È con buon tempismo che l’Editore Meltemi, grazie all’intercessione di Massimiliano Guareschi e soprattutto alla gran mole di lavoro di Adelino Zanini (curatore e revisore) e alla traduzione di Emilio Zuffi, ha riproposto un’opera fondamentale per il dibattito economico e politico del Novecento: Capitalismo, Socialismo e Democrazia di Joseph A. Schumpeter.

È l’ultima grande opera dell’economista austriaco, emigrato ad Harward nel 1932, poco prima dell’ascesa del nazismo in Germania (Hitler diventa cancelliere il 30 gennaio dell’anno seguente). È anche una sorta di testamento politico, al cui interno sono ravvisabili i capisaldi del suo pensiero economico, permeato da una certa dose di pessimismo sulle sorti del capitalismo. Schumpeter è stato (con Marx e Keynes) uno dei tre maggiori analisti del sistema capitalistico. Caso vuole che essi siano accomunati dal 1883, anno della morte di Marx ma anche della nascita di Keynes e di Schumpeter, quasi un passaggio di testimone.

A differenza di Keynes (che non aveva mai letto Marx), Schumpeter è stato un attento studioso del pensiero marxiano. Non è un caso, che la prima parte di Capitalismo, Socialismo e Democrazia sia dedicata all’analisi critica del filosofo di Treviri. Se da un lato, Schumpeter riconosce a Marx di essere stato il primo ad analizzare il capitalismo in un’ottica dinamica e non statica[1], con una logica opposta a quella presente nei modelli walrasiani di equilibrio generali fondati sul concetto di “kreislauf” (Flusso circolare), dall’altro l’economista austriaco critica l’impostazione marxiana basata sul concetto di lotta di classe. Scrive Schumpeter (p. 75):

… Marx cerca di dimostrare il modo in cui, nella lotta di classe, i capitalisti si distruggono a vicenda e, alla lunga, distruggono lo stesso sistema capitalistico. Cerca anche di mostrare come la proprietà del capitale porti ad un ulteriore accumulazione”.

Ma ecco la critica di Schumpeter:

“Ma questo modo di argomentare, e la stessa definizione che eleva a caratteristica distintiva di una classe sociale la proprietà, servono solo ad aumentare l’importanza del problema dell’’accumulazione primitiva’., cioè del modo in cui i capitalisti riuscirono in prima istanza a divenire tali, o del modo in cui si impossessarono della massa di beni che, secondo la dottrina marxiana, era necessaria per consentir loro di dare avvio alo sfruttamento. Su questo Marx è molto meno esplicito (p. 75)”.

Marx respinge l’idea che il capitalista – imprenditore sia dotato di particolari virtù (talento, intrapresa e intelligenza). Si tratta di una “favola borghese” (kinderfiebel). Secondo Schumpeter, invece:

“chiunque guardi i fatti storici e contemporanei con mente non velata da pregiudizi riconoscerà che quella favola, se è ben lontana dal dire tutta la verità, ne dice però gran parte. Il successo industriale e, soprattutto, la fondazione di solide imprese industriali si spiegano in nove casi su dieci con un’intelligenza ed un’energia superiori al comune (p. 76)”.

Se l’accumulazione primitiva può essere l’esito di un processo di depredazione, violenza e sfruttamento, una volta storicamente affermatosi, il capitalismo si caratterizza anche per la capacità di trasformarsi continuamente grazie allo spirito imprenditoriale innovativo. Il riferimento al processo di distruzione creativa che Schumpeter aveva già descritto in Teoria dello Sviluppo Economico del 1911 (non ancora trentenne) appare qui evidente. Come appare evidente l’influenza di Max Weber e di Werner Sombart. Il dissidio con Marx è profondo e Schumpeter ritiene che la figura dell’imprenditore innovativo rappresenti una “soggettività” in grado di ridefinire costantemente il rapporto di produzione. Non vi è differenza, da questo punto di vista, tra struttura e sovrastruttura e il profitto è la giusta remunerazione non di un atto di sfruttamento ma della capacità imprenditoriale di far crescere il capitalismo.

Nella parte II, Schumpeter discute, quindi, del destino del capitalismo: “Può il capitalismo sopravvivere? No, non lo credo” (p.139). Una conclusione in linea quindi con il pensiero marxiano. Ma le motivazioni sono ovviamente diverse. Per Schumpeter, il capitalismo sarà vittima del suo stesso trionfo. La capacità dinamica di tale sistema è la condizione della sua sopravvivenza, ma più l’accumulazione cresce (che Schumpeter definisce come il tasso di incremento della produzione reale, cap. 5), grazie alla potenza innovativa della classe imprenditoriale, più la sua stabilità diminuisce e sorgono quelle condizioni endogene che porteranno alla sua fine. A differenza di quanto sostenuto dal primo Schumpeter, quello giovanile della Teoria dello Sviluppo Economico, lo Schumpeter maturo è costretto a constatare che il processo di distruzione creativa ha lasciato il passo al capitalismo monopolista. Il passaggio chiave è la rivoluzione manageriale e la grande depressione dei primi anni ’30 a seguito dell’avvento del paradigma taylorista. La necessità di sfruttare le economie di scala statiche connesse al paradigma taylorista ha avuto come effetto la crescita dimensionale delle imprese e la concentrazione dei mercati nei principali settori produttivi. Tale passaggio ha come esito il decadimento della figura dell’imprenditore innovativo e la sua tendenziale sostituzione con una burocrazia manageriale volta più a sfruttare le rendite di posizione che a favorite politiche innovative.

La filosofia politica di Schumpeter è tanto più conservatrice quanto più è innovativa e eterodossa la sua filosofia economica. Lo Schumpeter politico ha nostalgia di un capitalismo concorrenziale, fatto da tante piccole imprese, la cui competitività e il processo di selezione che ne consegue rappresenta la linfa vitale della sua capacità di trasformazione. Ma è propri questa carica innovativa che ha prodotto la burocratizzazione dell’impresa che Schumpeter considera l’anticamera della fine. Come per Marx la ricerca spasmodica del profitto (plusvalore) porterà l’evoluzione organizzativa a segnare il declino del capitalismo.

Ma a differenza di Marx, la fine del capitalismo non porterà a una rottura rivoluzionaria che faciliterà la transizione versa una società più giusta e a misura d’essere umano. Per Schumpeter, l’eutanasia del capitalismo monopolistico porterà a una forma di socialismo. Il passaggio al socialismo non avverrà, infatti, a causa di una rivoluzione violenta, come profetizzato dai marxisti e realizzato dai bolscevichi, ma con un processo graduale, per vie parlamentari e darà vita ad un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo Stato.

Come giustamente rileva Adelino Zanini, nella sua dotta e completa prefazione:

“E qui Schumpeter si cimenta con un ‘esperimento mentale’ che introduce uno dei punti più alti di Capitalism, Socialism and Democracy, ossia l’idea di democrazia come metodo politico” (p. 23).

Nelle parole di Schumpeter:

“uno strumento costituzionale per giungere a decisioni politiche – legislative e amministrative – incapace, quindi, di essere fine in sé, a prescindere da ciò che quelle decisioni produrranno in condizioni storiche date” (p. 406)

È in questo modo che socialismo e democrazia si possono coniugare. La società socialista è il fine, la democrazia il metodo.

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Sono passati più di 80 anni dalla pubblicazione dell’opera di Schumpeter e il tema della sopravvivenza del capitalismo è ancora attuale, oggi resa anche più stringente dalla crisi ambientale, che vede coincidere il crollo del capitalismo con ila fine della vita umana. Meno attuale sembra invece la discussione su come sia possibile immaginare una transizione verso una società non capitalistica, socialista. In questi tempi, di pensiero militare unico, mettere insieme socialismo e democrazia è come bestemmiare.

Il pensiero di Schumpeter può essere ritenuto, al riguardo, paradossale, non scevro da contraddizioni, ma, forse proprio per questo, altamente stimolante. Dopo la crisi degli anni Trenta del secolo scorso, il patto sociale fordista in salsa keynesiana ha rappresentato la via d’uscita da quegli anni, garantendo quella stabilità economica storicamente eccezionale grazie alla crescita simultanea di profitti e salari, in grado di garantire un equilibrio dinamico tra produzione di massa e consumo di massa (ma anche a scapito delle condizioni di lavoro dell’operaio massa). Eppure per Schumpeter, il trionfo del fordismo è la causa principale del declino del sistema capitalista.

Il paradigma fordista è entrato in crisi nei tardi anni Sessanta negli Usa e negli anni Settanta in Europa e Giappone. In parte, le cause sono quelle profetizzate da Schumpeter (la crescente burocratizzazione delle grandi imprese) ma in parte sono anche quelle auspicare da Marx: l’insorgere del conflitto di classe.

Ma nei tardi anni Settanta e negli anni Ottanta un nuovo processo di distruzione creatrice si è diffuso, favorendo la nascita del nuovo paradigma tecnologico dell’ICT (Information Communication Technology). Da un lato viene confermata l’ipotesi delle onde lunghe di Kondratieff (a cui Schumpeter aveva fatto cenno nell’opera del 1939 I cicli economici), ma dall’altro viene disconfermata la previsione che il gigantismo industriale avrebbe portato alla scomparsa del capitalismo.

La nuova fase del capitalismo, che alcuni chiamano capitalismo bio-cognitivo o capitalismo delle piattaforme, è stato in grado di sviluppare una nuova potenza innovativa, tecnologica e organizzativa che ha strutturalmente trasformato i processi di valorizzazione e accumulazione tra finanziarizzazione, da un lato, e internazionalizzazione selettiva della produzione e della logistica, dall’altro.

Ne consegue che il sistema capitalistico è in grado di sopravvivere solo se è in grado di attuare un processo costante di metamorfosi. Schumpeter ci suggerisce che tale processo non è frutto del suo divenire. In altre parole, il capitalismo da solo non può salvarsi. Ha bisogno di stimoli che provengono dall’esterno, che obbligano il sistema capitalistico a modificare le proprie routines consolidate di accumulazione, in quanto non più in grado di ottenere risultati soddisfacenti. E qui entra gioco Marx, che a differenza di Schumpeter ritiene che fattori esogeni al capitalismo possono mutarne la struttura, con la possibilità di compensarne la deriva.

Che siano le forze anticapitalistiche a garantire la sopravvivenza del capitalismo stesso?

 

Una versione più breve di questo testo è stata pubblicata sul quotidiano il manifesto

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Note:

[1] Tale concetto è ben espresso anche nella prefazione all’edizione giapponese di “Teoria dello Sviluppo Economico” del 1937. Marx viene considerato a Schumpeter uno studioso dello sviluppo economico e, in particolare, fa riferimento alla sua concezione di tale sviluppo come basato su un meccanismo autopropulsivo. Concezione analoga, sottolinea Schumpeter, a quella presente nella sua Teoria dello sviluppo economico (Schumpeter 1912) Nella prefazione dell’autore all’edizione giapponese dell’opera, Schumpeter si era proposto di formulare: “una teoria economica pura dello sviluppo economico, che non facesse assegnamento soltanto sui fattori esterni che possono spingere il sistema economico da un equilibrio all’altro… questa idea e questa intenzione sono esattamente le stesse che stanno alla base della dottrina economica di Karl Marx. In effetti, ciò che lo distingue dagli economisti del suo tempo come da quelli che lo precedettero è una visione dell’evoluzione economica come di un processo particolare generato dal sistema economico stesso (Schumpeter 1937, p. LX).”

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