Il processo di accumulazione attuale si basa sempre più sul debito, distribuito tra quello pubblico degli Stati e quello privato delle imprese e delle singole persone e famiglie, fondato su specifici rapporti tra debitori e indebitati. Il debito, infatti, è un rapporto sociale, che contrappone soggetti con una forza differente: quanti comandano la gestione del debito e della moneta e quanti la subiscono, seppure utilizzandola in qualche modo, resistendovi e cercando alternative.

Quella del debito è una storia lunga che trova una sua specifica manifestazione all’interno delle politiche neoliberiste, strumento utilizzato in maniera peculiare ad uso politico a vantaggio della ristrutturazione dei rapporti di potere a livello globale dalla seconda metà degli anni ’70.

Da un lato, il debito è stato usato per condurre da parte dei grandi gruppi industriali e finanziari un attacco frontale al potere che le lavoratrici ed i lavoratori avevano costruito dalla fine della Seconda guerra mondiale in molti stati del mondo occidentale, secondo la nota tesi di David Harvey.

Dall’altro lato, il debito è stato usato dalle principali agenzie di sviluppo economico e finanziario, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, contro i processi di costruzione dell’indipendenza nazionale e sociale in atto agli inizi della fase decoloniale in Africa e contro le insorgenze antimperialiste in America Latina. I primi programmi di aggiustamento strutturale avviati tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 portarono glistati debitori del Sud ad aderire al nuovo regime di debito, con una serie di conseguenze, tra cui la rapida liberalizzazione dei settori finanziari locali, la privatizzazione di servizi fondamentali come quelli dell’acqua e l’orientamento all’esportazione di aree fondamentali delle economie locali collegato, in alcune aree, alla riduzione del consumo alimentare pro-capite (Moore, 2015).

Sono stati messi in atto meccanismi finanziari di redistribuzione al contrario, dai poveri ai ricchi, con il sostegno delle potenze statali (Harvey, 2007). E questo è avvenuto mentre il debito pubblico e il debito privato sono cresciuti, senza pause.

 

Il debito pubblico cresce continuamente

Secondo dati della Banca Mondiale, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (PIL) mondiale è stato pari a 93,9% nel 2015, dato che era 41,4% nel 1991, e in crescita continua dal 2000. Il debito pubblico degli Stati Uniti ha superato, agli inizi del 2018, i 21 mila miliardi di dollari, giungendo ad un rapporto con il PIL pari al 108%, dato che nel 2001 era 53%, secondo le informazioni del Fondo Monetario Internazionale. Seguendo la stessa fonte, in Italia il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è stato, nel 2017, uguale al 133%, mentre era pari al 102,6% nel 2006. Nell’area euro, questo valore è passato dal 70% del 2003 al 93% del 2015. Il debito pubblico mondiale nel 2017 è stimato in 44 mila miliardi di dollari da Standard & Poor’s Global Ratings e 63 mila miliardi secondo l’elaborazione di Visual Capitalist su stime del Fondo Monetario Internazionale, con un incremento annuo dal 2007 intorno al 9% soprattutto per finanziare “il salvataggio delle banche e le politiche fiscali espansive” (Pavesi, 2015).

 

Il debito privato è molto più rilevante del debito pubblico

Se si guarda alle dimensioni del debito privato, quello impiegato dalle imprese e per i consumi, le grandezze in gioco crescono in modo ulteriore. Secondo il Global debt monitor 2018 dell’Institute for International Finance, il debito totale mondiale nel 2017 è stato pari a 233mila miliardi di dollari, con un incremento di 16 mila miliardi dal 2016 e di 34 mila miliardi dal 2015, ed un rapporto tra debito totale e PIL pari al 318%. Il debito nel 2017 si è ripartito, in dollari, secondo la seguente stima: 68 mila miliardi (92% del PIL mondiale) dalle imprese non finanziarie, 63 mila miliardi (87% del PIL mondiale) quello pubblico, 58 mila miliardi (80% del PIL mondiale) dal settore finanziario e 44 mila miliardi (59% del PIL mondiale) da famiglie e singoli. Dalla figura si nota la grande differenza con il 2007 ed il 1997, che evidenzia la crescita soprattutto del peso dei debiti pubblici e di quelli delle imprese non finanziarie.

Fonte: Institute of International Finance

https://it.businessinsider.com/233-miliardi-di-miliardi-a-tanto-ammonta-il-debito-globale-del-mondo/

Nello spazio dell’Unione Europea, secondo dati Eurostat, considerando il debito del settore privato, si vede che, in rapporto al PIL, esso è cresciuto continuamente quasi in tutti paesi, soprattutto dal 2006-2007. I casi nazionali sono altrettanto eloquenti. Ad esempio, secondo la Banca Mondiale (2017), ci sono Stati in cui i livelli di debito privato delle famiglie sul totale del reddito disponibile sono altissimi. Nel 2015 questa percentuale era pari a 293 in Danimarca, 276 in Olanda, 221 in Norvegia, 221 in Svizzera, mentre in Italia risultava 88 e negli Stati Uniti 112. Secondo un rapporto dell’Oxford Economics su dati del FMI, il debito delle famiglie in paesi come Svizzera, Australia, Danimarca, Olanda e Norvegia superava, nel 2016, il 110% del PIL nazionale. Secondo il Global Wealth Report 2017 di Allianz (2017, 34), in Europa occidentale “alla fine del 2016 il debito medio pro capite era 25.960 euro, sebbene variasse ampiamente, compreso tra 10.220 euro in Grecia e 93.120 euro in Svizzera”. Di fronte a questi dati tutte le retoriche coloniali sulla moralità delle popolazioni del Sud Europa e sul fatto di vivere al di sopra delle proprie possibilità si palesano come tali, appunto retoriche che non parlano della realtà.

Dunque, il debito privato è ampiamente più rilevante di quello pubblico, come la crisi dei mutui subprime, specialmente negli USA, avrebbe dovuto insegnarci, anche se l’attenzione di stampa e politica istituzionale si è molto concentrata di solito sul debito pubblico. Questa attenzione è, tra l’altro, male orientata. Da un lato, perché si è tradotta in un discorso sull’insostenibilità dei debiti pubblici di una serie di Stati, sull’immoralità delle loro popolazioni e sulla necessità di comprimere spesa pubblica e sociale. Dall’altro lato, perché ad essere fondamentale non è la massa di debito pubblico in sé, ma il servizio che si paga annualmente per tale debito e il suo peso sul totale della ricchezza prodotta e della capacità di spesa degli Stati. Ad esempio, nel caso italiano gli interessi sul debito nel 2016 sono stati pari al 4,2% del PIL (quota pari al 2% nei paesi OCSE), con un esborso di 66,5 miliardi di euro, che ha significato un saldo finale negativo tra entrate e uscite nonostante l’avanzo primario, cioè la differenza tra entrate e uscite dello Stato senza tener conto degli interessi sul debito, fosse stato positivo.

Questi valori, considerati in termini assoluti, sono stati addirittura migliori se confrontati ad alcuni anni precedenti, quando, ad esempio nel 2012, gli oneri sul debito erano stati 83 miliardi e mezzo di euro, diminuendo, negli anni successivi, anche per effetto della politica della Banca Centrale Europea, che dal 2015 ha sostenuto gli acquisti di titoli di Stato nell’ambito del programma Quantitative Easing. Con questo programma è stato favorito il mercato finanziario e, quindi, la redistribuzione verso l’alto della ricchezza, non mettendo in discussione l’insieme degli interessi sul debito pubblico che continua a vincolare la capacità di spesa degli Stati, la quale si riduce nell’utilizzo orientato a rispondere ai bisogni sociali per essere impiegata per pagare gli interessi sul debito.

 

Il triangolo disuguaglianze-debito (pubblico e privato)-leva finanziaria

Se è vero che la leva finanziaria, negli Usa, Giappone e poi Unione Europea, è stata utilizzata per affrontare la crisi finanziaria del 2007-2008, essa non ha messo in discussione i livelli di disuguaglianza crescenti presenti a livello globale ma anche regionale, né, tanto meno, i processi di impoverimento di una parte della popolazione, espressi anche dal crescente ricorso al debito. Non c’è rapporto o ricerca che non evidenzi come le disuguaglianze siano aumentate. Ad esempio, secondo il Global Wealth Report pubblicato da Alianz-Credit Suisse Research Institute (2017), “la crisi finanziaria ci ha lasciato in eredità una disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, che dal 2007 è andata aumentando in tutto il mondo. Secondo le valutazioni degli autori del rapporto, all’inizio del millennio l’1% della popolazione più facoltosa possedeva il 45,5 per cento della ricchezza totale delle famiglie, ma nel corso degli anni questa quota è salita fino a raggiungere l’attuale 50%.”. Lo stesso FMI (2017, 65-66), evidenzia come una quota di famiglie si trovi di fronte ad alti rapporti tra debito e reddito, che le rendono più vulnerabili agli shock di reddito, con riduzioni significative dei consumi negli anni successivi ed una percezione di limitazione finanziaria. Questa condizione è ovviamente distribuita in maniera differente a seconda dei livelli di denaro disponibili. Ad esempio, nel caso italiano le famiglie “nella fascia medio-bassa sono tendenzialmente più indebitate delle loro omologhe nell’Eurozona” e “il peso relativo del debito non è distribuito in modo proporzionale tra le classi di reddito, poiché tende a concentrarsi sulle famiglie meno abbienti” (Bussi, 2017).

Nonostante tali evidenze, sintetizzabili nel triangolo disuguaglianze-debito (pubblico e privato)-leva finanziaria, le politiche finanziarie ed economiche non cambiano a livello globale né, tanto meno, europeo o italiano. D’altronde, tali politiche sono interessate a riprodurre le condizioni per la valorizzazione finanziaria e, quindi, non a far scomparire il debito, ma alla “continua estrazione di valore e

[alla] perpetuazione del rapporto di sudditanza dei debitori nei confronti dei creditori” (Bersani, 2017, 9). La cosiddetta trappola del debito continua ad essere sostenuta dalle politiche in atto continuando così a dare sempre più forza al capitale fittizio, al sistema del credito, al potere del denaro, confermando le politiche di austerità basate, tra l’altro, sulla contrazione dei salari e dei redditi del lavoro vivo, che continua, così, ad essere esposto all’indebitamento per il consumo (Harvey, 2011). Questo altro lato del debito, però, viene solitamente nascosto, in quanto “il dibattito sulle crisi di debito ordinarie fonde due processi completamente differenti: da un lato, il sistema del credito; dall’altro lato, il fatto di vivere in debito, parte della vita quotidiana dei lavoratori salariati. Molte analisi sul debito e la crisi finanziaria si concentrano sul primo processo” (Denning, 2011). Risulta evidente, per tanto, che la questione del debito tende a confermarsi come un fatto apparentemente del tutto interno al sistema capitalistico del credito e ai “rapporti all’interno della classe capitalista” (Harvey, 1982, 253), mentre, in realtà, “le lotte sul debito, come le lotte sulla rendita, sono altrettanto importanti per la politica della classe operaia quanto quelle sul salario” (Denning, 2011).

Secondo David Harvey (2017), questa situazione è stata gestita attraverso “le banche centrali che creano ancora più moneta, tramite il quantitative easing e cose del genere. Ma questo denaro in più, dove va? Buona parte di questo va in cose come la speculazione immobiliare, e il risultato è che i prezzi delle case in quasi tutte le principali città mondiali sono arrivati a un punto per il quale quasi nessuno si può permetter di pagarli”. È evidenziato, così, il rapporto tra politiche del debito e crisi dell’abitare. È anche per questa ragione che, di fronte alle politiche di sostegno diretto alle banche e ai debiti pubblici, sono state proposte alternative in ambito europeo a vantaggio diretto della popolazione. In questa direzione è stata elaborata, ad esempio, la proposta del Quantitative easing for the people, orientata ad indebolire la tendenza all’indebitamento ulteriore delle persone, canalizzando la liquidità creata dalla Banca Centrale Europea verso l’attività economica reale, intervenendo direttamente sulla domanda di beni (Fumagalli, 2016; Marazzi, 2016).

 

Il debito contro il lavoro e il diritto all’abitare

Il debito non è solo un dato economico-finanziario ma anche, insieme, politico. Il controllo sui debiti pubblici, che, tra l’altro, non ne ha ridotto le dimensioni, come il caso italiano testimonia chiaramente, ha colpito protezione ed investimenti sociali. I dati disponibili mostrano nel caso italiano il disimpegno finanziario da parte dello Stato nell’articolato campo delle politiche sociali, socio-sanitarie e dei servizi alla persona. Ad esempio, secondo le elaborazioni della Segreteria della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome – Settori Salute e Politiche Sociali (2016), le risorse per le politiche sociali si sono ridotte di oltre il 60% dal 2010 in avanti, passando da circa 2 miliardi di euro nel 2004 e 2009 al minimo di 110 milioni nel 2012, attestandosi a 732 milioni nel 2016.

I finanziamenti necessari per le politiche sociali sono stati subordinati alle scelte finanziarie, evidenziando l’avvenuta sottomissione dell’esigibilità dei diritti alle compatibilità di bilancio: i diritti sociali hanno perso, sebbene ancora parzialmente, il valore di guida per le scelte in ambito finanziario, divenendone una variabile dipendente. I governi dello Stato italiano hanno scelto di capovolgere il rapporto tra diritti e scelte finanziarie, rendendo queste ultime autonome dalle altre politiche, libere dall’obbligo di adeguarsi all’esigibilità ed alla concretizzazione dei diritti. Sono i vincoli del pareggio di bilancio, del controllo del deficit, del rapporto debito pubblico/PIL a determinare le risorse disponibili per rispondere ai diritti e bisogni sociali. Questi ultimi diventano variabili dipendenti di fattori definiti e governati come componenti un nucleo immodificabile, come se fossero un elemento naturale e non l’esito di scelte politiche ed economiche di medio e breve periodo. A questa tendenza si è aggiunta quella alla precarizzazione del lavoro e all’aumento degli impieghi poveri, che, secondo una ricerca di Unimpresa (2015), interessa circa 6 milioni e cento mila persone in Italia, costituite da occupati “con prospettive incerte circa la stabilità dell’impiego o con retribuzioni contenute”, con la seguente composizione: a termine part time (740 mila), a termine tempo pieno (un milione 663 mila), a tempo indeterminato part time (2due milioni 590 mila), collaboratori (349 mila) e autonomi part time (802 mila).

Queste parti della società, in aggiunte a quelle in stato di disoccupazione o con pensioni molto basse, spesso con figli, ha visto una possibilità nel ricorso al debito, attraverso, ad esempio, i prestiti delle società finanziarie. I salari sono rimasti bassi ed è cresciuto l’indebitamento e, con esso, l’incremento dei proprietari di abitazioni con difficoltà connesse al pagamento del mutuo, divenuti il 2,4% del totale nel 2012, a fronte del’1,2% rilevato nel 2002 (Banca d’Italia, 2014), sebbene il peso dei mutui residenziali sul prodotto interno lordo sia rimasto non troppo alto, pari, nel 2016, al 23,3%, molto al di sotto, secondo dati del 2012, ai valori medi nell’Unione Europea, attestati al 52% (Ance, 2016).

Complessivamente, è accaduto ciò che David Harvey (2011, 29) ha sintetizzato nell’analisi secondo cui “il divario tra i guadagni dei lavoratori e la loro capacità di spesa è stato colmato dall’avvento delle carte di credito e dalla crescita dell’indebitamento”. L’esito finale: debiti su debiti per milioni e milioni di persone, le quali non sono, a differenza dei grandi Stati o gruppi bancari, troppo grandi per fallire.

 

Rompere la gabbia

L’esito complessivo è quello di avere un’ampia parte della popolazione impegnata a cercare denaro per pagare i debiti o un lavoro per avere una busta paga e, così, potere accedere ad una richiesta di prestito, riavviando la giostra del debito. Uomini e donne si ritrovano a vivere rincorrendo le rate in scadenza. Uomini e donne che vivono di debiti, contro i debiti, inseguendo i debiti.

In questo vortice, accade che qualcuno, prima o poi, venga colpito dalle dinamiche sociali, economiche e psicologiche collegate all’indebitamento, che possono produrre una condizione di isolamento. In questo senso, il soggetto indebitato può tendere a chiudersi nei suoi pensieri e nelle sue urgenze immediate, preoccupato del futuro più vicino, impaurito, subalterno ai vincoli economici. In questo modo, è l’astrazione concreta del debito a governarne la vita, le emozioni, i sentimenti.

Il dispiegamento dei processi di austerità, impoverimento del lavoro e regolazione neoliberale a favore dei privati e contro le politiche sociali di redistribuzione verso il basso della ricchezza si è associato a quello dei processi di isolamento, come mostra una parte dei suicidi degli ultimi anni, ad esempio, ma questa inerzia ha trovato resistenze in contro-processi e contro-movimenti che si sono espressi, anche direttamente e frontalmente, contro il comando finanziario e politico del debito.

Nelle università inglesi, olandesi e statunitensi, ad esempio, sono state organizzate lotte e mobilitazioni contro il debito per studiare. In Spagna, la lotta per la casa è stata guidata proprio dalle persone e famiglie non in grado di pagare i mutui e si è caratterizzata per il protagonismo, attivo dopo quasi un decennio, dell’organizzazione Plataforma Afectados por la Hipoteca (PAH). Nel caso italiano, le mobilitazioni contro Equitalia e quelle, più strutturate, per il diritto all’abitare hanno affrontato direttamente i processi di indebitamento e impoverimento che hanno colpito una parte della popolazione. Queste ultime – attraverso difesa degli sfratti, occupazioni, sportelli di informazione/organizzazione, manifestazioni pubbliche – hanno attivato processi alternativi alla combinazione paura/isolamento/colpa. Come è stato riconosciuto nel caso spagnolo, i movimenti per l’abitare hanno alimentato, e si sono alimentati de, il coraggio socializzato, la messa in comune, la solidarietà, andando oltre la colpa e la solitudine: quello che la PAH ha chiamato processo de empoderamiento. I movimenti per l’abitare hanno avversato i processi di impoverimento e indebitamento attraverso la riappropriazione, non semplice, di quote di ricchezza, anche in termini di patrimonio. Hanno costituito, stanno costituendo, una alternativa alla disperazione del debito e, insieme, una alternativa all’uomo indebitato (Lazzarato, 2013) che da solo dovrebbe risolvere i suoi problemi, dimostrando, invece, che si può fare insieme, che le pratiche di riappropriazione possono mettere in discussione, sul piano materiale, politico ed esistenziale, quelle fondate sul dominio del debito.

Una parte della popolazione ha cercato nelle pratiche collettive dei movimenti per l’abitare un’alternativa all’isolamento. L’organizzazione di politiche autorganizzate per la casa, anche attraverso il riutilizzo di immobili vuoti, ha proposto soluzioni concrete a parti della società che non possono aspettare, ma hanno anche permesso loro di non indebitarsi o non farlo in maniera ulteriore. Una parte della popolazione colpita dalla crisi economico-finanziaria e dell’abitare si è organizzata in diverse città italiane per cercare alternative collettive, socializzando la propria condizione e la conoscenza dei problemi abitativi.

La solitudine non è ineluttabile, e non lo è nemmeno indebitarsi. È questo quanto indicano le esperienze dei movimenti per l’abitare. Rompere la gabbia del debito è difficile ma possibile. Essa non è l’ambizione velleitaria di soggetti moralmente riprovevoli, indebitati perché fannulloni. Quella sul e contro il debito è una lotta di pari importanza a quella storica sul salario, in quanto risponde alla stessa necessità di difendere i livelli di vita ma anche la socialità. Lottare contro il debito, riappropriandosi di quote di ricchezza sociale, vuol dire anche difendersi dai processi di isolamento sociale. Al tempo stesso, questo conflitto significa la possibilità di difesa di servizi collettivi e pubblici perché afferma la necessità di sottrarre i diritti sociali alle compatibilità finanziarie, mettendo in discussione l’idea che l’impegno da rispettare sia quello degli equilibri di bilancio e affermando, al contrario, che ciò che c’è da rispettare sono le persone, con i loro bisogni incomprimibili.

 

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