A un mese dalle elezioni europee, il dibattitto sul futuro (destino?) del’Europa stenta a decollare. I punti di vista nazionali prevalgono sulla declinazione di un punto di vista europeo autonomo. E’ anche l’esito del ruolo strumentale che le istituzioni europei hanno svolto da Maastricht in poi al servizio dei potentati finanziari. Le politiche di austerity sono state la ciliegina sulla torta. E possibile creare un punto di vista europeo autonomo e alternativo in grado di sperimentare nuovi circuiti di valorizzazione e di creazione monetaria?
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Che la crisi europea provenga da fuori e che solo ricollocandola all’interno delle giuste coordinate storiche e geografiche la si possa cogliere nella sua reale portata, non v’è dubbio alcuno. Che proprio nel presente dell’Unione europea, però, la crisi pluridecennale del capitalismo globale raggiunga vertici parossistici, sembra ancora più evidente. Ergo: la crisi che sta dilaniando il vecchio continente cristallizza in maniera emblematica le problematicità generali della fase odierna del neocapitalismo.
Il collo della gallina dalle uova d’oro
L’attuale regime d’accumulazione trainato dalla finanza è insostenibile. Rappresenta il tentativo disperato del ciclo sistemico d’accumulazione guidato dall’egemonia statunitense di prolungare le proprie sorti declinanti. Dopo il progressivo esaurimento del modello fordista di regolazione, stiamo infatti assistendo al rilancio finanziario dell’economia nella speranza di recuperare i tassi di profitto erosi dall’intensità e dall’estensione delle lotte degli anni ’60 e ’70. Tale tentativo avviene (anche) attraverso la metabolizzazione distorta di alcune delle istanze alla base dei movimenti contestatari; in questa sede, però, poco importa. Ciò che più conta è come tale concomitanza di contromosse abbia di fatto comportato dei paurosi svuotamenti della sostanza e della forma delle democrazie liberali classiche – senza offrire, peraltro, un porto sicuro alle esigenze illimitate di valorizzazione del capitale. Tale inquietante configurazione si manifesta nell’Unione europea attraverso i tratti paradossali di uno stallo storico sempre più traballante, in cui tutto degenera in continuazione affinché nulla cambi per davvero.
Il progetto di costruzione europea – sorto, secondo alcuni (Mandel), per rivaleggiare contro l’imperialismo americano, perseguito, a parer d’altri (Poulantzas), per meglio assestare le istituzioni politiche alla nuova condizione economica – reca inscritti nella propria matrice i principi cardinali dell’ordoliberalismo tedesco[1]. A partire dal Trattato di Maastricht fino al recente Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance, passando Lisbona, ogni passaggio, eminentemente politico, della progressiva integrazione europea si svolge all’insegna della sottrazione di discrezionalità democratica tramite l’implementazione di meccanismi automatici di (presunto) (ri)aggiustamento strutturale. I tristemente noti “vincoli esterni” sul governo della moneta e dei tassi d’interesse, così come i rigidi parametri budgetari recentemente incorporati nelle costituzioni dei vari paesi membri fissano i ristretti margini di manovra all’interno dei quali non è più giuridicamente possibile operare alcuna scelta politico-economica di stampo progressista: l’incostituzionalizzazione della socialdemocrazia keynesiana. Gli articoli 7 e 8 del recente TSCG[2], poi, non solo obbligano le “parti contraenti” a sostenere la Commissione europea qualora imponga certe “proposte o raccomandazioni” (sic!) a uno Stato “che abbia violato il criterio del disavanzo”, ma istituiscono anche la possibilità di denuncia tra Stati membri[3]. Della serie: se qualcuno (i paesi in difficoltà) non si adegua alle normative vigenti, è ormai sufficiente l’iniziativa di un singolo membro (chissà quali?) per costringere la Corte di giustizia a imporre un rimedio.
La camicia di forza delle regole d’oro, dunque, non solo impedisce de jure di agire sulle cause strutturali del precariato e delle sperequazioni, ma prescrive anche la rivalità e la competizione sfrenate come soluzioni ottimali alle patologie sociali da loro stesse causate. Nel cortocircuito di questa costellazione, la moneta unica rappresenta il veicolo più efficace di tale strategia di messa in concorrenza universale. L’euro così com’è pone infatti sullo stesso piano paesi con forze produttive, mercati del lavoro e sistemi educativi e previdenziali radicalmente diversi, favorendo la deflagrazione delle asimmetrie, anziché una virtuosa convergenza al rialzo. Impossibilitando ogni altro tipo di compensazione tramite la valvola di sfogo delle politiche monetarie, l’euro suggella de facto la deflazione salariale quale via maestra per (tentare di) bilanciare gli squilibri finanziari e commerciali interni all’Eurozona. Peggio ancora: la moneta unica non solo condanna allo sfruttamento programmatico del lavoro – al centro come in periferia – ma spalanca anche le porte a un modello di accumulazione al contempo sempre più mercantilistico e parassitario.
In un contesto così rigidamente disciplinato, la migliore strategia di sopravvivenza nella lotta di tutti contro tutti consiste infatti nell’attaccare le economie limitrofe, conquistando fette sempre più ampie di mercato estero tramite l’abbattimento dei costi interni del lavoro e della sua riproduzione – ultimo fattore flessibile rimasto su cui scaricare il peso delle ristrutturazioni sociali. In questo modo, l’euro apre terreni fertili ai capitali del Nord, i quali possono invadere le economie mediterranee approfittando dei vantaggi accumulati nel corso degli anni precedenti a colpi di precarietà e compressioni salariali[4]. Non solo. Messi ulteriormente alle strette dall’accresciuta concorrenza internazionale, privati di ogni arma monetaria di legittima difesa e oggetto di ripetute ondate speculative, i paesi periferici sono costretti a svendere public utilities e patrimoni collettivi per provare a mantenere la testa a galla, procurando ai paesi dominanti una duplice posizione di rendita, sia per quanto concerne i nuovi sbocchi commerciali che per quanto riguarda l’accaparramento di posizioni avanguardistiche in settori nevralgici.
Non potendo qui affrontare il discorso sulla necessità economica di un’unica moneta per economie costitutivamente differenti[5], ci limiteremo a constatare come tale gioco al massacro metta in scena uno scabroso teatrino. Posto che il neoliberalismo si caratterizza su scala mondiale come una feroce lotta di classe condotta dall’alto verso il basso via diktat e ricatti finanziari[6], appare evidente come né le classi proprietarie mediterranee (le quali possono smantellare le acquisizioni sociali dovute alla conflittualità novecentesca a suon di privatizzazioni, austerità e liberalizzazioni) né, tantomeno, quelle nord-europee siano intenzionate a mollare la presa. Ciò non significa, però, che non siano disposte a concedere delle deroghe (sotto prescrizioni ampiamente post-democratiche) all’irremovibilità delle norme, pena il crollo di tale progetto di espropriazione su scala continentale. Come insegnano le storie, per esempio, degli Stati Uniti d’America, dell’Italia monarchica e della riunificazione tedesca, le unioni monetarie non si fanno dall’oggi all’indomani. È infatti ovvio che, senza gli allentamenti continui a quanto stabilito dai dispositivi di governance dei Trattati, l’Unione monetaria europea sarebbe implosa da tempo. In questo senso, gli apparenti miracoli come il programma Outright Monetary Transactions del banchiere centrale Mario Draghi non risultano affatto tali, quanto, piuttosto, degli stratagemmi congegnati per impedire il collasso definitivo della costruzione europea. Uguale discorso relativamente alle leggere crepe che stanno pian piano intaccando (secondo gradazioni variabili) i dogmi tanto cari a Troika, Große Koalition e Bundes Bank: senza di esse la gabbia d’acciaio dell’Europa austeritaria sarebbe già saltata in aria. Appare allora chiaro come le ridotte condizioni di possibilità all’interno delle quali possono spaziare le politiche economiche “sovrane” risultino orchestrate secondo parametri fittiziamente neutrali, i quali trovano la loro giustificazione ultima nella razionalità a-democratica tipica del neoliberalismo trionfante: il trascendentale, in breve, non è altro che un costrutto tecnocratico di parte, quella che sta saldamente ai vertici della scala sociale internazionale.
Le aporie dell’europeismo astratto
Ciò che più colpisce e rivolta nel processo di costruzione europea non è tanto l’assoluta mancanza di democraticità con la quale è stata perseguita e perfezionata tale cibernetica economico-politica, quanto lo sfacciato e cinico paternalismo attraverso cui i rappresentanti dell’élite continentale ammettono il normale funzionamento del percorso integrativo: di crisi in crisi, lo stato d’eccezione permanente e il bene della comunità tutta, in quanto istanze sovraordinate, forzano il politicante nazionale di turno ad applicare delle misure “lacrime e sangue” difficilmente giustificabili altrimenti. Nessun governo o leader politico, infatti, godrebbe mai del supporto necessario per praticare tali operazioni antisociali. Del resto, ogni volta che i desiderata europei sono stati sottoposti al vaglio cittadino il verdetto è parso inequivocabilmente lampante: dal rifiuto danese del Trattato di Maastricht fino alla minaccia del referendum greco sull’ennesimo salasso di salvataggio, passando per il dibattito pubblico svedese sulla (mancata) entrata nell’euro o per l’esito negativo dei referendum francese e olandese circa l’approvazione del Trattato costituzionale (in Irlanda si è dovuto reiterare più volte l’esperimento prima di ottenere il risultato corretto…). Insomma, c’è del marcio in Europa, la consapevolezza sociale lo riconosce in modo diffuso, ma si persevera comunque su un odioso – e pericoloso – piano inclinato!
Oltre agli adepti fedeli militanti tra le fila delle (ex)sinistre di centro, anche il wishfull thinking progressista, nella richiesta intransitiva di “più Europa”, rischia insidiosamente di fungere da “utile idiota” del progetto di affossamento dei diritti sociali e civili ottenuti nel corso degli ultimi due secoli. Ciò per mera miopia strategica. La questione, infatti, non consiste nei valori etici o politici di fondo (chi mai, a sinistra, può porsi contro la commistione e libera circolazione di idee, lingue, esperienze, persone, culture, etc.?); e nemmeno nella potenziale fattibilità, a lungo termine, di tale ideale politico e culturale. Essa riguarda, piuttosto, da un lato, il calcolo delle attuali disparità delle forze in campo e le tempistiche ragionevoli per sperare di mutare sostanzialmente le carte in tavola; dall’altro, invece, la constatazione della drammatica situazione in cui versano, qui e ora, milioni di cittadini europei, in particolare nei paesi meridionali. Certo, le lacerazioni materiali provocate dal naturale procedimento di un accorpamento monetario prematuro sono puntellabili a posteriori: politiche fiscali radicalmente progressive, aumenti massicci del budget comunitario, robuste redistribuzioni dal centro verso la periferia, etc. Tuttavia, se non vuole risolversi in una vuota petizione di principio, la richiesta di un’“Europa politica” volta a compensare l’economicismo dilagante deve spiegare con urgenza – il tempo stringe! – chi e come può riuscire in tale intento. Quale soggettività e per quale via può fungere da punto archimedeo (enforcement, direbbero gli anglofoni) per scardinare al più presto l’Europa neoliberale senza passare per una rottura monetaria. Due ordini di considerazioni (desunti dal caustico pamphlet di Lordon citato in nota) sembrano vanificare ab origine ogni sforzo rivolto in direzione di una riforma dell’euro in senso sociale.
Innanzitutto, bisogna convincere la (a dir poco restia) Germania. Fermo restando che la complessità dell’impalcatura istituzionale europea e la sua costitutiva impermeabilità alle istanze provenienti dal basso remano contro ogni buon proposito, l’isterismo feticistico tedesco