In questo articolo Éric Fassin, il più importante scienziato sociale francese nel campo dell’intersezionalismo, mostra come, in particolare negli Stati Uniti e anche in Francia, la cosiddetta “grande sostituzione” (cioè lo spettro del rimpiazzamento dei “bianchi” con “gli altri” agitato dai razzisti bianchi) si intrecci con il razzismo e anche l’antisemitismo assimilato all’antisionismo per difendere il genocidio dei palestinesi. In questo amalgama diventa cruciale anche la crociata contro l’intersezionalismo, il woke e ogni spazio che negli anni passati era stato conquistato dai non-bianchi, in particolare nelle università statunitensi. L’escalation di questo amalgama ultra razzista è esploso in reazione alla diffusa solidarietà che negli Stati Uniti è emersa come condanna dell’attuale genocidio in atto a Gaza. Si è allora scatenata la crociata sionista sostenuta dalle destre sino ad attaccare le e gli accademici neri costringendoli a dare le dimissioni. (Salvatore Palidda)

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Dall’antisemitismo …

L’uccellino viene liberato”. Il 28 ottobre 2022, Elon Musk ha annunciato la sua acquisizione di Twitter celebrando la libertà di parola. Da allora, l’incitamento all’odio ha avuto libero sfogo sul social network ribattezzato X, con l’incoraggiamento di quest’uomo più ricco del mondo. Il 15 novembre 2023, a un “ebreo conservatore della Florida” che denunciava la codardia degli antisemiti che si rifugiavano nell’anonimato di Internet, un account pseudonimo ha risposto: “Le comunità ebree hanno incoraggiato esattamente la stessa forma di odio dialettico contro i bianchi che vogliono far cessare contro loro stesse. Non me ne frega davvero niente delle popolazioni ebraiche occidentali turbate dalla presa di coscienza che queste orde di minoranze che esse sostengono per inondare il loro paese non le amino veramente molto. Volete la verità in faccia? Eccovela” Elon Musk approva inviando il messaggio: “È la vera verità”. Garantisce così milioni di visualizzazioni ad un post che verrà comunque cancellato per aver violato le regole della rete X. Il giorno successivo ha reagito l’Anti-Defamation League (ADL), fondata nel 1913 per combattere l’antisemitismo. Per il suo presidente, Jonathan Greenblatt, veterano della Casa Bianca con Barack Obama, “in un momento in cui l’antisemitismo esplode in America e si diffonde in tutto il mondo, è innegabilmente pericoloso usare la propria influenza per convalidare e promuovere teorie antisemite.” Poichè l’ADL denuncia la progressione degli interventi di odio da quando ha preso il controllo di Twitter, Elon Musk lo accusa regolarmente di… diffamazione. Per spiegare il suo sostegno alla carica antisemita, ha insistito ancora di più: “L’ADL attacca ingiustamente la maggioranza in Occidente, anche se sostiene il popolo ebraico e Israele. È l’incapacità, in virtù dei suoi principi, di criticare i gruppi minoritari che costituisce la loro principale minaccia.” Ma ha peraltro allargato il bersaglio: «È vero che non sono tutte le comunità ebraiche; non solo l’ADL.” In breve, non prende di mira tutti gli ebrei, ma certe categorie di ebrei in quanto tali. Cionondimeno, dei suprematisti bianchi l’applaudono. “E’ ciò che dicevamo a Charlottesville”, nel 2017, Nick Fuentes, “quando i manifestanti gridavano: “gli ebrei non ci sostituiranno!” “Questa è la versione antisemita del “Grande Sostituzione”, che contrappone i “sostituiti” (i bianchi) non solo ai “sostituti” (di colore), ma anche ai “sostituti” (ebrei). Lo ricorda il giornalista Yair Rosenberg su The Atlantic, in riferimento al massacro nel 2018 in una sinagoga di Pittsburgh; il terrorista scrisse allora che, se gli ebrei sostengono l’accoglienza dei rifugiati, è per “portare dentro invasori che uccidono il nostro popolo.” Insomma, le parole di Elon Musk confermano poi, senza ambiguità, il suo antisemitismo. Ciò è tanto più chiaro da quando il sito Media Matters ha rivelato il 17 novembre che su X compaiono annunci di grandi aziende accanto ad account che elogiano Hitler. Apple, IBM, Disney e altri hanno poi rinunciato ad affidare la loro pubblicità a questa rete. Elon Musk risponde con una “denuncia termonucleare” contro questa associazione critica nei confronti dei media; per lui il “male” non è il ritorno del nazismo; questa è la sua denuncia.

…all’antisionismo

Tuttavia, poche ore dopo, lo stesso Jonathan Greenblatt si è congratulato con Elon Musk sul social network: “Ecco un gesto importante e gradito da parte di Elon Musk. Apprezzo che sia lui a guidare la lotta contro l’odio.” Cosa spiega questa inversione di tendenza? Questo perché risponde a un altro post del proprietario del social network, in riferimento al conflitto in Medio Oriente: “decolonizzazione”, “dal fiume al mare”, e altri eufemismi, implicano inevitabilmente un genocidio. Gli appelli aperti alla violenza estrema sono contrari ai nostri principi e comporteranno la sospensione dell’account.” In altre parole, tutto accade come se la difesa di Israele cancellasse la denuncia di antisemitismo. Non è una coincidenza. Il presidente dell’ADL aveva infatti dichiarato l’anno precedente: “Vorrei sottolineare questo punto nel modo più chiaro possibile: l’antisionismo è antisemitismo.” Sgombrando ogni dubbio, per essere “cristallino”, ha presto qualificato questa affermazione in un’intervista al New Yorker. Resta che per l’ADL anche le manifestazioni pacifiche a sostegno dei palestinesi raddoppiano le cifre dell’aumento dell’antisemitismo dal 7 ottobre. Il 19 ottobre 2023, la riaffermazione di questa logica lo autorizza a richiamare uno dopo l’altro i suprematisti bianchi e le organizzazioni ebraiche di sinistra Jewish Voice For Peace e If Not Now, che manifestano con alcuni rabbini contro «un potenziale genocidio» a Gaza. Questa notizia è la prosecuzione di una storia. Dal 1974, in un libro di Arnold Forster e Benjamin Epstein, l’ADL ha denunciato un “nuovo antisemitismo” (un concetto che avrà un impatto significativo in Francia): accanto ai tradizionali discorsi di odio della destra, la guerra dello Yom Kippur è stata secondo loro il rivelatore di una riprovevole indulgenza, da parte della sinistra filoaraba (anche tra gli ebrei), per i discorsi ostili allo Stato di Israele. Ma c’è di più. L’equivalenza posta tra antisionismo e antisemitismo finisce per ridurre l’antisemitismo al solo antisionismo. Effetto perverso dell’attentato di Hamas: a Elon Musk l’ADL potrà così perdonare il suo complotto, anche se prende di mira gli ebrei, non appena si unirà alle posizioni sioniste. È proprio ciò che denuncia Michelle Goldberg, il 20 novembre 2023, sul New York Times: “Musk sembra aver imparato la lezione: l’ardente sionismo può servire di alibi per l’antisemitismo”, poiché spetta ai leader della comunità ebraica “renderlo kosher”. Sul Guardian, Sam Wolfson una settimana dopo si preoccupava di questa stessa aberrazione: “le associazioni che dovrebbero proteggere i diritti degli ebrei distolgono lo sguardo dall’ostilità verso gli ebrei finché questa è portata avanti dai sostenitori di Israele.”

Benyamin Netanyahu non si sbaglia. Il 18 settembre, durante la sua visita in California, aveva già mostrato il suo entusiasta sostegno a Elon Musk. Durante il loro scambio su X, lo proclamò non solo “l’Edison del nostro tempo”, ma anche “il presidente non ufficiale degli Stati Uniti”. È vero che il primo ministro israeliano, in difficoltà nel suo Paese per la sua antidemocratica separazione dei poteri, era allora in contrasto con Joe Biden, il presidente ufficiale. Indubbiamente per Benyamin Netanyahu, Elon Musk è stato un potente alleato. Ma non era impegnato in una virulenta campagna antisemita, non solo contro l’ADL, ma anche contro George Soros? L’incontro ha così dato modo a Elon Musk di giustificarsi: “Ovviamente sono contrario all’antisemitismo. Sono contrario al “anti-qualsiasi cosa”. È vero che si oppone sia all’antisionismo che all’antirazzismo. Due mesi dopo, il 27 novembre, è stata la volta del primo ministro israeliano ad accogliere Elon Musk in un kibbutz, uno dei teatri dei massacri del 7 ottobre; questa volta, nonostante le recenti polemiche, non si parla più nemmeno di antisemitismo. Il quotidiano israeliano di sinistra Ha’aretz è indignato: “Il disgustoso abbraccio di Elon Musk da parte di Israele è un cinico tradimento degli ebrei, sia dei morti che dei vivi.” Tutto accade come se l’antisemitismo non esistesse più se non sotto forma di antisionismo.

Due campi all’estrema destra

Negli Stati Uniti, Elon Musk rivela una divisione all’interno della destra radicale. Da un lato, il polemista Ben Shapiro, il cui Daily Wire va in onda dal maggio 2023 in streaming su X, difende Elon Musk – e lo fa da ebreo ortodosso. Già il 28 settembre, all’indomani del sostegno del padrone di X da parte di Benjamin Netanyahu, aveva convocato personalità ebraiche, compresi i rabbini, per difendere la sua emittente. Ha colto l’occasione per deviare l’accusa di antisemitismo verso “l’estrema sinistra, anche nelle migliori università dove viene insegnato che Israele è l’apartheid, uno Stato che non dovrebbe esistere.” A novembre, ammette Ben Shapiro, Elon Musk ha fatto per la prima volta “una grossa gaffe”: il post da lui citato avrebbe dovuto dire “di”, e non “delle comunità ebraiche”, poiché “la maggior parte delle comunità ortodosse”, a cominciare dalla sua, si oppongono (come Elon Musk) alle politiche sulla diversità (Diversity Equity and Inclusion, o DEI) e «all’apertura delle frontiere su base intersezionale» (sic). Avrebbe dovuto quindi chiarire che stava prendendo di mira gli ebrei “di sinistra” (liberali). Ma, secondo Ben Shapiro, ben presto fece proprio questo, nominando l’ADL. Tuttavia, i media che denunciano la vicinanza di Elon Musk alla “destra radicale” (alt right) sono proprio quelli che chiedono un cessate il fuoco a Gaza. Il loro antisionismo si trincererebbe così dietro l’accusa di antisemitismo, brandita anche contro Donald Trump. Grato, Elon Musk cita il suo video, nonché un post in cui accoglie che Jonathan Greenblatt e Ben Shapiro si siano uniti, nonostante le loro differenze, per sostenerlo. Cosa hanno in comune? Schierarsi con Israele. Tuttavia, è su questo punto che la destra radicale è divisa negli Stati Uniti. D’altro canto, infatti, le star del trumpismo prendono le distanze da Israele. In quest’altro campo troviamo Candace Owens, che per conto suo, seguita da 4,5 milioni di persone, ha scritto il 3 novembre: “Nessuno Stato, da nessuna parte, ha il diritto di commettere un genocidio. Niente giustifica il genocidio. Non posso credere che non debba essere detto, o che sarebbe considerato controverso dirlo.” A una settimana dall’inizio dell’offensiva contro Gaza, questo post viene ovviamente letto come una critica a Israele. Ben Shapiro, che lavora al Daily Wire, lo considera “vergognoso”. Ma un resoconto di “Repubblicani contro Trump” è furioso: “Dov’era quando lei lodò Hitler? O ha difeso l’antisemitismo di Kanye West?”

Certamente questa donna nera, musa ispiratrice della destra evangelica, gioca una carta antisemita contro Ben Shapiro, in risposta ai suoi attacchi: “Cristo è re.” Ma non è stato lui stesso a giustificare l’antisemitismo di Elon Musk? Negli Stati Uniti l’estrema destra si lacera sull’antisionismo e non dall’antisemitismo. Candace Owens concorda facilmente con Ben Shapiro nel denunciare gli ebrei “di sinistra”, responsabili, sostenendo le minoranze, di favorire la Grande Sostituzione. Perché il problema nel loro conflitto è Israele. E questo è ciò che ha fatto guadagnare a Candace Owens il sostegno di Tucker Carlson. FoxNews ha finito per licenziare questo editorialista razzista nell’aprile 2023. Ma ciò non ha impedito Donald Trump di offrirgli la vicepresidenza l’8 novembre: “ha un notevole buon senso”.

Tucker Carlson critica il sostegno degli Stati Uniti a Israele e all’Ucraina: come Candace Owens, è un isolazionista, in una tradizione che va da Charles Lindbergh a Pat Buchanan. Il 15 novembre l’ha invitata al suo spettacolo: “Tucker on X”. Come si può vedere, Elon Musk ospita entrambi gli schieramenti della destra radicale. Se Tucker Carlson simpatizza con le vittime di Hamas, paragona le reazioni empatiche che suscitano in quella che Candace Owens chiama “la lobby filo-israeliana” con l’assenza di emozioni di fronte a una “tragedia” che considera su scala più ampia: “Il nostro Paese viene invaso, proprio in questo momento, da milioni di giovani di cui non conosciamo l’identità. Probabilmente non gli piace l’America e ora vivono qui.” Tucker Carlson riprende quindi  Candace Owens. I generosi donatori che finanziano i campus della Ivy League vogliono tagliare i loro fondi quando lì risuonano discorsi anti-israeliani. Ma “dov’eri in questi ultimi dieci anni quando invocavano un genocidio anti-bianco?” Comincia a «odiare queste persone»: «I miei figli sono stati accusati di immoralità semplicemente a causa del colore della loro pelle, e sono stati i vostri soldi a finanziare tutto ciò.” In pieno accordo con Candace Owens, Tucker Carlson riprende, come al solito, tutti gli elementi della teoria del complotto della Grande Sostituzione, compreso il razzismo anti-bianco. In termini di antisemitismo è quindi lo stesso discorso di Ben Shapiro, contro gli ebrei di sinistra. Ma la linea di demarcazione è l’antisionismo. A differenza del campo isolazionista di Tucker Carlson e Candace Owens, l’altra destra radicale, quella di Ben Shapiro ed Elon Musk, è caratterizzata dal sostegno a Israele. Resta da vedere quale campo Donald Trump potrebbe favorire alla fine.

Razzismo nascosto

Da parte sua, il 17 novembre, la Casa Bianca ha condannato formalmente il post di Elon Musk. Andrew Bates, uno dei suoi portavoce, cita il post del giornalista Yair Rosenberg: “Questa è letteralmente la teoria sposata dal suprematista bianco per il suo massacro alla Sinagoga dell’Albero della Vita. E Musk approva”. E commentando che è «inaccettabile ripetere l’atroce menzogna all’origine del più mortale atto di antisemitismo nella storia degli Stati Uniti, soprattutto un mese dopo il giorno più mortale per il popolo ebraico dopo l’Olocausto.” Il collegamento è subito fatto con l’attentato di Hamas. Il post che ha scatenato la polemica attaccava gli “ebrei occidentali”; d’ora in poi si tratterà altrettanto di Israele, e quindi della notizia politica della guerra a Gaza, e quindi dell’antisionismo e allo stesso tempo dell’antisemitismo. Questo comunicato stampa denuncia senza dubbio “la promozione dell’odio antisemita e razzista”; ma, sebbene si tratti di Grande Sostituzione, il secondo termine cade subito nel dimenticatoio. È quanto emerge dal titolo del dispaccio dedicatole dall’AFP: “La Casa Bianca accusa Elon Musk di “abietta promozione dell’antisemitismo”.” Inoltre, come il suo post, l’articolo di Yair Rosenberg su The Atlantic risponde solo alla teoria del complotto, senza menzionare la Grande Sostituzione stessa. Come riassumeva nel titolo un articolo di Media Matters del 17 novembre: “È antisemitismo, stupido!” Nella polemica non ci sarà più la questione delle “orde di minoranze” venute a “inondare il Paese”, secondo il post che è all’origine della polemica, cioè un misto di xenofobia (contro gli immigrati) e razzismo (contro le minoranze). Tuttavia, questo è ciò che ha indignato Elon Musk lo stesso giorno, in risposta a un post dell’account @EndWokeness che mostrava “centinaia di immigrati clandestini che forzano il nostro confine” attraverso il Rio Grande. E per applaudire un altro post: solo ai bianchi sarebbe proibito, dalla storia dominante, di essere “orgogliosi della propria razza”; È quindi giunto il momento di porre fine a “queste bugie”. Chiaramente, il suprematismo bianco non si limita all’antisemitismo.

La “Grande Sostituzione”, nella versione originale di Renaud Camus (ideologo razzista), è uno slogan demografico. Come nella versione americana, anche lui cancella la distinzione tra immigrati e minoranze. Questo per difendere meglio i nativi francesi: un popolo di colore sarebbe sulla buona strada per sostituire un popolo bianco, portando ad un cambiamento di civiltà. Ma quella che chiamiamo teoria della Grande Sostituzione corrisponderebbe piuttosto a una versione cospirazionista, più diffusa nel mondo anglosassone, che attribuisce la responsabilità agli ebrei: George Soros sarebbe la figura paradigmatica di questi “sostituti”. Tuttavia, questo scrittore francese pretende di prendere le distanze da questa teoria del complotto: per lui il “sostituzionismo” non risulta da un complotto, ma da un processo sociale caratteristico della modernità. Inoltre, intervistato nel 2017 su Charlottesville, Renaud Camus ha applaudito il “nazionalismo bianco”, ma ha ripudiato l’antisemitismo e il nazismo. Senza dubbio era rimasto scottato dalla polemica scatenata nel 2000 dal suo Journal: deplorava la sovrappresentazione dei “collaboratori ebrei” su France Culture. Radio France ha annunciato che presenterà una denuncia. Quanto ad Alain Finkielkraut, lungi dal sentirsi preso di mira, ha preso le difese, contro la “Francia gregaria”, di questa “malinconia barresiana”: “da quando si è divertito a pensare così bene, questo paese è stato spaventoso.” Nel 2017, quando questo produttore di France Culture ha invitato lo scrittore per l’ennesima volta nel suo programma, era per discutere della “Grande Sostituzione” con un demografo. Il mediatore della radio pubblica difende questa scelta dalla “censura”; e a chi paragona l’islamofobia di oggi all’antisemitismo di ieri, Alain Finkielkraut ribatte che questo significa “ignorare il nuovo antisemitismo”, quello dei musulmani. Si può però pensare che l’attuale posizione di Renaud Camus non sia solo una questione di prudenza. Forse, come il suo amico Alain Finkielkraut, è guidato dalla logica del principale nemico. In ogni caso, come molti dell’estrema destra, è diventato sionista. In reazione all’attentato di Hamas del 7 ottobre, si è schierato “con Israele”, identificando la propria lotta con la visione esaltata dall’estrema destra israeliana: “Israele, una delle nazioni più antiche sulla faccia della Terra, è il modello di tutte le appartenenze. Se Israele non appartiene agli ebrei, non c’è più alcuna ragione profonda perché la Francia rimanga per i francesi e l’Europa per gli europei.” Renaud Camus, come i suoi epigoni francesi di estrema destra, non ha bisogno della teoria del complotto, così diffusa negli Stati Uniti tra i suprematisti bianchi, per attaccare la “Grande Sostituzione”. È tanto più problematico limitare l’ideologia della Grande Sostituzione alla sola dimensione antisemita, dimenticando il suo fondamento xenofobo e razzista, e cioè che se la sinagoga di Pittsburgh è stata presa di mira nel 2018, è proprio a causa del suo impegno a favore dei rifugiati. A Christchurch, in Nuova Zelanda, l’autore dell’attacco del 2019 a due moschee, Brenton Tarrant, annunciando la sua trasmissione in diretta su Facebook, ha promesso di “condurre un attacco contro gli invasori”. Il suo manifesto, infatti, si intitola “La Grande Sostituzione”, ed è da lui che nascono il terrorista di Poway, California, che attaccò sia una sinagoga che una moschea, e quello di El Paso, Texas, contro i messicani, poi nel 2022. quello di Buffalo, New York, contro i neri. Cancellare questi altri eventi, pur posti esplicitamente sotto il segno della Grande Sostituzione, significa quindi evitare di pensare insieme al razzismo demografico e all’antisemitismo cospiratorio, cioè all’ideologia della Grande Sostituzione e alla teoria del complotto che è una di queste estensioni. In parte, questo ha a che fare con il contesto. Dopo il 7 ottobre, rompendo con il tradizionale sostegno condizionato degli Usa allo Stato d’Israele, il Presidente degli Stati Uniti ha adottato un appoggio incondizionato. Non coglie quindi l’occasione del post di Elon Musk per riunire critiche al razzismo e all’antisemitismo. Richiedere un cessate il fuoco, ha spiegato il 10 ottobre la sua portavoce Karine Jean-Pierre, sarebbe “ripugnante” e “vergognoso”. Nonostante le divergenze con Benjamin Netanyahu, Joe Biden sceglie da che parte stare. Ciò è tanto più notevole in quanto questa scelta potrebbe costargli la rielezione: allontana non solo gli arabi, che hanno aderito al Partito Democratico dal 2001, che questa volta potrebbero far oscillare il voto in uno stato chiave, il Michigan, ma anche le generazioni più giovani: se l’opinione pubblica continua a propendere chiaramente per Israele, i giovani tra i 18 e i 29 anni hanno più simpatia per i palestinesi. Da ora in poi saranno i giovani a ritrovarsi colpevolizzati.

La campagna contro l’Ivy League

Infatti, è in questo contesto di gap generazionale, oltre che di anti-intellettualismo, che si comprendono meglio i ripetuti attacchi contro i campus americani, e in particolare contro le élite dell’Ivy League, sospettate di dare libero sfogo all’antisemitismo. vale a dire l’antisionismo. Per le sue posizioni filo-palestinesi, la sinistra accademica americana è stata aspramente derisa in uno sketch in lingua inglese sullo show satirico israeliano Eretz Nehederet (“Un paese meraviglioso”, ribattezzato “Un paese in lotta”), ripubblicato su X il 6 novembre col nome dello Stato di Israele. Nel campus della Columbia Antisemity (sic), vediamo giovani queer, caricature del “wokismo”, che cantano: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.” E di offrire il loro aiuto, con deferenza, a un terrorista di Hamas che tuttavia promette loro la morte, prima di concludere: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera dagli ebrei” (From the river to the sea, Palestine will be Jews-free).

Proprio il giorno successivo, 7 novembre, l’uso di questa frase (senza la parola “ebrei”, ovviamente) è valso all’unico rappresentante palestinese eletto al Congresso degli Stati Uniti, Rashida Tlaib, un voto di richiamo all’ordine: questo sarebbe un “appello genocida alla violenza per distruggere lo Stato di Israele e il suo popolo e sostituirlo con uno Stato palestinese”. Hamas non ha ripreso dall’OLP? Naturalmente lo usa anche il Likud: “tra il mare e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana.” Ma questo punto non viene mai affrontato. Questa stessa rappresentante del Michigan aveva accusato Joe Biden di sostenere un genocidio a Gaza (un primo richiamo all’ordine, la settimana precedente, non era riuscito a ottenere la maggioranza). Denunciare “un sistema di apartheid che crea condizioni soffocanti e disumanizzanti che possono portare alla resistenza” significherebbe difendere il terrorismo. Sostenuta dai funzionari eletti di colore, Rashida Tlaib si difende chiedendo una “coesistenza pacifica”: “per me, le grida dei bambini palestinesi e israeliani non sono diverse.”

Tutto ciò ha spianato il terreno per le audizioni di tre rettori universitari, il 5 dicembre, da parte di una commissione della Camera dei Rappresentanti. L’indagine si è concentrata sull’antisemitismo; razzismo, non ci saranno dubbi. Fin dall’apertura, questi presidenti vengono incriminati da Virginia Foxx, rappresentante repubblicana della Carolina del Nord, che presiede la sessione: “Oggi ognuno di voi potrà rispondere dei numerosi casi di antisemitismo odioso e al vetriolo nel proprio campus per fornire riparazione.” Un video intitolato “Antisemitismo nei campus” illustra poi il suo punto: nelle manifestazioni studentesche pacifiche in cui si sentono slogan di solidarietà con Gaza e appelli all’intifada, ma nessun riferimento a israeliani o ebrei. Robert Scott, rappresentante democratico della Virginia, ricorda poi che “i miei colleghi repubblicani hanno rifiutato le udienze sulla discriminazione nelle università richieste dai democratici di questo comitato nel 2017 mentre i suprematisti bianchi marciavano per l’Università della Virginia gridando: “gli ebrei non ci sostituiranno”. I tre presidenti a cui viene data la parola iniziano condannando senza riserve “gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre”. Tutti riconoscono l’aumento dell’antisemitismo, non solo nella società, ma anche nei campus. Entrambi aggiungono che sono aumentati anche gli episodi di islamofobia.

Entrambi sostengono che i discorsi che incitano alla violenza violano le norme universitarie sulle molestie. Queste precisazioni preliminari non bastano. Virginia Foxx chiede loro: “Credete che lo Stato di Israele abbia il diritto di esistere come nazione ebraica?” I tre in risposta affermano il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele – ma senza ripetere le ultime parole. Quanto a Joe Wilson, repubblicano della Carolina del Sud, chiede a tutti di indicare la percentuale di conservatori nel corpo docente. Non potendo rispondere il presidente, poiché nessuna università raccoglie questi dati, ne deduce che non ce ne sono, il che sarebbe una prova di “illiberalismo”, conclude, “il risultato è l’antisemitismo.” Il loro interrogatorio da parte di Elise Stefanik, funzionaria repubblicana eletta a New York, è diventato immediatamente virale. Si rivolge innanzitutto alla nuova presidentessa del M.I.T., Sally Kornbluth, che si presenta “come americana ed ebrea” per affermare il suo odio per l’antisemitismo e il suo impegno nel combatterlo. Ma è nei limiti della libertà di espressione: ha sottolineato la profonda differenza tra “ciò che abbiamo il diritto di dire” e “ciò che dovremmo dire”. Elise Stefanik gli chiede: “Invocare il genocidio degli ebrei è una violazione dei codici di condotta del MIT sulle molestie?” “Non ho sentito appelli al genocidio nel nostro campus.” “Ma avete sentito cantare “Intifada”?” Si tratta di molestie «se gli individui vengono presi di mira», risponde il presidente del M.I.T. «in modo invadente e persistente». Stessa domanda per Liz Magill: “sì o no?” Il presidente della Penn (Università della Pennsylvania) dà la stessa risposta, e aggiunge: “se le parole diventano comportamenti, è molestia.” Il rappresentante si altera: “Questo comportamento significa commettere un genocidio?” Stessa domanda per Claudine Gay, presidente di Harvard, e stessa risposta. Come i suoi colleghi, invece di un semplice “sì” o “no”, questa politologa specifica: “Dipende dal contesto.” Elise Stefanik poi decide: “Non dipende dal contesto. La risposta è sì, ed è per questo che dovresti dimetterti.” I tre presidenti hanno dato, in sostanza, la stessa risposta: i codici di condotta rispettano la libertà di espressione (garantita dal Primo Emendamento della Costituzione) e riguardano le molestie (prendere di mira le persone con insistenza).

Ma il resoconto ufficiale della seduta giudica schiacciante il loro consenso: “data la reputazione che hanno le università di promuovere una completa convergenza ideologica, queste testimonianze suonavano false poiché erano le stesse parole pronunciate dai testimoni.” Il loro richiamo alle regole e ai fatti è quindi impercettibile: lo consideriamo la conferma di un’imperdonabile tolleranza nei confronti dell’antisemitismo. Come in precedenza contro Elon Musk, la Casa Bianca sta mettendo il suo peso sulla bilancia. Il suo portavoce Andrew Bates reagisce ancora: “È incredibile che si debba dire: le richieste di genocidio sono mostruose; è l’antitesi di tutto ciò che rappresenta il nostro Paese.” Il presidente dell’ADL Jonathan Greenblatt si congratula con lui. La trasmissione satirica americana Saturday Night Live si accontenta di deridere il gergo legale delle donne presidenti. La parodia di Elise Stefanik meraviglia: “Sto vincendo?” Ma è proprio lei l’obiettivo principale: “L’incitamento all’odio non ha posto nei campus”, continua il suo personaggio, “solo al Congresso, sul Twitter di Elon Musk”, e ovviamente tra i suoi colleghi e donatori trumpisti. D’altro canto, il suo equivalente israeliano, Eretz Nehederet, che beneficia ormai di un pubblico internazionale, continua la sua campagna: dopo lo sketch sulla Columbia e prima ancora su Berkeley, un altro sketch, non meno feroce, è dedicato alle udienze, ricostituite in un universo da Harry Potter.

Gli accademici finiscono per ammettere che il denaro del Qatar è la causa della loro tolleranza verso le richieste di genocidio. Invece di attaccare i donatori ebrei, si fa carico della nuova accusa dei rappresentanti repubblicani. L’intervista pubblicata da Ha’aretz a un professore di Harvard, Eric Maskin, premio Nobel per l’economia, getta una luce completamente diversa dal titolo: “Ad Harvard non c’è quasi nessun antisemitismo”. D’altro canto “l’antisionismo, senza dubbio”. Va tutto bene nella definizione. E per confermare: a sua conoscenza, gli studenti filo-palestinesi di Harvard “non hanno mai lanciato un appello per il genocidio”. In effetti, “gli ebrei di Harvard non sono i loro nemici; è dello Stato di Israele che si lamentano.” Certamente non è d’accordo con loro; ma rispetta il loro impegno verso coloro che considerano dominati. Secondo lui hanno torto; ma è per generosità.

Questo ebreo di New York è tanto più interessante perché, se sostiene Claudine Gay, allo stesso tempo, critico nei confronti di Benjamin Netanyahu, approva pienamente la politica filo-israeliana di Joe Biden. Non senza ingenuità, il presidente ha semplicemente risposto alla domanda posta. Tuttavia “la maggior parte delle università ha una concezione molto liberale di ciò che si può dire. Se per la Costituzione non è illegale, allora abbiamo il diritto di dirlo.” Fino ad oggi solo Sally Kornbluth è sfuggita al tumulto. Liz Magill è stata immediatamente costretta a dimettersi. “E uno, altri due”, ha esultato Elise Stefanik, citata e congratulata da Donald Trump. Quanto a Claudine Gay, comincia con le scuse, ma l’offensiva della destra radicale non si ferma qui. Christopher Rufo, polemista di destra radicale divenuto noto per i suoi attacchi ai Critical Race Studies all’università e poi contro le questioni LGBT a scuola, fa pendere l’ago della bilancia accusando di plagio la tesi di Claudine Gay del 1997, che si concentra sull’impatto positivo della diversità in politica. Se alcuni accademici ritengono che si tratti effettivamente di plagio, anche minore (ripetere testualmente frasi di autori che nominiamo e discutiamo, ma omettendo le virgolette), questa qualificazione è stata contestata dagli stessi presunti plagiari, a cominciare da… il suo direttore di tesi. Questo non cambia nulla.

Il 2 gennaio 2024 il primo presidente nero di Harvard è stato costretto a dimettersi; il suo mandato è stato il più breve nella storia di questa università. “E due”, trionfa Elise Stefanik, che si impegna a continuare la caccia alle streghe. “Scalped”, esulta Christopher Rufo. Sta lanciando un fondo per la “caccia al plagio” nella Ivy League e si vanta: “È l’inizio della fine della diversità (DEI) nelle istituzioni americane.” Allo stesso tempo, Bill Ackman, un investitore miliardario, chiede un’indagine sulla facoltà. Vuole investire nell’intelligenza artificiale per far girare la testa: “questo potrebbe portare a licenziamenti di massa di accademici, alla cessazione delle donazioni da parte dei donatori e alla cancellazione dei finanziamenti federali.” Claudine Gay lo aveva capito bene: il giorno dopo le sue dimissioni, spiegò al New York Times: “quello che è appena successo ad Harvard è più grande di me.” Nell’era del trumpismo, “campagne di questo tipo spesso iniziano con attacchi all’istruzione e alle competenze, perché questi sono gli strumenti migliori per smascherare la propaganda.” La destra della destra ha ragione di trionfare: la sua storia si impone come verità – anche in Francia: per spiegare le dimissioni del presidente di Harvard, Le Monde ripete “non aver condannato chiaramente gli appelli al genocidio da parte degli ebrei lanciati nel campus dal 7 ottobre.” E sarebbe un peccato se non ci fossero stati tali appelli, se avesse condannato il principio e se avesse semplicemente ricordato le norme esistenti in materia di molestie, conformemente alla domanda che le era stata posta.

Il ritorno della razza

Si scopre che queste stesse università sono accusate da diversi anni da questo stesso diritto di ostacolare la libertà di espressione: è questa la polemica contro la (presunta) “cancel culture”. Stavolta cosa conta la libertà di espressione: in molti campus le associazioni filo-palestinesi, sospettate di sostenere Hamas, sono bandite, in altri ridotte al silenzio; le manifestazioni sono vietate e le conferenze cancellate. Ma in queste situazioni nessuno parla di “cultura dell’annullamento”. D’ora in poi la sinistra accademica non sarà più accusata di “maccartismo”, ma di lassismo. Questa sarebbe proprio la prova che lei è partigiana: intollerante verso alcuni, tollerante verso altri. Pertanto, per il rappresentante repubblicano dell’Indiana Jim Banks, “Penn impone regole sui discorsi che non gli piacciono.” Si tratta quindi di un nuovo attacco al (presunto) “wokismo”. Inoltre, un rappresentante repubblicano dello Utah, Burgess Owens, interroga anche Claudine Gay (come lei, è nero) sulla “segregazione razziale” ad Harvard (vale a dire sugli eventi monosessuali, riservati alle minoranze).

Quando si attacca l’antisemitismo, l’antirazzismo diventa il bersaglio – paradossalmente, come nel caso degli ideologi antisemiti della Grande Sostituzione. Questo ritorno della razza gioca un ruolo cruciale nella controversia sull’antisemitismo. Torniamo a Bill Ackman, investitore miliardario e uno dei critici più virulenti di Harvard di cui è stato studente, come Elise Stefanik. Non si accontenta di fare campagna sui social network contro il presidente, che non avrebbe tenuto sufficientemente conto delle sue raccomandazioni. Chiedendone le dimissioni, arriva a mettere in discussione la sua nomina: “ridurre il numero di candidature in base alla razza, al genere o alla sessualità non è il modo giusto per reclutare i migliori alla guida delle nostre università”, le più prestigiose.” In altre parole, Claudine Gay dovrebbe la sua posizione al suo colore. E per riprendere un classico argomento contro le politiche di discriminazione positiva che i giudici conservatori della Corte Suprema hanno recentemente messo al bando: “Non è bene, quando ti viene assegnata la carica di presidente, di ritrovarti in un posto che non avresti avuto senza una fortissima spinta.”

In breve, con l’estrema destra, Bill Ackman attacca le politiche della diversità (DEI) che sarebbero la causa principale dell’antisemitismo. È stata la riduzione della Grande Sostituzione alla sua dimensione antisemita a rendere possibile questo capovolgimento. La prova? C’è un contesto che scompare nell’accusa contro le università ritenute colpevoli di “wokismo”, e quindi di antisemitismo. Repubblicana moderata, Elise Stefanik si è convertita al trumpismo al punto da autoproclamarsi “ultra-MAGA” (Make America Great Again). Dopo l’insurrezione del 6 gennaio 2021 al Campidoglio, Harvard l’ha esclusa da un comitato consultivo per aver rifiutato di riconoscere il risultato elettorale e aver votato contro l’insediamento del nuovo presidente. Pochi mesi dopo, affermò che i democratici si stavano preparando a fomentare “un’insurrezione elettorale permanente”. Come? “Il loro piano, che garantisce l’amnistia a undici milioni di immigrati clandestini, capovolgerà il nostro attuale elettorato per creare una maggioranza liberale permanente a Washington.” Questo per riprendere la teoria del complotto della Grande Sostituzione.

Per i democratici, nel 2022, l’attentato di Buffalo, nello Stato di New York di cui lei è rappresentante, che ha preso di mira i neri considerando la Grande sostituzione come un “genocidio dei bianchi”, è stata l’occasione per denunciare le conseguenze di tali discorsi. Ma i repubblicani hanno rifiutato qualsiasi interrogazione – ad eccezione di Liz Cheney: ha puntato il dito contro la responsabilità dei leader repubblicani di aver “incoraggiato il nazionalismo bianco, il suprematismo bianco e l’antisemitismo” di coloro che non esitano a parlare di “genocidio bianco.” Questa vigorosa critica alla deriva trumpista è stata accantonata per far posto a Elise Stefanik. Mentre ora tiene lezioni ai rettori universitari, i commentatori si astengono dal ricordare, almeno negli Stati Uniti, questo recente episodio, che tuttavia getta luce sul suo uso della parola “genocidio”. Si può anche dubitare della sincerità dell’impegno di Elise Stefanik contro l’antisemitismo: non ha mai detto una parola contro Donald Trump quando nel 2017 stimava che a Charlottesville, nonostante le violenze durante le proteste neonaziste, “c’erano anche persone molto brave da entrambe le parti”, né nel 2022, quando cenò con famigerati antisemiti come Kanye West e Nick Fuentes nella sua tenuta di Mar-a-Lago. Comprendiamo perché rifiuta qualsiasi contestualizzazione dell’interesse nel “contesto” (la parola usata dai tre presidenti): negli Stati Uniti come in Francia e altrove, le politiche reazionarie attaccano le scienze sociali la cui vocazione è proprio quella di contestualizzare. È così che impongono la loro versione dei fatti e allo stesso tempo la loro visione del mondo. In questo caso, ignorare i contesti di questa controversia lanciata dalla destra repubblicana non ci permette di comprendere la manovra politica dietro la loro retorica di lotta all’antisemitismo.

In realtà, tutto avviene come se l’invocazione dell’antisemitismo ridefinito soprattutto come antisionismo permettesse di non dire più nulla sul razzismo, se non quello attribuito all’antirazzismo. A sua insaputa, la Casa Bianca avrà contribuito a legittimare questo discorso della destra radicale condannando la teoria cospirativa della Grande Sostituzione senza riferimento alle sue basi xenofobe e razziste. Allo stesso tempo, al Congresso, si stanno processando le università, non Elon Musk. Sono queste istituzioni ad essere attaccate per la libertà di espressione che difendono, non colui che, in nome di questa stessa libertà, ha trasformato la sua rete sociale in una cassa di risonanza del razzismo e dell’antisemitismo. Elon Musk può continuare con calma i suoi post sulla Grande Sostituzione; si accontenta di non nominarla. D’ora in poi non attacca più gli ebrei, ma solo le politiche sulla diversità di cui il presidente di Harvard sarebbe l’incarnazione: “La DEI discrimina a causa della razza, del sesso, ecc. : non solo è immorale, è anche illegale”. E ripubblica Bill Ackman, per il quale “la radice dell’antisemitismo” è “un’ideologia diffusa nei campus in termini di oppressori e oppressi”, in breve Diversità, Equità e Inclusione. Questo è il senso comune della destra repubblicana. Il problema non è più il razzismo; come in Francia, il nuovo volto sarebbe l’antirazzismo. Oggi i sostenitori della diversità non sono considerati complici dell’antisionismo? In altre parole, in un momento di forte ritorno dell’antisemitismo di estrema destra che arriva fino a dichiararsi apertamente nazismo, si sta attaccando, allo stesso tempo gli ebrei liberali quando finanziano le università e la sinistra intellettuale. “Non possiamo più dire nulla”: questa era la denuncia contro il “wokismo” proprio ieri. Oggi, con il pretesto di combattere un “nuovo antisemitismo”, si usa piuttosto l’ingiunzione: “Stai zitto!”

Éric Fassin, professore di sociologia e studi di genere, Università di Parigi 8, Sophiapol, Institut Universitaire de France. Di prossima pubblicazione, in marzo: State Anti-Intellectualism and the Politics of Gender and Race (CEU Press, Vienna)

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Articolo pubblicato sul sito AOC media, 8 gennaio 2024. Traduzione dal francese di Salvatore Palidda

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