Strani spettri s’aggirano, per l’Europa e non solo. Restando dalle nostre parti guardiamo alle lotte intersezionali degli operai dell’ex-GKN, così come alla mobilitazione pluridecennale dei valligiani no-Tav, ai flash-mob ambientalisti di Extinction Rebellion, al radicamento dei movimenti transfemministi, agli scioperi precari, alle iniziative studentesche contro le scuole-azienda, alle lotte dei migranti contro i centri di detenzione, ai raver che rivendicano spazi autogestiti, alle proteste antispeciste/multispeciste. E ancora: pensiamo alle reti solidali grandi e piccole che si costituiscono tra produttori e consumatori, tra città e campagna, agli ambulatori popolari, ai mercatini biologici, ai doposcuola ai gruppi di auto-aiuto. Eccetera eccetera.

Sono strani questi spettri perché a vario titolo invitano a smontare e rimontare il rompicapo riguardante le nozioni ereditate di militanza, attivismo e azione politica (e conseguentemente a ciò, anche quello di obiettivo, tattica, strategia, teoria, prassi, soggetto, organizzazione). Sia chiaro: non sempre le tessere combaciano e s’incastrano, così come non è dato sapere quale mosaico emergerà. Le turbolenze innescate dalla controrivoluzione neo-liberale, sollecitano e provocano interrogativi quanto mai concreti e radicali. A seguire, calpestando quanto tracciato da alcuni/e autori/rici, una serie di riflessioni (per forza di cose incompleta e disordinata, visto lo stato di cose) su ciò che, in mancanza di meglio, possiamo chiamare figure della (post-)militanza, in cui si provano a leggere le dinamiche sociali e l’attivismo in corso in una prospettiva situata, relazionale e multidimensionale.

Addenda 1.  Lo dico subito: usare il termine (post-)militanza non soddisfa, anzi oggi c’è un uso inflazionistico del prefisso post-, a tratti anche ambiguo. Cosa vuole indicare quella particella davanti a una parola? Ad es. “post-moderno” si riferisce a un periodo successivo alla modernità o è una sua variante? Nel nostro caso il ricorrere al prefisso post- vuole più che altro marcare la collocazione storica in cui ci troviamo, il guado che stiamo attraversando: siamo in mezzo, per riprendere le parole di Gramsci, tra il vecchio mondo morente e quello nuovo che stenta a mostrarsi. Senza dimenticare che la parola “militanza” deriva da “militare” e di come porti con sé un retroterra patriarcale, intriso di machismo e temerarietà guascona.

Post-activism è il termine adoperato da Bayo Akomolafe, autore post-coloniale, che non vuole alludere a un “dopo” nel senso di un’evoluzione lineare secondo i canoni del progresso, né significa l’abbandono di quanto l’attivismo è faticosamente impegnato a fare. Costituisce, al contrario, una sollecitazione a rallentare, a sostare, promuovendo la generatività dell’incertezza, così come l’imperfezione della guarigione, provando a pensare al di là dei nostri confini dati e ben visibili, in modo da avanzare proposte che non replichino inconsapevolmente i paradigmi della modernità con le sue aberrazioni, esplorando invece pratiche inedite e rischiose, interrogandosi sui processi di soggettivazione e sull’agentività. Che cos’è una potenza d’agire? Il fare-mondo risiede solo e soltanto in noi umani o è un divenire-con? Sono temi che incontreremo poco oltre[1].

Decolonizzare la realtà

È stato Mark Fischer a evidenziare col termine “realismo capitalista” la condizione in cui ci troviamo, il virus che ha invaso e colonizzato l’immaginario per imporsi non solo come modo di produzione, ma come un ordine sociale complesso e pervasivo. Chi non ricorda il mantra ossessivo di Margaret Thatcher – there is no alternative – secondo cui non c’è un fuori dall’orizzonte capitalista? C’è stato pure qualche buontempone che parlava di “fine della storia” conseguita con l’affermazione del liberalismo, offrendo opportunità e potenziale realizzazione personale a tutti e a tutte.

In particolare gli ultimi interventi e scritti di Fischer riguardavano ciò che chiamava “comunismo acido”, espressione dichiaratamente provocatoria con la quale intendeva affermare la plasticità della realtà contro la prospettiva totalitaria del realismo capitalista[2]. Per questo sosteneva l’importanza di concentrarsi su ciò che il capitale è obbligato a ostacolare, vale a dire la capacità produttiva collettiva, il prendersi cura, la gioia di vivere.

Si tratta, in altre parole, di decolonizzare la realtà in quanto il realismo capitalista si è impegnato a vanificare sistematicamente quelle forme di coscienza espresse negli anni Sessanta e Settanta, la quali, interagendo tra loro, tentavano progettualità ad ampio respiro. Fisher si riferiva alla coscienza di classe, alla coscienza femminista e alla coscienza psichedelica. Se la prima riguarda la consapevolezza dello sfruttamento inscritto nel rapporto capitale/lavoro e la seconda descrive l’irruzione femminista (compendiata da slogan come “il personale è politico” e “partire da sé”), la terza – connessa con l’uso di sostanze ma non riducibile a queste – lavora appunto sulla plasticità del reale. “Quello che i ‘viaggi’ facevano – annotava Fisher – era portare fuori le persone dalle realtà dominanti di quel momento esponendo la realtà come provvisoria, come una forma di organizzazione delle tante possibili”. Oggi più che mai abbiamo bisogno di quel nuovo vedere, nuovo pensare e nuovo amore su cui insisteva Fisher. La nuova militanza parte da qui.

Addenda 2. Parlare di “comunismo acido” è importante dinanzi al revival in corso riguardante il cosiddetto “rinascimento psichedelico” e le sue ambiguità. Il parziale allentamento del proibizionismo e la notizia di un potenziale nuovo mercato psicofarmacologico e terapeutico ha innescato iniziative economiche e finanziarie, creando un legame tra la nascente industria psichedelica e i giganti della new economy, dando corpo a società quotate in borsa. La rivista “Fortune” ha definito il mercato psichedelico a venire come una delle opportunità di investimento in più rapida crescita. Per questo c’è bisogno di attenzione critica verso questo campo.[3]

Gioia e rivoluzione

Ci hanno spiegato che la visione della realtà non è il rispecchiamento di ciò che  sta fuori, ma è determinato da processi biologici e mentali attraverso i quali arriviamo a formulare tale visione. E’ l’esito, sempre rinnovato, di un continuo mettere ordine ai flussi di informazioni in modo da costruire successioni ripetibili e attendibili. Tutto ciò si forma e si struttura dentro dinamiche d’interazione sociale, pertanto le mappe cognitive con cui ci orientiamo e costruiamo la realtà avvengono dentro un determinato divenire storico e sono per lo più finalizzate a perpetuare quest’ordine. Si tratta di una macchina performativa volta a produrre e legittimare uno specifico ordine sociale, un sistema storico di rappresentazioni, vale a dire un complesso di discorsi e di pratiche che fanno in modo che una società decida ciò che è vero e reale da ciò che è falso e irreale.

Tutti questi sono processi incarnati, partono dalla materialità del corpo, il quale si trova attraversato da fenomeni ad alta turbolenza, zona liminare in cui la sfera della vita é al crocevia di importanti relazioni tra sapere e potere, dove si sedimentano dispositivi bio-psico-politici. Il primo passo da compiere allora è partire dal corpo, territorio primario in cui si svolgono, in maniera diffusa e reticolare, forme di conflitto.

Silvia Federici ha il grande merito di aver evidenziato questo, affermando in primis la potenza e la saggezza del proprio corpo, un corpo che, con la sua intelligenza, “ha impiegato molto tempo per formarsi così com’è ora, in perenne interazione con la formazione della terra”[4]. Un corpo recalcitrante, al punto di preferire la malattia piuttosto che soggiacere alle pressioni che lo vogliono modellato e disciplinato, ridotto a forza-lavoro, merce, macchina procreativa, organo da smontare e vendere sul mercato o corpo transumano potenziato e aumentato. Il corpo è il primo terreno di opposizione allo sfruttamento: “la nostra lotta deve cominciare con il riappropriarsi del corpo, con la sua rivalutazione e la riscoperta delle sua capacità di resistere, di espandersi”. Ma non bisogna arrestarsi al solo corpo umano, bensì cogliere la sua relazione con i corpi degli animali non umani e con il corpo della terra, gli ecosistemi, i fiumi, le montagne. “La mia concezione è di un corpo che si espande (…) andando oltre i margini della pelle, (…) una continuità magica con gli altri organismi viventi che popolano la terra, (…) un corpo che riunisce ciò che il capitalismo ha diviso, (…) in armonia con il cosmo, in un mondo dove la diversità è un bene per tutti e una risorsa da condividere piuttosto che fonte di divisioni e antagonismi”.

Proprio per questo Silvia Federici parla di “militanza gioiosa”, scompaginando la dialettica tattica/strategia: è gioiosa questa militanza perché sa essere solidale, curativa e costruttiva già nel presente, anche se l’orizzonte di riferimento resta ovviamente il più vasto possibile, la prospettiva di un fare-mondo, di un reincantamento e una reimmaginazione di saperi e potenzialità ancora inespressi, per reinventare la vita come un ininterrotto processo di sperimentazione e ridefinizione di cosa significa essere umani al di là del capitalismo[5]. Coniugando gioia e rivoluzione, come cantava Demetrio Stratos.[6]

Addenda 3. Il tema del reincanto (che qui sposa le riflessioni di Fischer sulla plasticità del reale), oggi variamente declinato, va letto come risposta e dislocamento rispetto al tema del disincanto, colto non solo nella sua accezione classica, di weberiana memoria, ma anche, più prosaicamente, alla sua messa in opera in anni recenti. Nello specifico il riferimento va al periodo iniziato negli anni ’80 con la controrivoluzione neo-liberale con quel mix di rassegnazione, disillusione, frustrazione e depressione iniettati in più di una generazione circa la speranza di una reale trasformazione sociale.[7]

Per un partito dei corpi viventi

Se il punto d’avvio riguarda i processi di costruzione della realtà e da lì si è passati alla centralità dei corpi (di tutti i corpi) come luogo di conflitto, in direzione di una militanza nella gioia, il prossimo passaggio riguarda allora i concatenamenti politici possibili come risposta all’attuale economia-mondo. Una risposta ben attenta, come avvisava Bayo Akomolafe, a non replicare la crisi in cui ci aggiriamo. Qui funziona il discorso di Paul Preciado: i processi di soggettivazione si espandono, la fabbrica trasversale in cui si crea valore oggi, luogo centrale della lotta, gravita attorno a un insieme di corpi viventi: il corpo di uomini e donne, il corpo degli animali non umani, il corpo della terra. È bene chiarire che il corpo a cui ci si riferisce non è un oggetto anatomico o un organismo naturale, bensì uno spazio politico storicamente costruito. Per questo la politica ha bisogno di una nuova epistemologia del corpo vivente che non proceda più per separazioni e gerarchie, ma attraverso connessioni, disattivando l’universo semiotico in corso per favorire una riorganizzazione dei corpi e delle relazioni, fino a ridisegnare le relazioni tra corpo, sapere, potere e verità, trasformando in questa maniera il mondo che condividiamo con un’infinità di creature.[8]

Qui la composizione di classe (politica e tecnica) appare scompigliata, delineando il profilo di uno strano soggetto rivoluzionario che non separa più tra le varie forme di oppressione di classe, razziale, sessuale e di specie. A questo proposito Preciado parla di un nuovo proletariato composto da un vastissimo aggregato di corpi sfruttati, precarizzati, razzializzati, femminilizzati, disabilizzati, ospedalizzati, animalizzati, vegetalizzati, mineralizzati[9]. Una prospettiva che intende aprire scenari inediti in grado di superare tanto le identity politics che l’indirizzo intersezionale, cogliendo i molteplici effetti di codeterminazione in quanto le oppressioni non sono tra loro interconnesse attraverso sovrapposizioni o collegamenti esterni, ma il loro formarsi è il prodotto interno del concorso di azioni reciproche[10].

Da lì Preciado giunge a scuotere l’abituale nozione di soggetto politico con le rappresentazioni verticali e le implicazioni identitarie che recano in sé, proponendo di agire per processi e non per soggetti. Ne emerge un “partito dei corpi viventi”, un patchwork multiforme che apprende a socializzare, articolare e declinare l’eterogeneità e la differenza senza farne una sommatoria astratta, in grado di innescare nuove alleanze produttive di lotta e di comunità, ribadendo anche che nessun cambiamento di paradigma, nessuna utopia concreta si potrà dare senza quel partire da sé e da continue pratiche di trasformazione micropolitica. Preciado, riflettendo sulle azioni ruotanti intorno a processi e non a soggetti, giunge a parlare di pratiche mutanti, di corpi viventi che divengono simbionti politici (in biologia un simbionte è un corpo preso in una relazione simbiotica con altri organismi al fine di sopravvivere).

Addenda 4. Una prospettiva ecosofica e cosmopolitica non è una caratteristica riferibile esclusivamente alle popolazioni native che percepiscono il territorio in modo simbiotico, ben oltre la nozione di uno spazio piatto e burocratico, ma è rinvenibile anche in una serie di iniziative presenti in varie parti del pianeta contro le pratiche di un’economia estrattivista planetaria e trasversale – mineraria, agricola, urbana, animale e umana -, creando alleanze e riconnettendosi alla fitta rete del vivente.[11] Tutto ciò fa comprendere che sarebbe alquanto provinciale descrivere la globalizzazione in termini unidirezionali, tralasciando la presenza di una globalizzazione dal basso, l’emergere di storie e voci dissonanti e dissidenti provenienti da culture sommerse, l’insurrezione di saperi assoggettati che dialogano e si ibridano con altri pensieri e altre pratiche. Ad es. Mariarosa della Costa invita a riscoprire “l’indigeno che è in noi”, poiché il problema della riproduzione umana è oggi imprescindibilmente legato alle tematiche sollevate dalla popolazioni indigene, anzitutto in merito a questioni di ecologia sociale e politica.[12] Dal canto suo la giornalista e attivista brasiliana Eliane Brun ha coniato il verbo amazzonizzarsi riferendosi a una riforestazione dei mondi, quelli di fuori e quelli di dentro, avendo come orizzonte l’abbattimento dell’egemonia del pensiero occidentale, binario, patriarcale e bianco.[13]

Nuovi spettri, nuovi spiriti

Riassumendo: partendo dalla plasmabilità del reale e quindi dalla possibilità di altri mondi, abbiamo individuato nell’importanza dei corpi, nel loro posizionamento e nell’alleanza con altri corpi (i corpi degli animali non umani, il corpo della terra) il passaggio verso un differente agire politico, ma questa pratica apre un nuovo scenario, quello che, secondo la teorica femminista queer Gloria Anzaldúa, può essere descritto come un “attivismo spirituale”.[14] Questo riferimento alla spiritualità non è un caso isolato, riflette ad es. un elemento presente nel femminismo multirazziale e decoloniale contemporaneo, nell’intreccio tra lavoro interiore e lavoro sociale.[15] In fondo gli spettri si trovano a proprio agio con il soffio dello spirito.

Va al contempo riconosciuto che parlare di spiritualità per molti può essere motivo d’imbarazzo, l’irruzione inaspettata di un rimosso per un movimento sociale e politico che in passato ne negava l’esistenza, equiparando la spiritualità al clericalismo e alle istituzioni religiose, sostenitrici dello status quo. Oggi il quadro è in parte mutato o per lo meno è in fase di ridefinizione. Certo, abbiamo a che fare con una spiritualità radicalmente rivisitata. Ad esempio Mario Tronti ha parlato di una spiritualità conflittuale in grado di disordinare l’attuale ordine del mondo partendo dal basso e, in altra sede, sottolineava la necessità di tenere insieme la dimensione contemplativa con una di combattimento.[16]

Dal canto suo Anzaldúa presenta l’attivismo spirituale come una modalità che modifica il proprio rapporto con la realtà, a un tempo momento celebrativo e di lotta, espansione della percezione fino alla consapevolezza dell’intima relazione con ogni cosa, facendone emergere le implicazioni politiche. Anche qui una pratica che prende avvio dall’ascolto del corpo: a cominciare dal proprio corpo, disposto ad aprirsi a una prospettiva transpersonale, verso il corpo collettivo, il corpo interspecie, il corpo della terra, dove “sentire le connessioni diventa una premessa per l’attivismo spirituale”. In altre parole una spiritualità queer, una misticopolitica.[17]

A questo punto i processi cognitivi s’intrecciano: con un’epistemologia dell’interconnessione; con un’etica visionaria su base esperienziale, non fideistica; con un’assiologia a gerarchia orizzontale e non metafisica. Intrecci che  nel loro attorcigliarsi conducono verso pratiche orientate al cambiamento sociale. In questo modo l’attivismo spirituale, partendo dal riconoscimento che i tradizionali legami tribali (etnici, nazionali, familiari, religiosi ecc.) sono luoghi insufficienti a contenere l’esuberante pluralità del vivente, apre a un nuovo tribalismo, una politica di negoziazioni e alleanze che partono dal riconoscimento che siamo tutti/tutte attori/attrici in gioco, complici vulnerabili di ecosistemi altrettanto vulnerabili, “un insieme completo di interrelazioni – come scrive Anzaldúa – tra un reticolo di organismi viventi e i loro habitat fisici”.

Addenda 5. Oggi si parla variamente di spiritualità secolare, post-moderna o glocale, di transreligiosità e di esperienze transpersonali per descrivere la fisionomia che la spiritualità contemporanea va assumendo fuori dai consueti confini delle religioni istituite. Ci aggiriamo in un campo quanto mai composito. [18] Qui l’attenzione è rivolta verso esperienze dove immanenza e trascendenza sono inseparabili, manifestazioni di un’ontologia del divenire in cui la materia – una materia viva e intelligente – procede senza sosta a evolvere, trasformarsi e auto-organizzarsi.[19] Dove la spiritualità emerge dalla sfera dei bisogni e dei desideri umani, così come l’effetto di trascendenza e l’eccedenza di senso riferite alle pratiche spirituali poggiano su elementi materiali, sul vivere concreto basato su affetti, sensi, linguaggi, sostanze, luoghi, artefatti e tecnologie. In una parola: la spiritualità è materialista.

NOTE

[1] Bayo Akomolafe, bayoakomolafe.net/post/what-i-mean-by-postactivism e Queste terre selvagge oltre lo steccato, Roma, Exorma, 2023.

[2] Mark Fisher, Comunismo acido. Introduzione incompiuta, in Il nostro desiderio è senza fine, Roma, Minimum fax, 2020 e Verso l’Acid Communism. Presa di coscienza e post-capitalismo, effimera.org/verso-lacid-communism-presa-coscienza-post-capitalismo-mark-fisher/ .

[3] Per un approfondimento cfr. il mio Per una critica dell’economia politica degli stati di coscienza, “Altrove” n.23/2022. Circa l’ambiguità della psicofarmacologia e della psicoterapia psichedelica v. Maria Laura De Rosa, L’utopia psichedelica: rischi e controversie correlati all’utilizzo di sostanze psichedeliche nella pratica clinica, sullo stesso numero di “Altrove”.

[4] Silvia Federici, Oltre la periferia della pelle, Roma, D editore, 2023.

[5] Silvia Federici, Reincantare il mondo, Verona, Ombre rosse, 2018.

[6] youtube.com/watch?v=Gi5naNpDklE.

[7] Sul tema del reincanto cfr. Stefania Consigliere, Favole del reincanto, Roma, DeriveApprodi, 2020 e Materialismo magico, Roma, DeriveApprodi, 2023.

[8] Su ciò, partendo dall’appello zapatista per “un mondo in cui ci siano molti mondi” cfr. Isabelle Stengers, The Challenge of Ontological Politics, in A World of many Worlds, a cura di M. de la Cadena e M. Blaser, New York, Duke University Press, 2018.

[9] Paul B. Preciado, Dysphoria mundi, Roma, Fandango, 2023.

[10] Sul concetto di codeterminazione elaborato da alcune autrici femministe postcoloniali cfr. Daniele D’Ambra, Intersezionalità e codeterminazione, jacobinitalia.it/intersezionalita-e-codeterminazione/

[11] Barbara Glowczewski nel suo Alle ricerca degli spiriti della Terra (Roma, Sensibili alle foglie, 2023) descrive l’articolazione di queste iniziative nei termini di strategie ecosofiche per resistere al disastro.

[12] Mariarosa Della Costa, L’indigeno che è in noi, la terra a cui apparteniamo, in Camminare domandando. La rivoluzione zapatista, a cura di A. Marcucci, DeriveApprodi, Roma,1999.

[13] Eliane Brun, Amazzonia. Viaggio al centro del mondo, Palermo, Sellerio, 2023.

[14] Gloria Anzaldúa, Luce nell’oscurità, Meltemi, Milano, 2022.

[15] È quanto sostiene Sharon Doetsch-Kidder nella sua ricerca: Social change and intersectional activism. The spirit of social movement, New York, Palgrave Macmillan, 2012.

[16] Cfr. Mario Tronti, Lo spirito che disordina il mondo, in Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015, a cura di M. Cavalleri, M. Filippini e J. M. H. Mascat, Il mulino, Bologna, 2017 e (con Marcello Tarì) Xeniteia. Contemplazione e combattimento, dellospiritolibero.it/2023/12/16/xeniteia-contemplazione-e-combattimento/ .

[17] Rinvio a un paio di miei lavori: Misticopolitica. Orizzonti della spiritualità post-religiosa, Effigi, Arcidosso, 2022 e What is Mystic-politics?, politicaltheology.com/what-is-mystic-politics/.

[18] Per una prima panoramica cfr. Postmodern spirituality, a cura di T. Ahlback, Åbo, Donner Institute for Research in Religious and Cultural History, 2009.

[19] Su queste tematiche cfr. J. Revel, Transcendence, Spirituality, Practices, Immanence: A Conversation with Antonio Negri, “Rethinking Marxism”, n. 3-4, july-october 2016.

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