L’emergenza Covid-19 ha scombussolato molti dei piani politici e teorici che hanno contrassegnato il dibattito negli ultimi anni. È stato un elemento di rottura in quell’ordine del discorso dominante che fino a oggi è stato in grado di imporre la governance politico-militare per il controllo e lo sfruttamento delle varie espressioni del lavoro e del sapere vivo contemporaneo.

Ha fatto riscoprire il valore del welfare, che oggi potrebbe mettere in campo la sua rivincita se le forze di sinistra battessero un colpo. Riporta di attualità il tema del reddito, seppur declinato in vari modi, più o meno temporanei (di emergenza, di quarantena), rompe la litania cara alla destra e alla Lega sul pericolo migranti (ora che il contagio viaggia dal ricco Nord al povero Sud). Insomma, molti luoghi comuni del potere sembrano vacillare di fronte a questa emergenza sanitaria.

Ma solo alcuni. Non siamo così ingenui da pensare che la struttura di comando venga messa in discussione. Per lo meno in Europa.

Il dibattito in corso su come fronteggiare l’emergenza a livello europeo lo conferma. È evidente che soluzioni nazionali non sono sufficienti e che diventa necessario, come minimo, un certo grado di coordinamento.

Due sono le posizioni a confronto e, come cercheremo di argomentare, nessuna delle due è sufficiente. La prima vede un primo accordo tra i paesi dell’area mediterranea e la Francia, la seconda unifica invece le posizioni del Nord Europa, Germania in testa. La prima privilegia un intervento europeo di sostegno tramite la possibilità per i singoli stati di emettere dei bond europei (giornalisticamente denominati Coronabond), garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti, Bei  (non dalla Bce), per finanziare la necessaria spesa in deficit per tamponare gli effetti recessivi e occupazionali della crisi recessiva in atto. La seconda, invece, chiede che si faccia ricorso al Fondo salva Stati (MES – ESM), in procinto di essere riformato.

Si tratta di filosofie molto diverse ma accomunate da un dato di fatto: i pilastri monetaristi e liberisti della costruzione economica e monetaria dell’Europa non vengono sostanzialmente intaccati

Cerchiamo di capire meglio il perché.

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È da anni che si discute (a parole) di uno strumento di finanziamento europeo delle politiche fiscali e sociali dei singoli Stati dell’Unione. Uno strumento che dovrebbe essere garantito dalla Banca Centrale e non dalla Bei. È infatti la Banca Centrale in grado di creare la liquidità necessaria per il suo sostentamento. Le politiche di Quantitative Easing (QE) avevano due obiettivi (oltre a quello di favorire la svalutazione dell’euro per sostenere il PIL dei Paesi europei più in difficoltà. E la cosa fino al 2017 – cioè fino ai dazi di Trump – gli è riuscita): tenere i tassi d’interessi sul debito pubblico sufficientemente bassi (obiettivo raggiunto, anche se non ha sempre costituito un ombrello efficace contro fiammate speculative – come quella seguita alle improvvide dichiarazioni di Lagarde) e favorire l’erogazione di credito all’economia reale per sostenere la crescita economica. Qui, invece, si è registrato un totale fallimento, dal momento, come era facilmente prevedibile, l’ammontare di liquidità creata a partire dal 2015 (pari a circa a 2.600 miliardi di euro, il 20% del Pil europeo ), lungi dal favorire gli investimenti, è stata invece una manna per i mercati finanziari a vantaggio, soprattutto, dell’attività speculativa: non è un caso che gli indici di borsa abbiano raggiunto, prima della crisi da Covid-19 i valori più elevati nella storia finanziaria del capitalismo. E crediamo non sia un caso che la Bce abbia finalmente deciso di immettere liquidità pari a 750 miliardi sino a fine anno all’indomani del tonfo più clamoroso delle borse (che perdevano sino a quel momento più di un terzo del loro valore). Era ed è questo, a mio avviso, l’obiettivo principale del QE (comprensibile dal punto di vista del comando capitalistico): alimentare i mercati finanziari in quanto motore del processo di accumulazione e valorizzazione contemporaneo.

Ciò di cui si ha bisogno in questa fase di emergenza sanitaria è tutt’altro. Se si vuole veramente far sì che la liquidità creata dalla Bce vada a finanziare politiche sociali, in particolare forme di reddito (il più possibile incondizionato), vi è una strada semplice e percorribile: consentire ai singoli stati e alle relative Banche Centrali nazionali (che costituiscono il board della Bce) di emettere eurobond che verranno acquistati dalla stessa Bce, sulla base di ciò che veniva fatto anni fa, prima di Maastricht, con le Operazioni di Mercato Aperto. In altre parole, consentire agli stati europei di aprire un conto-corrente di tesoreria presso la Bce per l’emissione egli stessi Eurobond.

Gli eurobond potrebbero persino essere emessi dai singoli stati con garanzia però comune. E – attenzione – in teoria potrebbero pure essere emessi da un gruppo di stati che si fanno mutua garanzia senza comprendere Olanda e Germania. Ciò che conta è che la BCE dichiari che se non fossero acquistati all’emissione rientrino nel PEPP (Fondo di pensione pan-europeo). In questa prospettiva le cose si farebbero interessanti…

Due sono le obiezioni che vengono avanzate. La prima è che in tal modo si rischia di innescare un processo inflazionistico, come quello che si era verificato durante la crisi fordista degli anni Settanta. Si tratta di un’obiezione del tutto fallace: oggi la moneta creata ex-nihilo con l’acquisto di titoli di stato è pura moneta-segno, del tutto smaterializzata. Il suo legame con la produzione reale è oramai inesistente, grazie proprio al ruolo assunto dai mercati finanziari, il vero ambito in cui si crea (e si distrugge) moneta. La teoria quantitativa della moneta (che definisce un rapporto tra crescita dell’offerta di moneta e aumento dei prezzi quando la produzione si avvicina alla sua massima capacità) oggi non ha più senso all’interno dei processi di valorizzazione bio-cognitiva e non serve fare distinzioni tra base monetaria e moneta. Lo dimostra il fatto che si stima che l’enorme ammontare di liquidità immesso sui mercati creditizi e finanziari abbia inciso sul tasso d’inflazione solo per lo 0,5%, al punto che ancora oggi il tasso d’inflazione europeo è al di sotto del limite del 2%.

La seconda obiezione è che non è possibile perché il Trattato di Maastricht lo vieta.  Qui sta la vera obiezioni di natura politica, non economica. Da questo punto di vista, appare paradossale l’articolo di Draghi sul Financial Times di qualche giorno fa, in cui si ammette la necessità di aumentare i deficit statali come unico strumento per combattere l’epidemia ma non si fa alcun cenno ai limiti giuridici che ne impediscono l’attuazione e soprattutto la sostenibilità nel medio periodo. Non è, infatti, meglio affermare la necessità di superare se non cancellare direttamente i vincoli posti dal Patto di Stabilità e di Maastricht? Altrimenti, una volta passata l’emergenza, si sarà costretti a ritornare alle politiche di austerity.

Ma non è sul superamento di Maastricht per avviare una riforma dell’Unione monetaria europea in senso più equo e progressivo che si discute in questi giorni. Qui sta l’ipocrisia in atto. Quando la presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen dichiara che i Coronabund sono uno slogan, al di là della gaffe comunicativa, non dice cose lontano dalla realtà.

La mancanza di coraggio della sinistra europea nel chiedere a grande voce una revisione del Trattato di Maastricht, approfittando dell’emergenza sanitaria, rischia di diventare un ulteriore esempio di come tematiche di equità sociale e progresso (come era successo per il reddito di cittadinanza, o meglio, di base) rischino di essere scippate e distorte dalle forze reazionarie e conservatrici.

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Ed è consci di questo, che i paesi falchi dell’Europa, di fronte all’ineluttabile riconoscimento della situazione emergenziale, propongono la loro alternativa, ovvero il ricorso al Fondo salva Stati. Si riconosce (più a parole che nei fatti) che gli Stati più colpiti dall’epidemia (in testa l’Italia) abbisognano di un aiuto. Per queste evenienze, dopo la crisi dei debiti sovrani europei del 2011, è stato creato un Meccanismo Europeo di Stabilità (MES o Fondo salva Stati), proprio per fronteggiare situazioni emergenziali.

Il MES è in fase di revisione. La sua nuova formulazione avrebbe dovuto essere deliberata lo scorso 16 marzo ma è stato tutto rimandato. Le nuove regole del MES impongono che se l’Italia dovesse ricorrere al Fondo salva Stati, sarebbe sottoposta ai giudizi sul debito (rimasti quelli di Maastricht: max 60% del rapporto debito/Pil, quando nel 2019 tale rapporto arriva a oltre il 136%!). In caso di giudizio negativo – qui sta la novità maggiore – viene chiesta la ristrutturazione del debito. La ristrutturazione del debito è una procedura che prevede un accordo con il quale le condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) vengono modificate per alleggerire l’onere del debitore. Nel caso di debito pubblico (Argentina e Grecia docent) ciò si risolve in un allungamento forzoso della scadenza dei titoli di Stato e/o in un dilazionamento nel pagamento degli interessi.

Qui l’ipocrisia raggiunge limiti impensabili. Se uno Stato ha bisogno di ricorrere al MES, in primo luogo, deve avere i conti in ordine e ottemperare i parametri sanciti dal Trattato di Maastricht. In ultima analisi, si tratta di fornire le garanzie richieste al prestito per essere sicuri della sua restituzione, secondo la più tradizionale filosofia commerciale tra privati. Se tali garanzie non sono verificate, allora è possibile un intervento di terzi per imporre politiche di ristrutturazione del debito, i cui costi imporranno sacrifici sociali ed economici al paese.

In tale contesto, difficile parlare di Unione Europea. Piuttosto di contratti mercantili tra i paesi membri secondo la tradizionale logica di potere.

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In questa situazione, è chiaro che la soluzione tampone dei Coronabond è sicuramente preferibile al ricorso al Fondo salva Stati. E se tali misure saranno in grado di consentire ai paesi maggiormente colpiti dall’epidemia Covid-19 un minimo di ossigeno, l’effetto sarà solo di posticipare nel tempo il rimborso della spesa ora effettuata.

Qui sorge un nodo economico e politico ancor più rilevante: l’inesistenza di una politica fiscale comune europea, in grado di muoversi in modo coordinato, sullo stesso piano, con la politica monetaria comune europea. Vengono così al pettine i limiti della costruzione europea, una costruzione più finalizzata a evidenziare le gerarchie geo-economiche tra i paesi membri che a favorire processi di inclusione e coesione sociale. Obiettivo possibile solo se si ha il coraggio di pensare all’istituzione di un nuovo welfare europeo (Commonfare europeo), fondato su principi comuni di imposizione fiscale e gestione di una spesa pubblica per la costruzione di un modello sociale adeguato alle trasformazioni del lavoro, sempre più centrate sulla precarietà e la vita messa a valore.