Noi produciamo dati, Facebook ci guadagna sopra, ergo Zuckerberg deve darci dei soldi. Un concetto che circola da un po’ di tempo, ma che è riemerso ultimamente alla luce del dibattito sulla crescente automatizzazione del lavoro.

Sulle autorevoli pagine del Financial Times John Thornhill, con un articolo intitolato Why Facebook should pay us a basic income, ha esortato Mark Zuckerberg a dare seguito in prima persona alle parole da lui pronunciate davanti alla platea degli studenti di Harvard: “We should explore ideas like universal basic income to give everyone a cushion to try new things”.

Secondo il commentatore del Financial Times, Facebook guadagna sulla enorme quantità di dati prodotti attraverso l’uso collettivo del social network e quindi dovrebbe restituire una parte dei profitti in forma di reddito di base, anche per iniziare a prevenire la profetizzata disoccupazione di massa causata dalla crescente innovazione tecnologica.

Una proposta che appare rivendicativa e in qualche misura persino oppositiva, ma che in realtà conferma il modello predatorio di Facebook.

Thornhill evita accuratamente una riflessione sulla natura dei dati e del loro contesto di produzione: ogni nostra relazione sociale, ogni nostra attività, ogni nostra vita, si cristallizza in una traccia digitale pronta ad essere immagazzinata ed analizzata; una continua generazione di dati di cui non conosciamo praticamente nulla – non sappiamo quando stiamo generando dati, in che quantità e in che modo. Sappiamo solo che le nostre interazioni collettive vengono standardizzate e compresse per facilitare la loro messa a valore, fino al punto da condizionare le nostre relazioni.

Un meccanismo sfruttato al limite dagli influencers che scalano il grafo sociale disegnato dai social network attraverso la produzione di contenuti che più si adattano a metriche di misurazione quali diffusione, riproducibilità, immediata fruizione; in questo modo, a colpi di “metti il like e condividi”,  raggiungono le posizioni apicali del grafo che permettono di guadagnare attraverso i social, e plasmano al tempo stesso la sfera relazionale collettiva sulla base della fruibilità algoritmica.

Siamo così l’oggetto di un gigantesco condizionamento operante delle nostre interazioni, che sottrae le potenzialità liberatorie della tecnologia in favore di un asservimento atto alla predazione da parte dei pochi soggetti in grado di estrarre valore dall’oceano informazionale.

Più che chiedere reddito sarebbe quindi più opportuno far luce sulle dinamiche di assoggettamento che predano, ingabbiano e modificano le nostre vite.

Anche nel caso in cui ritenessimo ineluttabili queste dinamiche e volessimo trovare una forma di compensazione a questo assoggettamento, la formula dati in cambio di soldi non è percorribile in quanto nega la fondamentale dimensione sociale dei dati. In questo modo tutto si riduce ad uno scambio mercantile che separa il singolo dalle molteplicità del divenire collettivo che sfuggono alla valorizzazione capitalistica, che preclude le possibilità di una fruizione e produzione dei dati che non sia in funzione della predazione, che illude di una liberazione dal lavoro che in realtà è la messa al lavoro dell’essere collettivo.

Al posto di un immagine di libertà, di autonomia, di sperimentazione comune di vite prive del ricatto del salario, la proposta del “reddito da Facebook” rimanda a quel futuro distopico descritto in una puntata della serie Black Mirror dove tutti sono obbligati a pedalare su delle cyclette per produrre energia e generare in cambio una valuta chiama Merito.

Non è quindi inverosimile che il CEO di Facebook accetti la proposta di costituire un basic income con fondi privati. In fin dei conti, Thornhill sta semplicemente chiedendo a Zuckerberg di iniziare a spargere briciole del suo profitto senza contestarne il dominio e le pratiche di controllo, ma anzi affermandole e estendendole.

È una proposta che si adatta anche all’ideologia anarcocapitalista della Silicon Valley: i guru dell’innovazione si presentano da sempre come risolutori dei problemi che uno stato inefficiente non può o non vuole risolvere, proponendone il superamento attraverso la tecnologia. Ovviamente la sostituzione dei servizi pubblici, o meglio la loro fagocitazione, è sempre in funzione del profitto e dell’aumento del numero di utenti: Uber estende il suo mercato andando a sopperire alle mancanze dei trasporti pubblici, Google installa nuove connessioni ultra veloci nelle città USA non coperte e Facebook fornisce dispositivi economici per la connessione internet ai paesi in via di sviluppo.

Un trionfo del progresso tecnologico che rende obsoleta ogni forma di governo esistente, se non quella dei padroni dell’informazione.

Perché quindi non intervenire anche nel Welfare, perché non anche nella diretta gestione della cosa pubblica? Il tutto mantenendo le forme di dominio e le diseguaglianze del turbo capitalismo dell’innovazione.

Un intervento così invasivo che getta scenari inquietanti sulla serie di incontri che Zuckerberg ha tenuto in ognuno dei 50 stati americani poco tempo fa: la copertura mediatica costante, i temi trattati, il taglio stesso delle fotografie a corredo del road trip dell’ex studente di Harvard, hanno portato molti commentatori a definirlo come una sorta di campagna elettorale presidenziale.

Di certo, dopo aver visto Trump alla Casa Bianca potrebbe succedere di tutto.

Anche un Mark Zuckerberg che diventa presidente elargendo 80€ per utente. Pardon, basic income.

 

 

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