Ripubblichiamo la recensione tratta da Alfabeta2 di Cristina Morini all’ultimo libro di Carlo Formenti (“La variante populista”, DeriveApprodi, Roma). Ci sembra ponga una serie di interrogativi di attualità. Il tema del populismo è inteso da Formenti come nuova e moderna espressione della composizione politica di classe. Nella replica di Formenti, si legge: “È nel campo populista che i comunisti… si giocano oggi le chance di contendere l’egemonia ai vari Trump, Le Pen e soci”. 

Tale affermazione non coglie, a nostro avviso, l’essenza del problema, quello della definizione attuale di ciò che Formenti chiama “composizione di classe”. Un concetto che sembra rimanere inalterato, a prescindere dell’evoluzione della  composizione tecnica del lavoro. O, forse, si potrebbe dire meglio, della composizione sociale del lavoro. Qui sta il problema. Oggi la prestazione lavorativa ha mutato la propria composizione sociale, ovvero il suo poter essere definita “classe sociale” con precisi confini, a seguito delle innovazioni tecnologiche introdotte dal paradigma dell’Ict, in grado di sviluppare processi di soggettivazione che non si basano solo sulla ricattabilità della sopravvivenza (come è sempre è stato) ma anche, e soprattutto, sulla capacità di introiezione delle forme di vita e dei sentimenti. Il processo di soggettivazione della condizione “proletaria” (ovvero l’essere proprietari solo di se stessi e del proprie capacità lavorative – oggi skills esaltati dall'”economia della promessa”) definisce nuovi processi di sussunzione (leggi sfruttamento) del lavoro al capitale che vanno oltre la sussunzione reale ma, contemporaneamente, non sono esclusivamente assimilabili a processi di “despossession” (sussunzione formale). In questa situazione, parlare di “composizione politica di classe” in termini antichi e classici non ha grande senso… Riuscire a riempire di nuovi contenuti questa dizione dipenderà dalla capacità di leggere e interpretare il corpo e la mente del lavoro, non dalla scorciatoia stretta di un populismo che si fonda solo sulla sua “pancia”.

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Carlo Formenti è un intellettuale engagé che ci ha da tempo abituati a un anticonformismo e a curiosità particolari che lo spingono a rimettere, senza esitazioni, in discussione ogni cosa. Inclinazione, umbratile e sensibile, da osservatore instancabile e scrittore assai colto che non si contenta della dimensione del proprio tempo posto all’interno di una trama di rapporti, e risulta però, a lungo andare, meno affascinante e meno convincente se la si considera sul piano propriamente storico e interpretativo, cioè sul piano politico.

Con testi come Incantati dalla rete (2000), Mercanti di futuro (2002) e Cybersoviet (2008), è stato un acuto teorico della Rete e – probabilmente non gli piacerà – del capitalismo biocognitivo. Come tale l’ho conosciuto nel 1999 e parlammo anche del 14, il caffè zuccherato erogato dalle macchinette della pregiata fabbrica cognitiva Rizzoli dove entrambi allora lavoravamo. Le nostre figure bene interpretavano, su fronti in quel momento nostro malgrado antistanti, la trasformazione in atto nel lavoro cognitivo, sospeso tra antico e moderno, tra femminilizzazione dei contesti pubblici, scolarità di massa, rivoluzioni tecnologiche, una diversa divisione cognitiva del lavoro, un “conflitto tra strati superiori e inferiori”, tra gerarchie intellettuali, spesso maschili, con ruoli di potere, che si confrontavano con “strati emergenti”, spesso femminili, che puntavano a una “contaminazione” dei “saperi tra alti e bassi”, affrontando e combattendo le “corporazioni disciplinari” del lavoro, del pensiero, norme autoritarie e autoriali. Effettivamente, si trattava di soggettività eccedenti e autonome, che hanno sfidato la precarietà e poi vissuto, in concreto, anche i rischi della “proletarizzazione”, e la perdita di “chance di accedere ai livelli medioalti di reddito e status sociale” (i virgolettati sono tratti da Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pag. 177).

Mi rendo conto che lo smantellamento ulteriore dei diritti di cittadinanza (welfare, reddito, equità sociale) dentro la crisi infinita e l’infinita austerity europea, a colpi di Jobs Act e Loi Travail, rende la mia attuale precarietà meno aspra rispetto a quella delle generazioni dei precari dell’economia della conoscenza e non solo, anche maschi, che si sono velocemente succedute, le quali non hanno più accesso a forme di inclusione e sono costrette a spendere giovinezza ed energie – tra povertà materiale e ricchezza del lavoro e del sapere vivo – al servizio della cultura della start up, un mito che ha il potere di rovinarti la vita. L’ontologia precaria a cui abbiamo guardato e a cui ancora facciamo riferimento, individua, affatto astrattamente, il problema politico ed esistenziale – o meglio, esistenziale e dunque politico – incarnato da tale composita realtà del lavoro in quest’epoca. Politicamente, non c’è altra battaglia che non continui a sembrarmi più giusta di questa, perché mi/ci riguarda, non demanda ad altri, non è lontana, essa è nostra, ora e qui.

Formenti è stato un precoce anticipatore di ricerche e analisi sui processi in atto che pochi vedevano e pochissimi capivano. Ha indagato il rapporto tra neoliberismo e industria virtuale, dunque ha scavato in mezzo al cuore delle contraddizioni emergenti tra nuovi soggetti produttivi e nuovi rapporti di produzione. Gli si debbono critiche essenziali sulla relazione contemporanea con le nuove tecnologie, condotte ricostruendo le tappe genealogiche principali dell’affermazione del web anche a partire da indagini sul campo, tra quei knowledge workers di cui il capitale andava incorporando le “forme di vita sociali” (competenze, bisogni, desideri, affettività, tempo, insomma riproduzione, con un interessante sovvertimento della precedenza rispetto alla produzione tout court ) e dove lui stesso riconosceva tensioni, non ancora risolte, tra nuovi processi di fragilizzazione e nuovi margini di creatività e autonomia.

Tuttavia, già a partire da Utopie letali in un crescendo che tocca l’apice in un ultimo volume da poco uscito, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo (DeriveApprodi), sembra assillato dal desiderio di “regolare i conti”, liberandosi dagli inciampi di quella economia della conoscenza, di quel general intellect che lui stesso ha contribuito a studiare e a descrivere. In effetti, oggetto della polemica è, sempre più esplicitamente l’operaismo, retroterra di partenza dell’autore stesso: è necessario “archiviare l’operaismo”, dichiara. Per farlo, costruisce antitesi tra moltitudine e “popolo” o tra cognitariato e proletariato globale, evocando le masse operaie della Cina o del Sudamerica in una sorta di febbrile feticismo del “lavoro” produttivo e dell’economia reale – clangore d’acciai e forza muscolare – appoggiandosi a una stravagante confutazione del peso contemporaneo del terziario e dei servizi e al ruolo “potenzialmente antagonista” del “terziario arretrato” legato alla manifattura, contrapponendo il mondo “immateriale e leggero dei flussi di segni di valore, di merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano” al mondo “dei luoghi in cui vivono i corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività”.

In realtà, né il post-operaismo né altri (movimenti dei precari e dei lavoratori autonomi; femminismi; “la totalità dei nuovi movimenti”, come scrive l’autore) tra coloro che hanno guardato alle trasformazioni presenti e che sono tutti, al pari della “sinistra riformista”, destinatari delle critiche di questo libro, hanno stabilito a tavolino di concentrarsi sul lavoro bio-cognitivo e sui nuovi processi di accumulazione capitalistica: questo è semplicemente il tempo nel quale ci è stato dato di vivere. Inoltre, la ricerca spasmodica di un soggetto centrale delle lotte, di egemonia e di avanguardie è la preoccupazione centrale di queste pagine assai più che delle cure delle teorie sul capitalismo cognitivo-relazionale. Rispetto al precedente testo, il rebus attuale di Formenti è quello di assimilare la categoria di “blocco sociale” di Gramsci a quella di “popolo” di Laclau. Perora la causa del populismo di sinistra, la costruzione di un “popolo come comunità”, interrogandosi anche sul ruolo del leader che incarna “l’assoluta normalità dell’uomo di popolo”.

Riprendendo riflessioni molto percorse in questi anni, le forme di organizzazione a cui abbiamo guardato si sono ispirate (con tutti i limiti) alla complessità modulare delle vite precarie e alla odierna irriducibilità di ognuno/a a un unico e uniforme soggetto collettivo all’interno di un impianto verticale/gerarchico. Così come è più difficile operare un taglio netto tra manualità e intellettualità, egualmente continua a sembrare più utile puntare alla costruzione di alleanze, trasversalità e viralità piuttosto che pretendere di ritrovare, da qualche parte, soggetti unitari, soprattutto se fondati sull’identitarismo, come nel caso dell’ambiguo concetto di “popolo”. Non si tratta di cedere a un postmodernismo metodologico ma di osservare la realtà.

Le scorciatoie non si vedono e le eccessive semplificazioni, le interpretazioni sommarie, non aiutano: “Gorz, Negri e soci” hanno detto cose assai diverse tra loro, spesso discordanti; Carlo Vercellone e Laurent Baronian hanno già esaustivamente fatto proprie e attualizzato le critiche di Marx a Prodhon; dire che il capitalismo oggi gode di una rendita che sfrutta le reti sociali delle esistenze è cosa ben lontana dal parlare di una “intelligenza imprenditoriale che converte a profitto” con ciò “generando da sé le condizioni del proprio superamento”; strumenti come la “moneta del comune” non sono espressione di una stupida fiducia in una qualche tautologica liberazione ma tentativo di riappropriazione di una ricchezza inseparabile dai produttori, nella fine della società salariale. Le sfumature di un magma estremamente articolato, finiscono per essere ironicamente, e un po’ tristemente, ridotte a uno.

Vorrei rassicurare Formenti, come già si fece con una parte del marxismo ortodosso, anni fa: non si è evitato di guardare ai processi di industrializzazione e di taylorizzazione del lavoro cognitivo, con ciò che ne discende in termini di fatica dei corpi alle prese con la stimolazione continua dei device a cui siamo connessi, né ai violenti tentativi di “misura del fuori misura”, con pochi cedimenti alla “seduzione della smaterializzazione”. D’altro lato, è certo che i rider di Foodora (muscoli e bicicletta ma anche cervello e smartphone) sono comandati da un algoritmo che raccoglie a distanza dati statistici concernenti la quantità delle consegne eseguite, le velocità medie tenute, la rapidità nell’accettare l’ordine. E spesso lavorano con la partita Iva.

Il rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro si ridefinisce continuamente. È questa metamorfosi che occorre oggi indagare, tentativo di superare le contraddizioni poste dalla dinamica dei conflitti sociali che hanno innervato il Novecento e la crisi del paradigma taylorista-fordista-keynsiano.

La complicanza diventa allora – dentro questo nuovo tessuto, là dove anche la pista ciclabile è simbolica catena di montaggio e tutte e tutti siamo diventati “imprenditori” – provare ad “organizzare” la vita stessa allo scopo di rinsaldare i legami sociali e favorire processi di soggettivazione alternativi.

Riproporre le esperienze del populismo sudamericano, in una sorta di improponibile retaggio di un passato fuori contesto, mi pare inadeguato rispetto al nucleo del confronto che ci troviamo a dover affrontare: quello con la finanziariazzazione (il biopotere della finanza), da un lato, e quello con la mercificazione dei corpi “riproduttivi”, dell’ambiente e dei cervelli produttori di knowledge, dall’altro.

Come ha scritto Lea Melandri: “La sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato altri strumenti interpretativi, come se dopo il grande balzo operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la biopolitica, l’ambientalismo”.

I processi della riproduzione sociale diventano terreno di esame più prezioso e più fondante dei processi produttivi stessi, ribaltando una gerarchia storicamente consolidata. Da questo punto di vista le teorie del capitalismo biocognitivo dialogano con i femminismi contemporanei, a differenza di altri chiavi di lettura pervicacemente dicotomiche, che separano corpo e linguaggio, materia e vita psichica. Proprio su questo versante del lavoro cognitivo-relazionale, ovvero della riproduzione sociale contemporanea, del “lavoro socializzato”, del biolavoro globale, della “vita come plusvalore” si sono succedute riflessioni, che cercano di andare oltre le analisi già correttamente condotte sulla riproduzione legata al lavoro domestico e alla divisione sessuale del lavoro.

La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti è esplicita espressione, sempre con Melandri, delle “viscere razziste, xenofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi ma anche sogni e desideri mal riposti”.

Siamo ormai scivolati molto in là, la strategia suggerita da Formenti di puntare a una “variante populista” per organizzare la “lotta dei nuovi barbari, delle comunità di rancore”, è parte del programma di ogni destra e da pochi giorni pienamente operativa negli Usa di Mr. president Donald Trump. Nei prossimi anni, a tutte e tutti noi toccherà, probabilmente, “regolare i conti” con le macerie che verranno prodotte da masse di lavoratori impoveriti, maschi e bianchi, accecate da promesse reazionarie di ruolo e di ordine, che stanno calcando la scena e che verranno lanciate a bomba non contro l’ingiustizia ma contro i migranti, contro le donne, contro gli omosessuali. Contro le idee per le quali abbiamo combattuto e continueremo a combattere.

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