Emanuele Leonardi recensisce il libro di Salvo Torre “Contro la frammentazione. Movimenti sociali e spazio della politica” da poco uscito per Ombre Corte. Occasione questa per un bilancio sullo stato dell’ecologia politica in Italia e sull’attività di Effimera in questo campo.

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Sono passati due anni e mezzo dal primo articolo pubblicato da Effimera nel box di ecologia politica: alla vigilia dell’Accordo di Parigi, Cristina Morini commentava lucidamente un’esaustiva sintesi statistica dei mali della Terra. Da allora questo spazio ha ospitato due dibattiti molto vivaci – uno sull’antropocene, l’altro sulle forme di un possibile rapporto tra operaismo e decrescita – e più in generale ha rappresentato un punto di riferimento per le discussioni in lingua italiana attorno al tema della politicizzazione della crisi ambientale.

A giudicare dalle occasioni di confronto succedutesi negli ultimi mesi e dalle iniziative già calendarizzate per il futuro prossimo mi pare che lo stato di salute dell’ecologia politica in Italia sia più che buono: nella prima parte del 2017 Officine Filosofiche e Millepiani hanno animato un ricchissimo ciclo di seminari intitolato Ecologie politiche, parzialmente confluito nel retreat Guattari tenutosi a Testalepre, nel Chianti (settembre dello stesso anno). Su un versante più accademico, l’autunno ha visto la nascita del gruppo di studio Politica Ontologia Ecologia, coordinato da Luigi Pellizzoni presso l’università di Pisa. Per quanto riguarda il 2018, si è da poco concluso una sorta di “tour” italiano di Jason Moore, intellettuale di riferimento dell’ecologia-mondo, che ha toccato Ragusa, Padova (Sherwood Festival) e Napoli. Di quest’ultima tappa, organizzata tra gli altri da Stefania Barca e Nicola Capone, ci rimane un orizzonte tangibile perché il Laboratorio Ecologie politiche del presente organizzerà per l’autunno un vero e proprio corso presso l’Istituto italiano per gli studi filosofici. Già a settembre, tuttavia, vanno segnalati due appuntamenti imperdibili: l’uscita del numero 41 della rivista Millepiani (Per una teoria ecologica) e il retreat Haraway a Testalepre.

È in questo contesto di grande vitalità che va inserito il libro di Salvo Torre “Contro la frammentazione”, uscito pochi mesi fa per l’editore ombre corte – che ha giocato un ruolo assai significativo nella vicenda richiamata qui sopra. L’impressione è che Torre chiami a raccolta gli spunti dell’elaborazione collettiva esplosa negli ultimi anni per avanzare un’ipotesi certo ambiziosa ma non per questo meno necessaria: è sul terreno ecologico che i conflitti sociali del XXI secolo potranno trovare la propria composizione politica. Il punto di partenza è una constatazione difficilmente smentibile: il rapporto tra sviluppo capitalistico e salubrità ambientale ha oltrepassato una soglia critica e raggiunto quindi un punto di non ritorno: “Lo sfruttamento e la riorganizzazione della natura per le finalità proprie delle strutture economiche umane sono tra questi. Dopo oltre quarant’anni di dibattito sulle crisi ecologiche, appare evidente ormai che la sequenza di crisi che adesso colpisce l’intero sistema planetario non può avere altri sbocchi che un mutamento in tale relazione. O si conclude la storia del sistema di sfruttamento autoreferenziale che ha generato anche le forme attuali dell’organizzazione sociale o muta pesantemente la distribuzione delle risorse della biosfera” (p. 11).

Di fronte a questo aut-aut, la cui portata è certo epocale, conviene tuttavia non lasciarsi sedurre dalle sirene catastrofiste e mantenere una certa freddezza analitica: “Nel complesso sembra emergere un processo di costruzione inclusiva del mondo che può rappresentare un elemento di novità assoluta per l’identificazione di nuovi orizzonti politici. Perché presuppone il superamento dei modelli gerarchici di provenienza europea e si muove su un terreno che non è più quello della razionalità occidentale, in molti casi definisce il lavoro umano in termini di assoluta novità, vincolati alla dimensione biologica e alla perpetuazione delle risorse” (p. 14).

Per cogliere il carattere inedito di questa possibilità Torre innesta la sua riflessione sul piano tracciato dal celebre studio sui movimenti antisistemici di Arrighi, Hopkins e Wallerstein del 1992. Seguendo la sintesi operata da Arrighi stesso in una articolo del 2003 si possono mettere in evidenza cinque punti:

a) da metà Ottocento in poi – in concomitanza con l’espansione accelerata del capitalismo – l’opposizione di classe assunse carattere permanente ed elaborò obiettivi di medio e lungo termine.

b) Nel contesto di questa istituzionalizzazione conflittuale, le due tipologie di opposizione largamente maggioritarie furono rappresentate dai movimenti sociali (che definivano l’oppressione in termini di classe) e dai movimenti di liberazione nazionale (miranti all’autodeterminazione dei popoli). All’interno del primo gruppo va inoltre situata la frattura che a partire dalla prima guerra mondiale ha separato partiti socialdemocratici e partiti comunisti.

c) Gli obiettivi a medio termine di questi movimenti sono stati in gran parte raggiunti: in molti paesi centrali la socialdemocrazia ha svolto funzioni di governo, in molti paesi semiperiferici i comunisti hanno preso ed esercitato il potere, in molte ex-colonie i nazionalisti hanno saputo imporsi. Tuttavia, lo stesso successo non è stato riscontrato per quanto riguarda l’obiettivo a lungo termine di questi movimenti antisistemici, cioè l’estirpazione della disuguaglianza.

d) Una nuova tipologia di movimenti antisistemici emerge a partire dal Sessantotto: benché essa sia stata incapace di imporre i propri obiettivi di fondo, il suo contributo rimane fondamentale nel determinare la crisi del modello fordista. Alcune dinamiche progressiste da essa innescate, inoltre, rimangono operative fino al passaggio di secolo – tra le altre, la riduzione della forza disciplinare delle imprese nei confronti della forza lavoro e l’allentamento delle politiche di esclusione sociale rivolte ai giovani, alle donne e ad altre minoranze.

e) Tali trasformazioni hanno inceppato il meccanismo della riproduzione capitalistica (fondata sulla subordinazione sociale e politica della classe operaia) e, per questa ragione, non hanno prodotto un miglioramento tangibile – quantitativo – del benessere della maggior parte della popolazione.

A questa analisi Torre aggiunge due ulteriori movimenti antisistemici: quello altermondialista e quello dei primi anni Dieci del XXI secolo (Primavere Arabe, Indignados, Occupy! – ma anche il doppio passaggio dell’Onda, per quanto riguarda l’Italia). Osservando questi cicli di mobilitazione Torre osserva che: “il dato principale è sicuramente l’estensione planetaria dello spazio politico di riferimento e un allargamento privo di precedenti delle categorie e gruppi sociali inclusi nelle rivendicazioni. Si tratta di una fase in cui i movimenti assumono necessariamente una dimensione globale, anche quando rivendicano questioni direttamente riferibili all’area in cui si muovono, soprattutto come reazione all’espansione dei sistemi economici. Le esperienze locali però sono diventate in modo evidente parte di un dibattito planetario, tutte le espressioni politiche dei movimenti hanno avuto una grande attenzione e un diretto riferimento in altri paesi” (p. 26).

Questi movimenti presentano inoltre “alcune significative differenze rispetto al passato, nella composizione degli appartenenti, nella capacità di costruire nuovi spazi, nelle rivendicazioni, soprattutto per quanto riguarda la crisi ecologica globale” (pp. 26-27).

È sulla base di questo profondo legame tra forme contemporanee del conflitto e tematica ambientale che Torre sviluppa un’ipotesi politica volta a porre rimedio al principale elemento di fragilità dei movimenti antisistemici del XXI secolo – vale a dire la frammentazione, l’incapacità di costruire un orizzonte istituzionale che sappia dare continuità e durata alla critica anticapitalistica. Semplifico: l’ipotesi è che la sfida ecologica non sia soltanto un fronte di lotta tra gli altri; essa si presenterebbe anche come tessuto connettivo delle istanze conflittuali che si sono sviluppate in concomitanza con l’espansione del modello neoliberale e che sono deflagrate a partire dalla grande crisi del 2007-2008. Scrive Torre: “La potenza espressa nelle esperienze attuali concorre alla definizione generale di un nuovo territorio, il pianeta, e di nuove forme dell’articolazione sociale, le comunità ecologiche. La potenza insita nell’idea del vivente si contrappone certamente al puro dominio del potere necropolitico analizzato da Mbembe. I conflitti socioecologici non sono dunque una categoria specifica, così come non lo possono più essere i movimenti per la giustizia ambientale, tutti i movimenti hanno una caratterizzazione socioecologica, perché tutti i processi in atto comportano ormai crisi ecologiche e soprattutto perché l’unica alternativa rimasta prevede la riformulazione di un’etica politica del vivente, in opposizione ad un progetto di dissoluzione che non potrà prevalere a lungo” (p. 85).

Credo che dal punto di vista della teoria politica l’ipotesi formulata in Contro la frammentazione sia tra le più interessanti degli ultimi anni. Andrà approfondita, certo, ma segna una soglia al di qua della quale non val più la pena di sporgersi. Mi limito dunque, in conclusione, a proporre un rapido elenco di questioni che mi auguro possa accompagnare lo sviluppo di quest’ipotesi del vivente come progetto di ricomposizione: il mutevole rapporto tra produzione di valore e produzione di natura; l’analisi delle affinità e frizioni tra crisi finanziarie e crisi ecologiche, nonché tra territorialità urbana e sostenibilità; le politiche della materia messe in atto dai nuovi movimenti contadini; la connessione tra welfare del comune (commonfare) e salvaguardia ambientale; l’emergere di una dimensione quotidiana ed esistenziale dell’ecologia politica; la nuova centralità – a ogni livello – della sfera della riproduzione sociale.

Buona inchiesta militante a tutt* noi.

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