A partire dalla recensione di Valerio Romitelli al libro di Didier Fassin, Ragione umanitaria. Una storia morale del presente (DeriveApprodi, traduzione di Lorenzo Alunni, 2018), pubblicata su Effimera qualche giorno fa, si è sviluppato un dibattito. Ecco dunque un commento di Salvatore Palidda e la risposta dello stesso Valerio Romitelli

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Commento di Salvatore Palidda

Vorrei richiamare alcuni aspetti cruciali a mio avviso ignorati nella recensione di Valerio Romitelli sull’ultimo libro di Dider Fassin (Ragione umanitaria. Una storia morale del presente, pubblicato da poco in Italia per DeriveApprodi).

Didier Fassin è un autore iper-prolifico, ma la “trilogia” su cui essenzialmente si basa il suo lavoro è composta da questo libro sull’umanitario, da quello sul carcere e da quello sulla polizia (assai criticato dagli esperti del campo). L’articolazione di questi tre campi di ricerca fa emergere chiaramente una prospettiva di antropologia politica che prende le distanze da autori che in questi ultimi decenni sono stati i riferimenti più importanti, ossia Foucault, Goffman e Bourdieu. En passant si nota bene che Fassin non ha una classica formazione in scienze sociali e che, per esempio, sembra non conoscere Marcel Mauss, il padre dell’antropologia francese, molto importante anche fra i classici a livello mondiale. Ma, la ragione di questa presa di distanza da autori considerati essenziali per la critica del discorso dominante non è del tutto esplicita, ma si capisce bene: Fassin aspira a porsi come il nuovo maître-à-penser che salverà la democrazia in Francia e forse anche a livello mondiale.

Non è per nulla casuale che la spiegazione del governo umanitario che propone Fassin sia insoddisfacente, ossia incapace di esplicitare ciò che, con Foucault e Bourdieu, è l’epistemologia della costruzione del discorso del dominio e quindi di tale governo umanitario – ossia la decostruzione sistematica ma che si fa attraverso una rigorosa osservazione, descrizione e quindi elaborazione di ipotesi interpretative.

Fassin si limita a dire che il “governo umanitario” sarebbe la risposta che le nostre società hanno dato a ciò che in esse vi è di intollerabile. Ben altre analisi del fenomeno umanitario (e ben precedenti a quelle di Dardot e Laval, citati da Romitelli, ma che io non conosco) hanno mostrato che si tratta più precisamente della conversione neoliberista (e non neo-liberale) di quell’“umanitario”, noto sin dal XIX secolo e anche prima (che accompagnava il colonialismo come le guerre) e quindi molto funzionale al riassetto del dominio e alle sue articolazioni “glocali”.

L’umanitario neoliberista non solo è indispensabile alle guerre, ma fa parte del produrre business neoliberista. Si pensi a quello che è successo in Iraq e alla trentina di antropologi reclutati dal generale Petraus per la guerra in Afganistan. Si veda anche l’ottimo articolo di Nicola Perugini, e sua bibliografia, che Fassin sembra non conoscere. Per certi versi, esattamente come l’accompagnamento del colonialismo, e poi anche delle emigrazioni da parte dei religiosi europei, ha prodotto ricchezza per il potere finanziario della chiesa cattolica e protestante.

Romitelli critica questa “lacuna” di Fassin come “vaga”, “disattenta”, ma secondo me sbaglia quando dice che tale disattenzione riguarda “il definitivo dissolversi del “mezzo mondo rosso”: si ricordi che il dominio bipolare USA-URSS degli anni 1945-1989 ha massacrato ogni tentativo di autonomizzazione (in India, in Egitto, in Congo –assassinio di Lumumba fra i più emblematici- e con l’eterogenesi degli stati indipendenti) e ciò alla fine ha condotto al neoliberismo globalizzato.

Sempre secondo Romitelli, abbiamo “il diffondersi su tutto il pianeta del neoliberalismo” che però avrebbe solo una connotazione economico-finanziaria … viceversa io penso si tratti di una “rivoluzione” che chiude il “paradigma” della società industriale e dello stato-nazione per dispiegare un dominio articolato che intreccia finanziarizzazione, affari militari e guerre, nuove tecnologie e riproduzione dei disastri sanitari, ambientali ed economici. Fassin sembra ignorare che l’umanitario neoliberista non ha alcuno scopo di salvare vite umane. Ancor peggio: ignora che i 57 milioni di morti l’anno a livello mondiale sono dovuti a malattie da contaminazioni tossiche, disastri ambientali o pseudo-naturali ma anche a devastazione dei territori, guerre, incidenti sul lavoro e migrazioni disperate. Fassin dimentica che oggi, a livello mondiale, l’istinto di sopravvivenza (antitetico alla massimizzazione del profitto e conseguente distruzione a tutti i costi) fa proliferare le “resistenze”: dai NOTAV ai Mapouche ecc.

 

Risposta di Valerio Romitelli

Sono molto grato a Turi Palidda per le annotazioni critiche che ha avuto la premura di rivolgermi e alle quali rispondo insistendo su alcuni punti di disaccordo. Comincio dall’ultima obiezione, che mi sembra la più rilevante, quella secondo la quale condividerei la dimenticanza di Fassin a proposito dell'”istinto di sopravvivenza“, il quale “a livello globale” fa “proliferare le Resistenze” al neoliberismo, dai Notav ai Mapuche, ecc“. In proposito mi limito a ribadire la mia diffidenza, già manifestata nella recensione, rispetto alle “speranze in un costante “antagonismo sociale” immanente allo stesso sviluppo capitalista” e il richiamo “ad una maggiore attenzione alla qualità strategica delle effettive o supposte esperienze anticapitalistiche che non guasterebbe al vasto filone delle ricerche sociali ed antropologiche ad esse dedicate.”

In effetti, sono convinto che uno dei peggiori mali politici della nostra epoca, quella dominata dal neoliberalismo, non stia tanto nell’aggressività e nelle ipocrisie del capitalismo (che sono costanti), quanto nelle incapacità alternative di costruire e diffondere strategie e organizzazioni di portata egualitaria e universale, malgrado tutte le inevitabili rivolte, sì sempre più diffuse su scala planetaria (come dimostrano, ad esempio, le ricerche di Alain Bertho, ma spesso disperse o destinate a sconfitte più o meno gravi.

Tutto il contrario (secondo punto di disaccordo) di quanto avveniva nell’epoca diciamo pure “ideologica”, grosso modo durante i “trent’anni gloriosi” (1945/75), quando il “mezzo mondo rosso” era temuto o viceversa invocato come in espansione e, lungi dall’asfissiare ogni iniziativa anticapitalista, stimolava molteplici esperienze diversificate come il “movimento dei non allineati” o tutti gli esperimenti più o meno provvisori di socialismo antimperialista sparsi nel “terzo mondo”. Che si trattasse solo di un “dominio bipolare Usa/Urss”(come sostiene Palidda) è per me solo un pregiudizio, dalle chiare funzionalità ideologiche, che ho contrastato in più scritti, tra cui appunto quello che mi sono permesso di citare (L’amore della politica. Pensiero, passioni e corpi nel disordine mondiale, Mucchi, Modena, 2014). Dove provo anche spiegare: come tale epoca si sia alla fin fine esaurita soprattutto per cause interne, come sia inutile rimpiangerla, come meriti ancora bilanci approfonditi e come comunque non possa non rimanere un riferimento imprescindibile per nuove sperimentazioni politiche anticapitalistiche.

Un riferimento, questo, che invece è oggi essenzialmente rimosso (o coltivato solo da irredimibili nostalgici) anche grazie alla controrivoluzione neoliberalista, la cui portata culturale e intellettuale è da considerarsi certo ben altro e ben più che un fenomeno “economico-finanziario”, come Palidda mi imputa di vedere in modo riduttivo. È questa infatti un’ulteriore sua obiezione che mi pare poco mirata, dal momento che consigliando la lettura congiunta dei testi di Dardot e Laval e di Fassin chiaramente provo a dissuadere da qualsiasi visione univoca dei diversi tipi di perversione soggettiva promossi in nome dello stesso neoliberalismo – ora forse in procinto di entrare in una ulteriore fase di (de)generazione, dove le propensioni umanitarie si intrecciano a quelle “populiste”.

Ciò detto, concordo con Palidda nel non apprezzare la più o meno evidente aspirazione di Fassin a proporsi come “nuovo maître à penser che salverà la democrazia in Francia e forse anche nel mondo“. Ma diversamente da Palidda, non condividendo la prospettiva critica della “decostruzione sistematica”, non mi pare tanto soddisfacente sminuire l’antropologo francese emergente in nome di altri autori e contributi, precedenti e contemporanei. Piuttosto credo ci sia anzitutto da riflettere sul fatto che a fare di Fassin una star accademica mondiale basti la sua indubbia maestria nel condurre interessanti ricerche sul campo e nel destreggiarsi con disinvoltura tra i più svariati nodi problematici anche filosofici. Inquietante segno per me di un’epoca di estrema rarefazione della via intellettuale nella quale non pare neanche porsi la questione della costruzione di nuove impostazioni antropologiche all’altezza del presente.

 

Immagine in apertura: Migranti – soprattutto provenienti dall’Eritrea – si buttano da una barca sovraccarica e vengono soccorsi da una ONG, a circa 20 chilometri da Sabrata, in Libia (AP Photo/Emilio Morenatti, agosto 2016)

 

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