and Pennyweight Lane, Bendigo, Australia. Foto di Emily Logan

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