Torniamo nuovamente sulla vicenda che ha coinvolto Maurizio “Gibo” Gibertini pubblicando un articolo del magistrato Guido Salvini uscito su “Il Dubbio” del 12 dicembre scorso. Salvini, che rinviò a giudizio “Gibo” per il processo Custra (conclusosi con l’assoluzione) critica in modo netto la decisione di cancellare la proiezione del documentario su Paolo Gallerani dal programma della Casa della Memoria di Milano, proiezione inizialmente prevista per l’11 dicembre scorso, definendola senza mezzi termini censura. Nel suo articolo, con lucidità e onestà intellettuale, egli rivendica le sue scelte e il suo ruolo di magistrato inquirente, ma lo fa rappresentando il primato della “legalità” sulla “vendetta”. Un principio, quello riaffermato da Salvini, che oggi sembra non avere patria non solo nelle prese di posizione censorie nei confronti di Gibertini (o di chi si è trovato nella sua stessa sgradevole posizione), ma anche nell’applicazione oggi di provvedimenti penali, come l’attuale 41bis, che spesso configurano illegittime pratiche di tortura fisica e psicologica. Pubblichiamo quindi questo articolo nella speranza che anche le prese di posizione di Guido Salvini possano servire ad avviare una campagna contro quella logica che abbiamo chiamato del “fine pena mai” e contro un uso politico della storia recente dell’Italia repubblicana che vuole rimuovere una parte consistente dei suoi protagonisti e ogni possibilità di reale comprensione dei suoi passaggi, libera da ogni contingente strumentalizzazione e falsificazione.

Non condivido la reazione di rifiuto che alcune associazoni dei parenti delle vittime e di expartigiani hanno opposto alla della programmazione del documentario This Arm/ Disarm di Maurizio Gibertini alla Casa della Memoria, lo spazio che gestiscono su incarico del Comune.

Ho grande stima delle iniziative della Casa della Memoria e dell’Associazione Familiari delle vittime del terrorismo, iniziative cui ho spesso partecipato ma ritengo quella presa di posizione sbagliata.

Sono andato a rivedermi gli atti del processo per la morte del brigadiere Custra di cui avevo condotto l’istruttoria negli anni 80 individuando dopo una lunga indagine tutti gli sparatori di quel pomeriggio in via De Amicis.

Effettivamente Maurizio Gibertini, che avevo rinviato a giudizio, è stato assolto per il concorso nell’omicidio per non aver commesso il fatto e in appello anche dall’accusa di aver procurato, tramite Corrado Alunni, le armi ai partecipanti al corteo.

Gibertini era stato sino al 1977 militante dell’Autonomia della struttura milanese di Rosso ma alla fine le sue condanne, interamente espiate, hanno riguardato solo il reato di banda armata e alcuni episodi relativamente minori e comunque non fatti di sangue Quando l’ho interrogato nel 1987 nell’indagine sui fatti di via De Amicis Gibertini era già molto lontano da quelle scelte. Non era un pentito ma era ormai evidente il suo distacco dall’ideologia della lotta armata che aveva lasciato già tre anni prima del suo aresto nel 1980. Proprio per questo del resto né nei suoi confronti né nei confronti di tutti gli altri imputati, avevo emesso mandato di cattura per quelle accuse. L’indagine sulla morte del brigadiere Custra svoltasi nell’epoca della “dissociazione” dal terrorismo e in cui tutti gli imputati avevano accettato di ricostruire il loro ruolo, era già stata in sé, a distanza di dieci anni da quel tragico pomeriggio del 14 maggio, un momento di riconciliazione. Tra l’altro il documentario di Gibertini è dedicato al lavoro di uno scultore, Paolo Gallerani, che ha denunciato con le sue opere in lamiera, fil di ferro e altri materiali comuni le guerre e la violenza distruttiva delle armi. Nulla aveva a che fare con gli anni 70 e quindi non era un momento di protagonismo di un ex- terrorista ma di cultura. In fondo proprio la scelta di presentare il documentario alla Casa della Memoria era un segno implicito di rispetto e di dialogo con le vittime e avrebbe potuto diventare un momento di riflessione e di riconciliazione. Sarebbe stato meglio così. Un’occasione persa e la sensazione poco gradevole di un rifiuto che assomiglia, a distanza di 30 più di anni, ad una ingiustificata censura.

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