Pubblichiamo una recensione di Massimo De Angelis al libro di Stavros Stavrides “Spazio Comune. Città come commoning”, uscito da poco in edizione italiana per Agenzia X Edizioni. Il testo verrà presentato oggi, 27 maggio 2022, alle ore 18 presso lo spazio KinLab, Piazzale Segesta 3, a Milano. L’autore sarà presente in collegamento da Atene. Partecipano: Andrea “Mubi” Brighenti, Cristina Mattiucci e Claudia Faraone in conversazione con Emanuele Braga (MACAO) e Piero Maestri (Ri-Make)

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Credo sia molto importante proporre al dibattito italiano questo contributo di Stavros Stavrides soprattutto in un periodo dove, dopo una grande appassionata stagione d’amore sui beni comuni, in Italia sembra ora esservi meno interesse. Eppure, in piena guerra, e senza nessuna prospettiva all’orizzonte che la crisi ambientale e sociale  possa essere affrontata dagli strumenti in mano al potere, il comune e le sue derivazioni (commons, commoning, beni comuni) sono e rimangono tematiche centrali per pensare a e agire attraverso una trasformazione sociale emancipatrice dalle forme di dominio che riproducono il capitalismo.

Stavros Stavrides, architetto e attivista, è Professore di progettazione e teoria dell’architettura presso la Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, dove insegna corsi di laurea in progettazione abitativa, nonchéé un corso post-laurea sul significato dell’esperienza metropolitana. La sua ricerca è attualmente focalizzata su forme di emancipazione delle pratiche spaziali e spazi di condivisione. Questo suo Spazio Comune è la traduzione di Common Space il primo libro pubblicato nel 2016 nella serie In common che dirigo per Zed book (ora Bloomsbury), una serie che ha prodotto importanti riflessioni sui commons come strumento di superamento del capitalismo. Il libro problematizza lo spazio nella città come bene comune nel contesto della città delle enclave recintate e dominate dal potere. Basandosi sulla tradizione lefebvriana che vede lo spazio come prodotto sociale e impegnandosi con teorici come Foucault, Hardt & Negri, Zibechi, Turner e Rancière tra altri, Stavros Stavrides attinge a molti esempi contemporanei di lotte e messa in comune di spazi e risorse  per riflettere sul significato che il fare in comune (o commoning) assume per l’emancipazione dal dominio del capitale nella città contemporanea. Stavrides indaga il potenziale emergente dalla resistenza e le alternative create dagli abitanti della città identificando nel commoning la fucina di nuove soggettività e di relazioni spaziali organizzate in reti aperte che  aprono comunità ai nuovi arrivati, a dal quale emergono nuove possibilità e nuove regole di condivisione.

In questa recensione mi preme evocare alcuni importanti aspetti delle lenti teoriche e interpretative proposte dal libro, soprattutto nei primi due capitoli, lasciando al lettore  la scoperta di come queste lenti siano state ispirate da, e allo stesso tempo illuminano le, svariate pratiche discusse  nei restanti capitoli sulla questione dell’abitare, della comunalizzazione delle strade, delle lotte della stagione delle occupazione delle piazze, delle comunità indigene Zapatiste tra altre. In particolare, in questi capitoli Stavrides discute un’esperienza collettiva di porosità urbana in un complesso di edilizia popolare di Atene costruito nel 1935 per accogliere rifugiati dal’Asia Minore,  l’edilizia sociale, il rapporto tra commoning urbano e movimenti sociali, le strade come sito potenziale del commoning e contro la retorica della gentrificazione e del traffico razionalizzato,  le piazze occupate e la costituzione di una soggettività collettiva e un senso del “noi”.

Ma è nei primi due capitoli che si concentra il nocciolo dell’impianto interpretativo del libro,  che apre con uno sguardo alla città contemporanea, ai suoi spazi, a come questi vengono definiti e articolati attraverso i meccanismi del potere.   In breve, la città si presenta di primo acchito come un arcipelago di enclave, di spazi recintati, in un mare urbano che coordina il loro operare. In questa topologia, la città e pervasa dalle  tre forme di potere che Foucault analizza nella loro successione storica, il potere sovrano, il potere disciplinare e quello securitario. Nella città contemporanea però questi tre modelli di potere esistono come forme coesistenti, e come tali ordinano la spazio regolandolo.  Il potere sovrano è quello che definisce nettamente le enclave urbane, che le distinguono in modo tale da  tendere “ad essere mondi isolati”, il cui ordine spaziale “è garantito da regole che si applicano esclusivamente all’interno dell’enclave stessa” (24). Il potere sovrano qui si attua attraverso un potere amministrativo “che prescrive obblighi e modelli di comportamento, definendo così le caratteristiche degli abitanti, temporanei o permanenti che siano.”  Non fatichiamo a comprendere le distinzioni di queste enclave: condomini, gated communities, ma anche centri commerciali, uffici statali o di compagnie private, scuole, università, ospedali e cosi via, nella misura in cui appunto esse sono definite dal suddetto potere sovrano in quanto potere amministrativo.  Costruendo su Agamben, poiché le autorità giuridiche di ogni enclave (i managers, i presidi, i direttori e via dicendo) possono controllare ambiti di competenza statale attraverso un sistema di regole, queste enclave si presentano come “forme spaziali di uno stato di eccezione”  (p. 25) uno stato di eccezione la cui finalità “è una sorta di ragione di governo incentrata sull’efficienza, piuttosto che sui diritti” (p. 26) e che è normalizzato attraverso la ripetizione delle abitudini  quotidiane all’interno dell’enclave i cui abitanti tendono ad accettare come  una naturale procedura amministrativa. È nella ripetizione quotidiana di quest’ultima che troviamo il potere disciplinare, il quale complementa il potere sovrano della definizione dei confini delle enclave, con la definizione delle caratteristiche dei suoi utenti attraverso la collocazione e classificazione dei soggetti “non solo come soggetti di diritto . . . ma come membri di una specifica articolazione sociale che si riproduce attraverso le attività quotidiane.” (27-28). Sappiamo da Foucault che il potere disciplinare normalizza attraverso la capacità di vedere senza essere visto (come nel modello del Panottico), una capacità moltiplicata dalle tecniche di sorveglianza odierne sia dentro le enclavi che fuori, nel mare dell’arcipelago urbano.  Ma questo mare, “sebbene appaia come ordinato dalle regole del traffico e dalle pianificazione della circolazione” (30) è anche minacciato in forme e modi intrinsecamente imprevedibili.  A fronte di questa continua tensione con l’imprevedibile minaccia all’ordine, riusciamo a comprendere come le ragioni dello sviluppo capitalistico urbano legate alle opportunità di profitto e accumulazione, siano allo stesso tempo informate dalla necessità di mantenere e riprodurre quest’ordine di potere. Lo si vede per esempio nei progetti di gentrificazione, dove si programma la vita e la riproduzione, ma anche si rendono visibili i lati più nascosti alla sorveglianza, o i grandi progetti legati ai mega-eventi, o alla recinzione di aree dello spazio pubblico per costruire nuove strade o centri commerciali, tutte queste  istanze di annessione di parti del mare urbano a nuove enclave. E quando queste forme di recinzioni non sono sufficienti a racchiudere la vita urbana, e conseguentemente a normalizzarla, allora ecco che si utilizza la terza forma di potere, quella che passa attraverso il meccanismo di sicurezza, che interpreta una realtà altamente complessa al fine di intercettare atti e comportamenti indesiderati, come per esempio il controllo d’identità alla ricerca di “immigrati irregolari”  da parte della polizia dentro il mare urbano. Ma la realtà urbana, non è un dato statico, è in continuo movimento, e la pianificazione volta alla normalizzazione del mare urbano “deve sempre riadattare le sue ambizioni, perché la realtà spesso sfugge ai modelli che cerca di imporre” (32) e “la flessibilità del meccanismo di sicurezza si basa soprattutto sulla sua capacita’ di apprendere dall’eccezione, incorporandola utilizzandola per riadattare modelli e previsioni”(34)  E qui il lavoro di Lefebre sulla ritmanalisi diventa   importante perché  le ritmicità della vita sociale “possono modellare i meccanismi di controllo, ma possono anche dare forma a pratiche che superano le regoli dominanti”. (33)

È su questo sfondo della città  come arcipelago di enclave, di spazi recintati prodotti dal potere in continuo tentativo di recuperare forme eccedenti, che si dipana il concetto del commoning produttore di spazi soglia, quest’ultimo forse l’aspetto chiave dell’analisi di Stravides. Ogni enclave infatti è un mondo in comune, strutture o forse, come preferisco interpretarli, sistemi sociali emogeneizzanti di razionalità e abitudini. Ma entro il medesimo processo sistemico che li riproduce risiede anche la possibilità di trasformarli in altri mondi in comune, mondi di commoning, cioè mondi “caratterizzati da modi di condivisione inclusivi e da forme di partecipazione attiva alla decisione sulle regole che li reggono”, mondi aperti sull’esterno.

L’uso del verbo “to common” nella sua forma continua “commoning” era in auge nel medioevo inglese, poi divenuto desueto, e infine “riscoperto” dallo storico Peter Linebaugh nel suo saggio The Magna Carta Manifesto del 2009 e da allora il suo uso è esploso nella letteratura sui commons in lingua anglosassone. È stato tradotto nel libro di Stavrides come “l’atto del mettere in comune”. Personalmente, preferisco tradurlo con “fare in comune” per tutta una serie di ragioni, la principale perché, come ho discusso nel mio Omnia Sunt Communia (2017, Zed books) esso è in fondo una forma di lavoro sociale che contrasta largamente con il lavoro astratto e sfruttato del capitalismo, una forma di lavoro sociale dove sono gli attori stessi del dispendio lavorativo a definire la “misura delle cose” della loro produzione collettiva, cioè a definire collettivamente il cosa, il quanto, il quando, il perché, il come e il chi della produzione sociale.  Nel libro di Stavrides questa dimensione  del commoning inteso sia come lavoro sociale sia come autogoverno della produzione sociale è enunciata (p. 40) ma non sviluppata, mentre invece altri aspetti importanti sono ampiamente trattati. Tuttavia credo che sia importante distinguere chiaramente il termine commoning in generale con un particolare tipo di commoning, quello politicamente importante e fondamentale che per esempio credo si presupponga in Italia nella definizione dei “beni comuni emergenti” (si vedano per esempio i lavori di Giuseppe Micciarelli), cioè a pratiche profondamente democratiche e inclusive che riproducono spazi aperti e porosi. Dovremmo forse trovare un nome per questo tipo di commoning, che so, un fare in comune emancipatore, per distinguerlo da quel fare in comune che Stavrides stesso, e prima di lui Hardt e Negri nel loro riferimento al “comune corrotto” (Commonwealth),  ha indicato.  In particolare, per Stavrides il commoning  “non è necessariamente un processo anti- o post- capitalista: esso infatti può anche sostenere comunità esistenti nella difesa di proprietà collettive, di carattere simbolico o giuridico” nonché “può creare aree di conflitto tra diverse comunità o società”. (43) Il problema per noi è identificare il tipo di commoning, di collaborazione, di comunicazione e di cooperazione che “possono sfuggire al comando e all’appropriazione” e distinguerle da quelle che “fanno parte dei processi di dominio e sfruttamento”. Questa distinzione importante che sia e su cui ritorneremo, apre però a  un’altra domanda e un’altro livello di complessità su cui credo occorra interrogarsi, e cioè se non sia anche vero che dentro il commoning corrotto non vi sia la presenza di pratiche di conflittualità che possono aprirlo e trasformarlo, così come dentro il commoning “emancipatore”, non vi siano razionalità e pratiche di valore che tendono a chiuderlo e renderlo funzionale al dominio del capitale. È questa una ragione che nel mio  Omnia Sunt Communia tratto i commons come sistemi sociali, i quali nella loro specificità, sono sempre inseriti in un ambiente, in un contesto dove il capitale esiste anch’esso come forza sistemica vis-à-vis i commons e il commoning che li riproduce. All’interno della specificità storica del  capitalismo di oggi, però la distinzione posta da Stavrides è un importante passo metodologico. La sua risposta alla domande di cosa distingue il commoning appropriato dal comando del capitale a quello situato oltre il capitalismo è che quest’ultimo “si amplia oltre i limiti di qualsiasi comunità in cui pur si radica e si sviluppa; in termini di collaborazione, ciò presuppone necessariamente una comunità di potenziali collaboratori in continua espansione. Sviluppare mezzi e regole per includere nelle pratiche collaborazione, cooperazione e comunicazione del commoning sempre nuovi partecipanti è il prerequisito più importante per superare i limiti che il capitalismo impone sia attraverso recinzioni e privatizzazioni sia attraverso crescenti controlli per il mantenimento del comando capitalista.” (44)

Questo ampliamento, questa protendersi del commoning verso l’esterno, verso il fare rete e in ultima analisi verso quello che ho chiamato il “boundary commoning” che amplia la scala dei commons, che ne aumenta gli spazi sottratti al capitale, in Stavrides è attuato attraverso  istituzioni del commoning nella misura in cui esse seguono tre requisiti:  comparabilità, traducibilità ed egualitarismo (o controllo dell’accumulazione del potere).

In primo luogo, occorrono istituzioni che permettano la comparabilità tra soggetti e pratiche diverse, moltidudinarie,  stabilendo una base di confronto continuo, inventando “forme di collaborazione basate non sull’omogeneizzazione ma sulla molteplicità” (46), evitando tassonomie rigide, e invece facilitando l’incontro tra differenze, e a creare “motivi di consapevolezza reciproca”.  Mentre questa comparabilità basata sul riconoscimento costitutivo delle differenze è “la forza motrice dell’espansione del commoning” (47) occorre affiancarla alla traducibilità che “crea il terreno per una negoziazione tra le differenze, senza ridurle a denominatori comuni predeterminati”. Le pratiche di traduzione sono forme di inventiva continua dentro il commoning, creano un mondo comune in cantiere, permettono di intrecciare il riconoscimento reciproco tra soggetti con esperienze diverse, e di stabilire un’avventura intellettuale (Rancière), o forse un commoning cognitivo e affettivo necessario alla costruzione di nuove soggettività collettive. Infine, in terzo luogo, “affinché un’istituzione sia in grado di supportare un’apertura costante dei circuiti di commoning servono dei meccanismi di controllo di ogni potenziale dinamica di accumulazione di potere, sia da parte degli individui che dei gruppi” (49) in modo tale che la condivisione, principio guida dell’autogestione, diventi in questo senso condivisione egualitaria. Stravides suggerisce anche la pratica del dono per ampliare la condivisione egualitaria, un idea di dono che va oltre quella studiata da approcci antropologici e che si basa su obblighi reciproci che eufemizzano asimmetrie di potere, ma forme di dono che “trasgrediscono radicalmente i calcoli centrati sui vantaggi personali o di gruppo” e che possono aprire a “forme di unione e solidarietà nuova.” (53)

Attraverso questi tre principi  le istituzioni e le pratiche del commoning possono non solo prefigurare una nuova società e una nuova forma di cooperazione sociale, e attraverso le sue dinamiche costruire nuova soggettività,  ma anche estenderla dentro l’arcipelago di enclave delle nostre città.

È a questo punto che Stavrides definisce la sua idea centrale di spazio comune come soglia, uno spazio comune che si presenta come poroso verso l’esterno, in continua costruzione attraverso dinamiche inclusive sia interne che esterne e “che vuole arricchire gli scambi tra i propri membri, oltre che quelli con altre comunità.” (59)  Spazi comuni che contrastano l’urbanità delle enclave. Gli spazi-soglia aprono l’interno verso l’esterno “stabilendo aree intermedie di attraversamento” e quindi “simboleggiano tutta la potenzialità’ della condivisione” regolando e dando senso “agli atti di passaggio” (60),  sfuggendo all’ordinamento normalizzante dell’arcipelago delle enclave. Creando senso nella connessione tra dentro e fuori, e quindi fornendo la precondizione della costituzione di nuove sistemi sociali su queste basi, gli spazi-soglia evocano le divinità che gli antichi mettevano sugli usci, o nelle porte della città — si pensi al Giano bifronte dei romani — “proprio perché il passaggio è l’atto che crea la potenziale connessione tra dentro e fuori.” Una connessione che può appunto essere costituente del nuovo, di una nuova società e di nuova soggettività, di una comunità di commoners “come una comunità in grado di sviluppare nei sui membri un sentimento di condivisione di qualità comuni “ (63) che nei suoi studi l’antropologo Turner definisce come tipica dei fenomeni liminali quali feste o carnevali, e che crea communitas — distinta dalla comunità in quanto è “un’esperienza collettiva eccezionale che si verifica quando si perdono, si trascurano, si aggirano, si ignorano o persino si sfidano apertamente le forme di distinzione sociale.”(62) È nella creazione di questa communitas turneriana che “una comunità di uguali emerge dalla capacità di definire in modo autonomo una vita in comune.” (63). Una città di soglie, è alla fine una città fatta di eterotopie — cioè luoghi dove le differenze si incontrano —  e che si presenta come alternativa potenzialmente dirompente e perforante della città delle enclave.

(Maggio 2022)

 

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