Sono tre gli elementi che – naturalmente è un parere di chi scrive – servono a spiegare l’incapacità, da parte della sinistra milanese (e nazionale), di penetrare e rappresentare le periferie di Milano (e di alcune altre grandi città). La mia breve e sintetica analisi muove da un punto di vista particolare: quello di un figlio di proletari immigrati che sostanzialmente è cresciuto a Milano (in un quartiere del centro e in una casa popolare), che ha potuto studiare, che ha preso un dottorato e che ormai da molto anni fa ricerca a livello accademico. Un figlio, insomma, della società – tutto sommato inclusiva – di antico regime. Il punto di vista di uno storico, inoltre, di uno storico che negli ultimi anni ha studiato la piccola criminalità, quella radicata nei quartieri popolari delle città europee del Novecento. Una premessa che non vale a sintetizzare la mia biografia, ma a meglio definire il contesto in cui hanno preso una forma le riflessioni che seguono. La cui conclusione, però, fa appello al contrario a un concetto più piccolo e semplice: la sinistra, ci tornerò, ha perso la capacità di afferrare e rappresentare il banale.

Ricominciamo da capo. A un livello più generale, la prima causa della separazione tra periferie e sinistra risiede naturalmente nella fine di quella grande fase di sviluppo che si era generata nel dopoguerra, e che ha avuto termine con gli anni Settanta. Non tanto per la frammentazione politica, sociale ed umana che si è consumata a seguito della dispersione sul territorio di tutta la forza lavoro subordinata che in precedenza era concentrata invece nelle fabbriche – e in genere in tutte le imprese – di grandi dimensioni; quanto per il venir meno di quelle risorse economiche che, fino ancora alla fine degli anni Ottanta, avevano garantito il funzionamento del tanto acclamato ascensore sociale. La presenza di quel virtuoso meccanismo garantiva l’adesione delle persone al progetto politico dei comunisti, dei socialisti, di quella parte politica più in generale; ne legittimava la presenza, il sostegno da parte dei proletari e anche una certa obbedienza quando arrivava il momento di ingoiare dei compromessi. Venuta meno quella spinta, si è spenta una delle più eccezionali leve dell’adesione popolare al progetto inclusivo di quella vecchia sinistra: la speranza, appunto, di avere il famoso “figlio dottore”; la meritata ricompensa per una vita di difficoltà e frustrazioni.

Il secondo elemento si salda fortemente con questo. Venuta meno quella leva, e peggiorate le condizioni di vita di tutto il lavoro subordinato cittadino, si è prodotta una feroce spaccatura fra gli esclusi, i lontani (da tutti i punti di vista) dal cuore pulsante della città, e la sinistra di governo. Che di fronte alla crisi non ha potuto (e saputo) fare molto di più che aggrapparsi, eventualmente, a una diversa e più virtuosa gestione delle leve del potere. Tacciando continuamente di avventurismo, di inadeguatezza e di ideologico attaccamento alla storia tutte le voci (minoritarie) che della peggiorata materialità dell’esistenza delle persone avrebbero voluto – a sinistra – farsi carico politicamente. Ecco, dunque, che ci avviciniamo velocemente al problema, che appunto è banale. La sinistra milanese, quella di cui ho fatto parte, di cui faccio parte a livello certamente ideale, la sinistra milanese, dicevo (quella insomma che produce i militanti che oggi sostengono le campagne elettorali), non è certo una sinistra di estrazione popolare. E, conoscendola bene, so esattamente com’è fatta: reagisce vigorosamente, almeno a parole, alle difficoltà manifestate dalle fasce più deboli. Troppo spesso è però portata a credere che i deboli siano soltanto gli immigrati, gli omosessuali, gli adolescenti in difficoltà. Ed è invece sempre portata a reagire con scetticismo, a pensare che si stia esagerando, a rispondere con imbarazzo quando di fronte si trova invece certe persone che parlano male italiano, che addirittura parlano strani dialetti, che s’incazzano perché non hanno dove abitare, o perché non arrivano alla fine del mese, o perché non sanno più che pesci pigliare, e hanno la spazzatura sul pianerottolo a casa. Ecco, anche la parte migliore della sinistra milanese, quella che io bene conosco, quella che un cuore ce l’ha non soltanto a parole, di fronte a istanze di questo tipo è sempre portata a pensare, ripeto, che in fondo si stia esagerando, che quanto viene urlato da quelle persone – in uno strano dialetto – non è mica possibile. O, comunque, è incapace di essere realmente empatica con una rabbia così volgarmente mostrata. È incapace, insomma, di indignarsi con loro. Che è poi la prima cosa, forse l’unica cosa che quelle persone vanno in giro cercando: trovare qualcuno che si indigni con loro, e che a quella indignazione sappia fornire parole, insomma un linguaggio. Un linguaggio che anche loro comprendano. Ecco, perché, alla fine vince il grillismo, perché alla fine vince il leghismo, perché forse non vince nessuno ma comunque non si vince a sinistra. Perché i grillini e i leghisti li sentono urlare, li sentono incazzati neri, esattamente come si sentono loro. Che quella incazzatura sia talvolta genuina e talvolta recitata non ha davvero alcuna importanza. Ecco, lo avevo premesso. La spiegazione della separazione fra le periferie e le sinistre è davvero banale: ma perché… il leghismo vi sembra poi così raffinato?

 

Immagine in apertura: foto di Max Farina, tratta dal progetto “Nella Città”, alcune questioni del progetto urbano. In collaborazione con un gruppo di docenti e ricercatori del Politecnico di Milano

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