Pubblichiamo l’intervento di Stefano Lucarelli al workshop “Algoritmi e capitale” svoltosi a Londra lo scorso 20 gennaio. Esso segue gli interventi di Giorgio Griziotti e Andrea Fumagalli. Abbiamo così una primo nucleo di interventi che affrontano il tema della moneta digitale e della moneta del comune.

* * * * *

Londra, Goldsmiths College, 20 Gennaio 2014

1. Il workshop cui ho il piacere di partecipare ha come scopo quello di giungere ad una critica degli algoritmi in grado di mettere a fuoco come avviene oggi il processo della valorizzazione capitalistica e di giungere ad immaginare in che modo sottrarsi dalla cattura del capitale. In questo mio breve intervento interagirò con alcuni dei passaggi fondamentali del testo che Andrea Fumagalli ha proposto quest’oggi affinché fosse discusso. Lo farò cercando di sostenere che solo una riappropriazione di ciò che sta sotto il controllo della dimensione finanziaria può porre le basi affinché sia possibile una sottrazione autentica dai dispositivi di cattura capitalistici. Non perverrò ad un esito definitivo, mi limiterò a cercare di individuare alcuni aspetti dell’esperienza di bitcoin su cui credo occorra ancora riflettere, nonostante la rilevanza che in questo caso assume il movente speculativo. Anche per mancanza di tempo non toccherò invece un problema a mio avviso fondamentale quando si parla della possibilità di istituire una moneta alternativa alla logica del comando capitalistico: il principio del clearing[1].

2. Il capitalismo nasce e si impone in quanto economia monetaria di produzione. A tal proposito credo che sia il caso di riprendere un passo tratto dal III Libro de Il Capitale di Marx [citato da Sergio Bologna, Moneta e Crisi: Marx Corrispondente per la “New York Daily Tribune”, “Primo Maggio”, n. 1, p. 14]:

“Se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio, ciò avviene soltanto perché il processo di produzione, che per sua natura è elastico, viene qui spinto al suo estremo limite, e vi viene spinto proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono proprietari, i quali, quando operano personalmente, hanno paura di superare i limiti del proprio capitale privato. Da ciò risulta chiaro soltanto che la valorizzazione del capitale, fondata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica, permette l’effettivo libero sviluppo soltanto fino a un certo punto, quindi costituisce di fatto una catena e un limite immanente della produzione, che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio. Il sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione. Ecco i due caratteri immanenti al credito: da un lato esso sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di gioco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; dall’altro lato esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione. E’ questo duplice carattere che fa di ognuno dei principali araldi del credito, da Law fino a Isaac Péreire, uno strano miscuglio fra ciarlatano e profeta”

Si tratta di un passo che mostra la difficoltà di sostenere che in Marx gli aspetti creditizi e finanziari siano rilevanti solo nella sfera della circolazione, che cioè distolgano da ciò che invece accade nel momento della produzione. [Mi pare sia anche quel che ha sostenuto Alberto Toscano nell’intervento che mi ha preceduto]. In realtà la sfera creditizia e finanziaria può comandare la produzione, può – in altri termini – imporre una ridefinizione del tasso di sfruttamento, una sua accelerazione volta a legittimare le aspettative in termini di realizzazione del valore che sono state fissate sul mercato finanziario.

Torniamo alla parte conclusiva del brano appena letto: il riferimento a John Law ci dà l’opportunità di ricordare che l’idea di questo profeta (o ciarlatano) vissuto a cavallo tra il 1600 e il 1700, fu quella di creare una banca che godesse del monopolio statuale per le operazioni di finanziamento del Governo nazionale insieme ad una public company volta ad organizzare nuove tratte commerciali. Il debito pubblico sarebbe stato così pagato dai profitti ottenuti dallo sfruttamento delle nuove tratte commerciali. Un progetto del genere presupponeva l’emissione di azioni, la stampa di cartamoneta e la conversione del debito pubblico. La struttura istituzionale che regge questo progetto può essere visto come un algoritmo geniale, che in poco tempo generò l’entusiasmo e poi il panico del reggente di Luigi XV, Filippo II d’Orlèans. Un grande successo capovolto in catastrofe che suscitò l’ammirazione di uno studioso esperto di problemi monetari: Josef A. Schumpeter nella sua Storia dell’Analisi Economica (1956) scrive infatti “I have always felt in a class by himself”. Law è in un certo senso un precursore dello spirito del capitalismo, uno spirito che trae principio dall’idea che tutto debba essere letto in termini di liquidità.

3. La liquidità viene definita oggi come una caratteristica desiderabile del sistema finanziario, come una virtù che rimpiazza la prudenza. La finanziarizzazione delle politiche monetarie cui allude Andrea Fumagalli nel suo intervento (un ragionamento che abbiamo costruito insieme negli anni, cfr. il nostro A Financialized Monetary Economy of Production, “International Journal of Political Economy”, n.1, vo. 40, pp. 48-68, 2011, che è già presente in nuce nel libro di Christian Marazzi, Capitale e Linguaggio, DeriveApprodi, 2002) è un “rivoluzione dall’alto”. Come ha sostenuto Christian Marazzi in una sua lezione tenuta a Londra al Goodenough College, il 21 Settembre 2007:

“To measure value is, first of all, to pose the question of the crisis of value. The unit of measure of the process of valorization is the crisis, the mechanism of exploitation is unveiled through the crisis, and the material conditions of liberation are posed by the crisis. […] the question of value and the question of measure in the process of financialisation always lies in the understanding of the transformation of the nature of work.”

Cosa ha a che fare la misura del valore finanziario con la trasformazione della natura del lavoro? E cosa ha a che fare tutto ciò con gli algoritmi? Nel suo significato proprio un algoritmo è una procedura per risolvere un problema ricorrente. Il problema ricorrente per il capitalismo è l’estrazione del plusvalore dal lavoro vivo. La contabilità fondata sul principio di liquidità eretta a chiave di lettura dell’intera realtà, è l’algoritmo fondamentale che il capitalismo si dà per risolvere il suo problema ricorrente. Le convenzioni che emergono sui mercati finanziari dettano i ritmi dell’estrazione di plusvalore che in questa fase viene addirittura misurato in termini di ammontare di debito pubblico. [Non è sempre stato così: l’ammontare del debito pubblico, date certe condizioni istituzionali, può persino rappresentare un modo per realizzare un controllo monetario da parte della classe operaia, a tal proposito si veda L. Cavallaro, Lo Stato dei diritti, Vivarum, 2007]. Possiamo così porci alcune domande: che tipo di algoritmo può essere immaginato per resistere al comando finanziario che impone i cuoi criteri di misura alla realtà? In altri termini: esiste una moltitudine in grado di imporre il suo desiderio – le sue aspettative di riduzione e annullamento del tasso di sfruttamento – contro le convenzioni finanziarie dominanti?

4. Il caso bitcoin è considerato un grande successo sorto a partire dalla cultura hacker. Tuttavia, nel suo scritto, Andrea Fumagalli ha mostrato in modo convincente come il bitcoin poggi su logiche speculative. Su questo non ho nulla da aggiungere. Vorrei però far notare che bitcoin potrebbe rappresentare un buon punto di partenza per un’economia improntata alla partecipazione contro ogni forma di editto regio (si veda il testo di Jaromil, Bitcoin, the end of the Tabu on Money, 6 Aprile 2013). Questa moneta nata dal nulla e producibile da singoli soggetti che si mettono in rete e si dotano di una macchinetta in grado di risolvere dei problemi di calcolo complessi, è innanzitutto il simbolo di una protesta per affermare una network neutrality.  Un  esperimento sociale per la costruzione di nuovi poteri costituenti. Scrive Jaromil che “bitcoin non ha davvero a che fare con la perdita di potere di pochi governi, ma con la possibilità per molte persone di sperimentare nuove sovranità costituenti”. Bitcoin ha un valore meramente simbolico. Con tutti i limiti che ciò comporta. Tuttavia non mi pare che essa abbia una finalità riducibile in tutto e per tutto al desiderio di evadere il fisco, o all’esaltazione di forme di mercato illegali (che possono andare ben al di là del commercio di sostanze stupefacenti ma che hanno effe