L’Europa preferisce imbarcarsi in una missione militare costosa e dagli “effetti collaterali” potenzialmente devastanti e aumentare le risorse destinate a rimpatri forzati piuttosto che aprire dei canali umanitari e migratori che consentano a chi fugge da conflitti, repressione e povertà di raggiungere l’Europa in modo legale e sicuro.

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 Il 19 aprile scorso, al largo delle coste libiche, oltre 800 persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. Una strage, termine che appare più appropriato di quello di tragedia data la mancanza di qualsivoglia fatalità in un naufragio di questo tipo, di dimensioni enormi ma, purtroppo, né isolata né inaspettata. Nel corso del 2014 nel bacino del Mediterraneo sono state registrate circa 3200 morti e nei primi cinque mesi del 2015, oltre alle 800 vittime del naufragio del 19 aprile, sono annegate almeno altre 1000 persone, 400 in un naufragio avvenuto il 12 aprile.

Ma anche le cifre di chi sopravvive ai flutti fanno scalpore.

L’Italia ha infatti ha visto un aumento del 277% degli sbarchi non autorizzati di migranti rispetto al 2013 (170099 sbarchi, pari al 60% del totale degli sbarchi non autorizzati registrati in tutto il Mediterraneo), mentre per la Grecia l’aumento rispetto al 2013 sarebbe del 153%. Il numero di arrivi registrato in Italia e soprattutto in Grecia nei primi 5 mesi del 2015 lascia presagire che gli sbarchi non diminuiranno ma, al contrario, potrebbero crescere considerevolmente. In Italia sono arrivate 52.500, un aumento di circa 10000 persone rispetto al 2014. In Grecia, sono sbarcati 42mila migranti: il 400 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2014, quando gli arrivi erano stati circa seimila.

Forse proprio in ragione di dati tanto allarmanti, delle forti pressioni provenienti da alcuni Stati Membri, in primo luogo l’Italia, e dell’importanza che il presidente Juncker ha riconosciuto al tema delle migrazioni fin dal suo insediamento, diversamente da quanto accaduto all’indomani della “tragedia di Lampedusa” dell’ottobre 2013, la reazione dell’Unione europea non si è fatta attendere.

Il 20 Aprile, nel corso di una riunione dei ministri degli esteri e degli interni, Dimitris Avramopoulos, il Commissario europeo per le migrazioni, affari interni e cittadinanza, ha presentato un piano di azione in 10 punti che illustrava le azioni da intraprendere nell’immediato in risposta alla situazione di crisi del Mediterraneo. Pochi giorni dopo, il 23 aprile, è stato convocato un consiglio europeo straordinario che, sulla base di tale piano, ha adottato alcune indicazioni di massima, ritenute però insoddisfacenti dal Presidente Junker perché limitate a contenere i flussi di migranti non autorizzati. Nelle settimane successive, la Commissione e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, hanno continuato a lavorare sui provvedimenti precedente abbozzati. Gli sforzi portati avanti a Bruxelles sono culminati nella presentazione, il 13 maggio scorso, dell’ Agenda europea sulla Migrazione e, pochi giorni dopo, nell’approvazione da parte dal Consiglio dei ministri degli Esteri e della Difesa, di Eunavfor Med, l’operazione di polizia che si propone di neutralizzare l’attività degli scafisti attivi nel Mediterraneo centro-meridionale.

Nella prima parte di questo contributo descriverò l’operazione Eunavfor Med e le misure dell’Agenda europea sulla Migrazione che la Commissione intende implementare nel breve periodo. Nella seconda parte, proponendo alcune considerazioni su questi provvedimenti, sui presupposti su cui si basano e sulle reazioni che hanno suscitato tra gli Stati membri dell’Unione (SM), cercherò di chiarire se, e in che misura, la strategia messa in campo dall’Unione è espressione di un’autentica volontà di abbattere o quantomeno scalfire i muri della “Fortezza Europa”.

 

Eunavfor Med

 Eunavfor Med è un’operazione militare. Essa mira a distruggere il modello di business messo a punto delle reti criminali di scafisti e trafficanti di esseri umani identificando, catturando e distruggendo le imbarcazioni e le risorse da essi utilizzati. La missione si compone di tre fasi. La prima fase prevede l’identificazione e il monitoraggio dei network degli scafisti attraverso la raccolta e lo scambio di informazioni di intelligence e un’attività di pattugliamento rafforzata in acque internazionali. La seconda e la terza includono l’individuazione, la cattura e la distruzione delle risorse dei trafficanti rispettivamente in acque internazionali e libiche, senza escludere azioni sulla costa. Benché la decisione adottata il 18 maggio scorso dal Consiglio dei ministri degli esteri e della difesa abbia approvato la base legale dell’operazione che comprende tutte e tre queste fasi, Eunavfor Med non potrà essere attuata nelle fasi successive alla prima finché non riceverà il mandato delle Nazioni Unite. E’ infatti necessario che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvi una risoluzione in base al capitolo 7 dello Statuto delle Nazioni Unite, in cui si prevede l’uso della forza “per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Ad oggi, tuttavia, a causa dal mancato assenso della Russia e di un governo di unità nazionale libico, la cui formazione non sembra così vicina, non è ancora stato possibile trovare un accordo in tal senso.

In assenza del mandato ONU, non potendo cioè agire nei porti e nelle acque libiche, lunedì 22 giugno, all’unianimità e sotto la guida dell’alto rappresentante UE Mogherini, i ministri degli esteri hanno potuto soltanto approvare la prima fase della missione.

L’’operazione, che avrà il suo quartier generale a Roma, sarà composta da circa mille uomini, cinque navi da guerra, due sottomarini, tre aerei da pattugliamento marittimo, tre elicotteri, e due droni. I costi ammonterebbero a circa 14 milioni di euro. E’ prevista una collaborazione con la Nato – che porta avanti nel Mediterraneo la sua missione militare antiterrorismo Active Endeavour, lanciata nel 2001 – e diverse agenzie delle Nazioni Unite, oltre all’agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne Frontex. Le modalità del coinvolgimento dell’Unione africana e di diversi Paesi arabi devono essere ancora precisate.

Eunavfor Med si inscrive oggi all’interno del piano quinquennale della nuova Agenda europea contro le organizzazioni che facilitano i movimenti non autorizzati di essere umani su tutto il territorio dell’Unione e lungo tutte le rotte migratorie. Per monitorare i gruppi criminali organizzati che agiscono nel Mediterraneo, si attribuisce un ruolo chiave all’operazione JOT MARE, un team d’intelligence formato da agenti dell’Europol, l’ufficio di polizia europeo, ed esperti distaccati degli Stati membri.

Questa operazione è stata presentata come l’arma principale dell’Europa contro una nuova tratta degli schiavi ed è stata messa a punto utilizzando come modello la missione Atalanta con cui, dal 2008, l’Unione Europea combatte la pirateria nel Corno d’Africa. E’ tuttavia abbastanza evidente che entrambe le analogie sono a dir poco deboli. Per quanto il prezzo del servizio che si trovano costretti a pagare sia spropositato, i migranti/rifugiati non sono gli schiavi degli scafisti ma piuttosto i loro clienti. In presenza di canali legali per raggiungere un posto sicuro in cui vivere o cercare opportunità di lavoro e vita migliori, la domanda per i servizi offerti dagli scafisti verrebbe meno e con essa le reti del crimine organizzato. La missione Atalanta ha ottenuto il mandato delle Nazioni Unite anche perché il governo provvisorio della Somalia allora al potere diede il suo appoggio alla missione. Sembra però molto improbabile che, anche nel caso in cui si formasse in Libia un governo di unità nazionale, questo darebbe il suo consenso ad Eunavfor med. Le autorità libiche sanno che si tratta di un’operazione militare che, come si legge nei protocolli riservati dell’Unione Europea recentemente pubblicati da WikiLeaks, potrebbe richiedere un impegno bellico di terra. Diversamente dalla guerra ai pirati, inoltre, Eunavfor Med dovrà misurarsi con il non banale problema di distruggere le imbarcazioni degli scafisti evitando che questi ultimi utilizzino i migranti come scudi umani.

Nulla è stato però detto per chiarire come questo sarà possibile. L’Europa preferisce imbarcarsi in una missione militare costosa e dagli “effetti collaterali” potenzialmente devastanti piuttosto che aprire dei canali umanitari che consentano ai richiedenti asilo di raggiungere l’Europa in modo legale e sicuro.

Un progetto di legge per la creazione di un canale legale di migrazione per i richiedenti asilo è stato presentato il 25 giugno alla camera da Mario Marazziti, deputato di Per l’Italia. La proposta è stata appoggiata anche dal Consiglio italiano per i rifugiati. Allo stato attuale delle cose, non ci sono purtroppo elementi per essere ottimisti sul tipo di accoglienza che verrà riservato a questa proposta.

 

L’Agenda europea sulla migrazione

 Sebbene il naufragio del 19 aprile ne abbia senza dubbio influenzato il contenuto e accelerato la presentazione, attesa da tempo, l’agenda europea sulla migrazione non è stata scritta unicamente in risposta a questo tragico accadimento. Il presidente Junker aveva incluso una migliore gestione delle migrazioni tra le 10 priorità politiche del suo mandato. Con l’Agenda sulla migrazione, la Commissione si propone quindi di dettare le linee guida dell’azione dell’Unione europea nel campo della politica migratoria per il quinquennio 2015-2020 con il duplice obiettivo di regolamentare i flussi dei migranti e di gestire l’emergenza umanitaria.

L’agenda è strutturata in tre macro-sezioni: “azione immediata”, “quattro pilatri per gestire meglio le migrazioni” e “andare oltre”. Benché tutte e tre le sezioni sarebbero meritevoli di un’analisi approfondita, mi soffermerò qui solo sulla prima, che risponde alla “necessità di mettere in campo una rapida e determinata risposta alla tragedia umanitaria che sta avendo luogo nell’intero Mediterraneo”. A fine maggio la Commissione ha infatti messo a punto un primo piano di implementazione con l’obiettivo di dare pronta attuazione a queste proposte.

Sei sono le “azioni” che secondo la Commissione è necessario intraprendere nel breve periodo: i) salvare vite in mare; ii) colpire le reti criminali degli scafisti; iii) far fronte agli ingenti sbarchi attraverso la redistribuzione dei richiedenti asilo tra i diversi Stati Membri (SM); iv) elaborare una schema di reinsediamento comune a tutti gli SM; v) rafforzare la cooperazione con i paesi di provenienza dei migranti; vi) utilizzare degli strumenti a disposizione dell’Unione Europea per sostenere gli SM che si trovano in prima linea.

Il primo punto ha come obiettivo il rafforzamento di Triton e Poseidon, le due operazioni di ricerca e salvataggio in mare condotte da FRONTEX (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea), attraverso la triplicazione dei finanziamenti ad esse destinati e alle maggiori donazioni di mezzi e uomini da parte degli stati membri. Frontex e l’Italia, in collaborazione con Malta, hanno inoltre apportato importanti modifiche al piano operativo di Triton, estendendone il raggio di azione verso sud, così da coprire l’area precedentemente sorvegliata dall’Operazione Mare Nostrum. Per garantire l’ adeguato monitoraggio di un’area di mare più vasta è stata previsto anche un aumento degli uomini e dei mezzi a disposizione di Triton.

Queste misure sono state approvate in seguito alla constatazione del fatto Triton è stata tanto inefficace nel dissuadere i migranti/rifugiati e i gli scafisti ad intraprendere i viaggi verso le coste italiane quanto a salvare vite umane. Da quando Triton è stata varata (Novembre 2014) ad oggi, infatti, gli sbarchi resgistrati sulle coste italiane non sono diminuiti ma le vittime nel Canale di Sicilia sono state trenta volte superiori rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando era in azione Mare Nostrum, la missione di salvataggio in mare attuata dalla Marina e dell’Aeronautica Militari italiane dall’ottobre 2013 al 1º novembre 2014. Un aumento del numero di morti così eclatante ha destato uno scalpore tale che, anche gli SM più riluttanti hanno capito che non potevano rifiutare la proposta della Commissione di portare il budget di Triton al livello di quello di Mare nostrum. Il mandato di Triton e Poseidon, tuttavia, non è stato cambiato. In quanto organizzate da FRONTEX, Triton e Poseidon hanno come scopo precipuo il controllo dei confini europei e non il salvataggio di vite umane.

Per quanto riguarda le azioni volte a contrastare le organizzazioni criminali, l’Agenda e il suo primo piano di implementazione fanno riferimento alla missione EUnavfor Med al piano di azione quinquennale sopra descritto.

La terza misura di urgenza delineata nel Piano Europeo per le migrazioni riguarda la redistribuzione dei migranti già presenti sul territorio dell’Unione tra gli SM sulla base di quote obbligatorie da stabilire in base alla ricchezza del Paese (il suo prodotto interno lordo) e alla sua popolazione, criteri che peseranno per il 40% ciascuno, al tasso di disoccupazione e al numero di asili già concessi, che peseranno per il 10% ciascuno. Nell’applicare questi criteri si terrebbe comunque conto dell’interesse superiore del minore e del diritto del richiedente asilo di essere trasferito nello stesso Paese dei suoi familiari, prerogative già riconosciute dal Regolamento i Dublino, il sistema giuridico oggi in vigore. Quest’ultimo prevede infatti che la richiesta di protezione internazionale avanzata dal cittadino extra-comunitario che abbia irregolarmente attraversato il confine di uno Stato membro via mare, terra o aria, sia esaminato da tale stato membro, salvo che il cittadino extra-comunitario non possa dimostrare di avere legami di parentela con richiedenti asilo/rifugiati che si trovano in altri Paesi dell’Unione.

La Commissione attribuisce un ruolo chiave a questo provvedimento. Per introdurlo ha infatti deciso di invocare l’articolo 78.3 del Trattato di Lisbona, finora mai applicato: “Qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati”. Gli Stati che, nelle condizioni attuali, risponderebbero ai criteri necessari per l’attivazione di questo articolo sono l’Italia e la Grecia a causa dell’ “eccezionalità” dei flussi non autorizzati di migranti verso questi due Paesi registrati già nel 2014.

Nel suo piano di implementazione, la Commissione propone di redistribuire tra tutti gli SM dell’UE il 40% dei 100000 richiedenti asilo in evidente necessità di protezione internazionale sbarcati in Italia e Grecia nel 2014, pari ad un totale di 40000 persone (24000 dall’Italia e 16000 dalla Grecia). La definizione, a prima vista estremamente vaga, di “richiedenti asilo in evidente necessità di protezione internazionale” si applica in realtà ad un gruppo di richiedenti asilo ben preciso, ossia a coloro la cui nazionalità ha riportato nel 2014 un tasso di riconoscimento per la protezione internazionale uguale o superiore al 75 %. Secondo i dati Eurostat per il 2014, i Siriani e gli Eritrei soddisfano questi criteri. In attuazione della sesta delle “azioni immediate” sopra elencate, le autorità italiane e greche sarebbero supportate nel lavoro di identificazione di queste persone dall’Ufficio europeo di supporto all’asilo (European Asylum Support Office (EASO)) e altre da altre Agenzie competenti. La decisione di garantire o meno qualche forma di protezione internazionale al singolo richiedente spetterà tuttavia allo SM in cui questi viene ricollocato. Questo provvedimento, finanziato con 240 milioni di euro di fondi ad hoc, resterebbe in vigore per due anni a partire dalla sua adozione da parte del Consiglio.

Analogamente al precedente, il quarto provvedimento richiede agli SM di accogliere e garantire protezione a richiedenti asilo che non hanno attraversato i loro confini. In questo caso si tratterebbe però di aprire le porte ad individui che hanno trovato rifugio in Paesi extra-UE. Dato che, ad oggi, la partecipazione degli SM ai programmi di reinsediamento promossi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) è del tutto volontaria, solo 15 dei 28 Paesi dell’UE vi ha aderito. Sottolineando il ruolo chiave che gli schemi di reinsediamento giocano nell’evitare che i rifugiati cadano nelle mani di organizzazioni criminali, la Commissione ha adottato una raccomandazione che propone un piano biennale di reinsediamento dell’Unione Europea che offra un totale di 20000 posti, da redistribuire secondo gli stessi criteri utilizzati per il piano di trasferimenti di emergenza (Cfr azione #3). Gli SM sono chiamati a aderire a tale piano entro settembre 2015.

Il rafforzamento della cooperazione con i paesi di provenienza e transito dei migranti dovrebbe passare attraverso tre principali azioni. In primo luogo si fa riferimento alla necessità di supportare maggiormente gli Stati che più si fanno carico dei rifugiati perché confinanti con i loro Paesi di origine attraverso il varo o il rafforzamento dei Programmi Regionali di sviluppo e Protezione in Africa del Nord, Corno d’Africa e Medio Oriente. In secondo luogo, si annuncia la creazione in Niger, entro la fine del 2015, di un centro pilota multi-scopo gestito dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazione (OIM), l’UNHCR e le autorità nigeriane. Il centro, modello per altri da costruire nei paesi di origine e di transito dei migranti, dovrebbe fornire informazioni, protezione ed opportunità di reinsediamento a coloro che sono ritenuti effettivamente bisognosi di protezione, ritorno assistito per i così detti migranti economici che cercano di raggiungere l’Europa seppur privi dei necessari documenti e permessi.

La terza iniziativa consiste nell’includere la migrazione, più precisamente il controllo dei confini, come componente specifica delle missioni di Politica Comune di Sicurezza e Difesa già in corso in Niger e Mali.

Queste misure sarebbero affiancate da più ampie iniziative politiche volte alla stabilizzazione delle aree di crisi da cui i richiedenti asilo provengono, in particolare la Siria, o attraverso cui transitano, come la Libia e i Balcani occidentali.

I provvedimenti che la Commissione ha sottoposto per primi all’approvazione degli SM e che hanno incontrato meno resistenze o addirittura il convinto sostegno di questi ultimi sono stati quello volto al potenziamento delle missioni Triton e Poseidon e quello relativo alla missione Eunavfor Med. E’ interessante notare che entrambe queste misure non richiedono agli SM di aprirsi all’accoglienza dei migranti/richiedenti asilo.

Questo nonostante il fatto che le proposte della Commissione di redistribuire e accogliere i richiedenti asilo siano assai timide, soprattutto per quanto riguarda le cifre in gioco. I 26 Stati membri tra cui andrebbero ripartiti i 40000 richiedenti asilo in chiaro stato di necessità e i 20000 profughi attualmente ospitati in campi collocati in paesi non europei hanno una popolazione di circa 500 milioni di abitanti. Il Libano, un paese con sei milioni di abitanti, ha accolto nel corso del solo 2014 circa 390000 nuovi rifugiati siriani. La Turchia, che ha 80 milioni di abitanti, dà oggi rifugio a poco meno di un milione ottocentomila rifugiati siriani. Pur richiedendo sforzi modesti, la maggior parte degli SM ha reagito a queste proposte con grande ostilità. All’apertura del Consiglio europeo del 25 giugno, Donald Tusk, presidente in carica, aveva dichiarato esplicitamente che non c’era accordo tra i 28 SM sull’obbligatorietà delle quote di ripartizione dei richiedenti asilo. Al termine di un lungo dibattito i rappresentanti dei paesi membri dell’Unione hanno infatti deciso che l’adesione al sistema di quote sarà volontaria. C’è stato un accordo anche sulla ricollocazione di circa ventimila profughi che si trovano attualmente nei campi profughi in paesi non europei.

Gli atteggiamenti di chiusura da parte degli SM non sembrano trovare spiegazione nelle disparità esistenti in termini di sforzi già profusi per dare accoglienza ai richiedenti asilo. Ad opporsi più strenuamente alla proposta di Bruxelles, non sono infatti la Germania e la Svezia che, essendo le mete preferite dai richiedenti asilo, si addossano gran parte del peso dell’accoglienza. Le resistenze più forti vengono da Gran Bretagna, Francia, Spagna e dai paesi dell’Europa centrale e baltica che si posizionano nella parte bassa della classifica dell’accoglienza. La Gran Bretagna, insieme all’ Irlanda e alla Danimarca, beneficia di una clausola che le consente di non essere coinvolta nelle questioni migratorie. I paesi dell’Europa centrale e baltica si considerano troppo poveri per aprire le loro porte. La Francia, che sembra aver finito per accettare una quota di richiedenti asilo, insiste sulla necessità che i migranti siano identificati al loro arrivo in Italia e in Grecia, così da poterli rinviare in quei paesi se necessario, e “selezionati” in “centri di transito e smistamento”, in modo da separare i richiedenti asilo dai “migranti economici irregolari”, da espellere immediatamente via Frontex.

La posizione della Francia è però tutt’altro che isolata. In una lettera indirizzata all’inizio del mese di giugno a tutti i ministri dell’interno dell’Unione, il commissario Avramopoulos ha denunciato come il sistema europeo di respingimento per i migranti irregolari non sia sufficientemente veloce ed efficace. Per aumentare l’efficacia di questo sistema ventilava il coinvolgimento di Frontex entro luglio del 2015 e l’utilizzo della detenzione come misura legittima per evitare che i migranti sfuggano al rimpatrio. In buona sostanza, la retorica del doppio registro, vale a dire accoglienza a chi fugge da conflitti e persecuzioni, pugno di ferro con chi scappa dalla povertà, dal degrado sociale e ambientale, non caratterizza soltanto il dibattito politico all’interno degli SM ma anche l’approccio della Commissione. I dissidi tra SM e tra SM e Commissione passano in secondo, scalzati dalla priorità condivisa di contenere l’immigrazione irregolare: il presidente Tusk ha infatti dichiarato che questo sarà il tema centrale del Consiglio europeo aperto il 25 giugno.

Prevale ancora una volta un atteggiamento di criminalizzazione e repressione dell’immigrazione, strettamente connesso al crescente peso che all’interno di alcuni Stati europei stanno assumendo i partiti di estrema destra, che conduce ad una gestione assolutamente irrazionale e controproducente per l’Europa stessa dei flussi migratori. Uno studio condotto dal progetto The Migrant Files ha mostrato come gli ingenti fondi spesi negli ultimi quindici anni dai paesi europei per espellere i migranti irregolari e per rafforzare i controlli alle frontiere (quasi 13 miliardi di euro) non abbiano ridotto gli sbarchi ma ne abbiano aumentato la pericolosità. D’altra parte ricerche condotte da organizzazioni come l’OCSE hanno evidenziato che, anche in tempo di crisi, il tipo di manodopera offerta dai migranti è richiesto in diversi settori dell’economia dei Paesi europei.

Anche la cooperazione con i paesi di origine dei migranti sembra fortemente permeata dall’ottica del respingimento. Dal dibattito che ha animato il Consiglio europeo del 25 giugno è emerso infatti che gli SM intendono utilizzare non solo le pressioni diplomatiche ma anche la promessa di fondi per lo sviluppo e di accordi commerciali per convincere i Paesi di origine a firmare accordi di riammissione. Benché sia stato dichiarato che accordi di questo tipo non verranno siglati con Siria ed Eritrea, il quotidiano inglese The Guardian ha recentemente rivelato che alcuni paesi europei, tra cui la Gran Bretagna e l’Italia, avrebbero avviato delle trattative segrete per convincere il regime eritreo a rinforzare i controlli alle frontiere in cambio di aiuti o di un ammorbidimento delle sanzioni a cui il Paese è sottoposto. L’obiettivo prefigura un disastro umanitario: i rapporti recentemente pubblicati da Amnesty International, Human Rights Watch e dalle Nazioni Unite hanno infatti paragonato il regime eritreo a quello della Corea del Nord per descrivere il grado di violazione dei diritti umani in atto nel Paese. Sembra inoltre che l’Unione europea abbia intenzione di fornire all’Eritrea un aiuto bilaterale di 312 milioni di euro, triplicando così i fondi concessi nel 2009. Anche in questo caso l’Europa, che avrebbe ricevuto dal dittatore eritreo una vaga promessa di sospende il servizio militare a tempo indeterminato oggi in vigore nel Paese, agirebbe con l’unico scopo di ridurre il numero di profughi eritrei che chiedono protezione in Europa.

Più che a risolvere la situazione di crisi del Mediterraneo, gli sforzi dell’Europa sembrano finalizzati a tenere chiuse le porte della Fortezza evitando che le conseguenze negative di questa chiusura assumano un’entità e una visibilità inaccettabili per dei Paesi che intendono continuare a proclamarsi come democratici e civili. Gli Stati europei sembrano non rendersi conto che le vittime di questa approccio non sono solo i profughi intrappolati nei loro paesi di origine o in balia delle onde del Mediterraneo ma essi stessi che così facendo che perdono l’opportunità di riscattarsi dai crimini del colonialismo e di affermare l’Europa come realtà politica unitaria, portatrice di valori di solidarietà, responsabilità e accoglienza.

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