All’inizio di febbraio è uscito il primo numero di Lavoro vivo, trimestrale per ora disponibile solo in rete (www.lavorovivo.it/rivista ), ma a breve sarà anche materializzato in carta tradizionale; è una rivista per certi versi specializzata nel particolare campo giuslavoristico, ma che si distingue già alla nascita per alcune caratteristiche davvero peculiari. L’editoriale, senza firma perché condiviso da tutta la redazione, spiega che sono nati insieme lo studio legale e il periodico, con il progetto ambizioso di rompere la separazione, di riunire insieme, cooperando, la difesa tecnica dei lavoratori e la lotta politica. Questi sette avvocati vogliono costruire un esempio a supporto delle buone pratiche, fondare un’esperienza professionale solida sul piano dell’assistenza tecnica ma al tempo stesso in armonia con le esigenze di esistenza, di vita collettiva. La rivista si colloca, apertamente, senza finzione o stratagemma, nella cassetta degli attrezzi da usare per una migliore gestione del conflitto.

Non è, ritengo, un caso che questo esperimento sia nato e sia stato concepito a Roma. Nel pieno delle lotte che avevano quale protagonista l’operaio-massa (dal 1970 al 1980) il diritto del lavoro aveva Milano quale centro, quale laboratorio di pensiero, quale fucina di elaborazione, con una schiera neppure tanto piccola di legali decisi a portare lo scontro di classe nelle aule del giudizio civile. Non andava sempre bene, i successi si alternavano alle sconfitte, si era creata una evidente frattura fra magistrati progressisti e magistrati reazionari, fiorivano le polemiche. Ma al tempo stesso la capacità di costringere l’istituzione chiamata a giudicare a confrontarsi con le esigenze del proletariato metropolitano era un fatto politico, con una nuova giurisprudenza, con un nuovo uso della vertenza, e con inevitabili riflessi sui rapporti di forza e sulla stessa rappresentanza sindacale, del tutto presa alla sprovvista dalla piega degli avvenimenti.

Oggi il territorio milanese è diventato quasi marginale nella elaborazione giuslavoristica. Oggi il numero dei magistrati romani delle quattro sezioni lavoro è triplo rispetto a quello milanese (una sola sezione); e non è solo un dato quantitativo. Si è proprio spostato l’epicentro delle controversie anche sul piano della qualità, del contenuto, dunque della rilevanza degli interessi in campo. Nel bene e nel male (ovvero nelle vittorie e nelle sconfitte) è oggi Roma la cucina del diritto del lavoro. Probabilmente perché a Milano le grandi fabbriche sono state anche materialmente abbattute Probabilmente perché dove c’era la Breda non ci sono più operai costruttori di locomotive in una fucina, ma giovani precari malpagati che descrivono ai visitatori le torri di Ansel Kiefer. La merce immateriale e il dispotismo liberista hanno cambiato il quadro della situazione; nel tempo della comunicazione e della frammentazione, per un fenomeno forse contraddittorio eppure reale, lo scontro giudiziario con oggetto il lavoro si va concentrando, nella parte più significativa, nelle aule della capitale.

E così i nostri sette avvocati, decisi a percorrere la via delle buone pratiche, si sono fatti impresa, si misurano con le attuali necessità del conflitto. Lavoro vivo rifiuta a priori di essere rivista solo tecnica (anche tecnica probabilmente, ma non solo) e prende posto da una parte della barricata. Viene in mente la citazione diventata celebre: ovvero che a stare in mezzo c’è solo la barricata!

Ognuno può andarsi a leggere gli articoli, per giunta senza spendere un euro, usando la rete. Io mi limito a brevissime note.

Alessandro Brunetti (ripreso anche da Machina) affronta la questione del lavoro agile, dentro la pandemia ma pure oltre la pandemia. Riconosce che il fordismo è tramontato, si pone in questa diversa forma di estrazione del valore il problema della disconnessione. Mi permetta l’autore di osservare che la disconnessione è di fatto ribellione, che è possibile solo con la piena consapevolezza dell’insubordinazione; o si caratterizza come forma aggiornata di rifiuto del lavoro o non è percorribile, comunque non si può ritagliare un segmento libero quando il conflitto ha come oggetto la riduzione a valore dell’esistenza.

Gabriele Cingolo esamina il rapporto fra pandemia e lavoro illegale. Oltre tre milioni di irregolari: l’illegalità costituisce la norma, non l’eccezione. Tre milioni di irregolari, almeno in teoria, avrebbero una causa fondatissima da fare, quella per la regolarizzazione. Ognuno in media in un anno cambia due o tre posti, sarebbero sei milioni di cause, evento più prossimo al movimento surrealista che alla realtà possibile!

Chiara Colasurdo affronta il tema spinoso della rappresentanza, della frammentazione, di nuove forme possibili di sindacalismo per affrontare le necessità del momento. Intravede, ed è una bella suggestione pur se certo di non facile percorso, un sindacalismo della vita da contrapporre alla riduzione dell’esistenza a valore.

Salvatore Corizzo, pur ribadendo che il reddito deve essere universale e incondizionato, esamina i passaggi di un che fare nell’immediato, dunque di un più efficace incidere per contrastare l’astensionismo del legislatore, che nulla introduce per garantire una retribuzione oraria minima o per far fronte al crescente impoverimento dei lavoratori. Emiliano Fasan mette la lente sul disastrato settore turistico, con ferma critica della legislazione di sostegno varata durante il Covid. Andrea Matronola a sua volta tratta il punto di vista dell’handicap.

Infine Carlo Guglielmi entra, con passione e convinzione, nel grande contenitore della sofferenza psichica, inevitabilmente connessa al tentativo in atto di estendere il potere aziendale alla vita intera. Va nascendo e si va affermando una vera e propria teologia del lavoro. Il pluslavoro, nel porsi come elemento costitutivo del plusvalore, genera insieme una plussofferenza. Per chi, come me, si è formato politicamente sulla centralità del rifiuto del lavoro come pilastro del progetto politico, questa è musica; specie laddove il contrasto alla riduzione dell’esistenza a valore si vada a saldare con la strategia del rifiuto del lavoro capitalistico (o neo capitalistico, o liberista: ci siamo capiti). Non so se abbia gambe per camminare una proposta provocatoria, come quella di Guglielmi, di costruire il sindacato dei sofferenti. Spero sempre nel prevalere di un sindacato dei gaudenti, qui e ora, senza attendere la rossa provvidenza. Comunque: buona lettura!

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