Siamo ormai prossimi all’apertura della stagione referendaria. Si comincia con il voto sulle modifiche alla Costituzione (entro il corrente anno) e a seguire (in primavera) si apriranno i seggi per decidere la sorte dei tre quesiti proposti dalla CGIL per modificare la legislazione del lavoro introdotta a colpi di decreto dai governi delle larghe intese.

A ben vedere le forze politiche italiane non muoiono dalla voglia di affrontare questa filiera di scadenze, sia pure per ragioni diverse e assai divergenti.

Matteo Renzi si sentiva forte dopo la vittoria alle elezioni europee e al tempo stesso l’istinto gli suggeriva che il terreno era sgombro da opposizioni pericolose, per la debolezza delle organizzazioni sindacali, per la crisi profonda della rappresentanza, per il senso di paura che inchiodava alla sconfitta l’antagonismo sociale. Ha premuto l’acceleratore, ma nel frattempo la situazione è mutata. E’ vero che la finanza europea ha domato il governo Tsipras, ma il popolo greco aveva espresso in modo chiaro il rifiuto dei sacrifici e della repressione. E’ vero che in Francia il golpe di Hollande ha cancellato gran parte dei diritti conquistati dai lavoratori, ma lo scontro è stato durissimo, con la CGT schierata contro il governo, le sedi socialiste devastate dai manifestanti inferociti, i giovanissimi precari dopo tanto silenzio in piazza. Il livello della protesta si alza ad ogni passaggio, prima di terminare con la vittoria del potere. Il voto inglese è giunto davvero inatteso per i dirigenti dei partiti tradizionali, per quanto si dica inutilmente a posteriori che un simile esito doveva essere messo in conto. Brexit  è stato un terremoto politico, e le conseguenze non sono ancora state esaminate con sufficiente rigore. Come gli struzzi i commissari europei preferiscono rimuovere, dilungandosi in una stupefacente surreale discussione su chi debba fare la prima mossa e quando. L’Europa si sta comportando come un pugile suonato sul ring.

L’apprendista stregone

Matteo Renzi è molto meno sicuro della strategia precedente, cerca di sminuire la portata del voto e di garantirsi la via d’uscita per evitare la fine di David Cameron. L’opposizione interna del PD non ha perso una nuova occasione per rendersi ridicola, sostenendo di non avere ancora deciso il da farsi e minacciando di votare contro modifiche che aveva approvato. La coalizione di centro destra a sua volta si è sfaldata e con imbarazzo si prepara al voto in ordine sparso. L’ala sinistra (SEL e dintorni) sogna il mutamento della legge elettorale, con il ripristino delle vecchie ammucchiate per aspirare a ricoprire qualche posto in seconda fila; e se potesse evitare il voto stapperebbe champagne. Perfino Lega e M5Stelle sembrano più arruolati per dovere nelle file del NO che davvero convinti di giocarsi una simile carta, che presenta esiti tanto incerti. Così è: nessuno è in grado di capire come possa mai andare a finire e per aggiunta neppure di prevedere le conseguenze dell’uno e dell’altro risultato. Un grande poeta poco noto del secolo scorso, Sandro Penna, scriveva: eccoli i più modesti padroni della vita. I loro sensi, desti, non offendono mica (Stranezze, Garzanti, 1976, pag. 71).

Matteo Renzi, Zauberlehrling  toscano, non è più in grado di fermare il meccanismo incautamente avviato. Il referendum sulle modifiche costituzionali, a differenza di quello che concerne le leggi ordinarie, non prevede il quorum. Vale indipendentemente dall’affluenza, dal numero dei votanti effettivi. Dunque non si può replicare lo schema utilizzato per le trivelle. E l’altra via d’uscita tradizionale (quella di modificare la norma annullando il voto) è pure preclusa dal complicato meccanismo procedurale previsto dalla carta vigente (ci vorrebbero almeno due anni per intervenire). Il voto deve avvenire entro il corrente anno, nessuno lo può evitare ormai. Non è consentito neppure spacchettarlo (articolarlo in una pluralità di quesiti) come avevano proposto taluni, per limitare le conseguenze: o tutto o niente, senza trattativa o compromesso.

L’opzione autoritaria

I filistei delle università, delle consorterie e delle accademie si affannano nell’invito a decidere solo in base allo stretto merito delle modifiche. Sono poco convincenti: è un vero rompicapo distinguere un capo dall’altro e il risultato complessivo sembra un quadro di Paul Jackson Pollock (ma senza la bellezza dei colori). In realtà è una legge mal concepita e mal scritta, quasi incomprensibile; ma con uno scopo preciso e palese. Il governo vuole accompagnare per via legislativa il passaggio dalla odierna struttura parlamentare rappresentativa ad altra invece di carattere apertamente autoritario. Il nuovo assetto delle Camere è ritenuto più idoneo dal potere finanziario per condurre a conclusione il processo di sussunzione avviato con la generalizzazione della condizione precaria.

Qui sta il nocciolo del problema, il resto è aria fritta. La scelta del PD e dei suoi attuali alleati si colloca dentro il meccanismo di governance che detta le scadenze all’Unione Europea, dunque chiede strumenti che consentano di spazzare via il dissenso e di rafforzare l’esecutivo. Merkel e Stati Uniti sono interessati a farla vincere e dunque la appoggiano. I lamenti per ingerenza sono patetici. Il NO alla riforma costituzionale unisce, come nel caso della Brexit, destra nazionalista, segmenti di sinistra, movimenti di protesta, liberali e riformisti sia di formazione laica sia di formazione cattolica. Non è un fronte popolare e non è un fronte unito. Ma è pur sempre una inevitabile aggregazione, una somma con possibile effetto sinergico troppo tardi preso in considerazione dal nostro Zauberlehrling. Peraltro si è ormai creata una notevole confusione; gli stessi esperti in sondaggi ammettono di avere difficoltà nel cogliere appieno gli umori dell’elettorato. Non si comprende ancora in quanti andranno alle urne, la forbice è davvero ampia. La composizione dei votanti effettivi è un altro mistero; essendo oltretutto mutevole diventa difficile individuare i temi su cui far leva. Pubblicitari e professionisti della comunicazione confessano il loro disagio e cercano di evitare le trasmissioni televisive.

Grande è il disordine

Lo scenario si presenta quanto mai incerto e disordinato. Non è detto che la situazione sia tuttavia eccellente, che la riflessione di Mao faccia al caso nostro. Forse. Forse bisognerebbe consultare il celebre trattato del matematico Luigi Fantappié sulla sintropia  per poter individuare esatte conseguenze, in ipotesi di esiti ritenuti prima impossibili.  

A questo punto non ha senso pronunciarsi sulla opportunità o meno del referendum; ormai è un fatto e si tratta piuttosto di chiedersi, secondo logica e con grande franchezza, quali effetti possano in concreto produrre l’uno o l’altro risultato. Comunque non sarà un evento inutile, e hanno torto a sostenerlo i sacerdoti dell’ortodossia muniti di apposito distintivo con falce e martello incrociati. Qui non si tratta di una battaglia promossa dai movimenti popolari o dal precariato moderno; questa scadenza l’hanno costruita i funzionari delle larghe intese, non ci sono, qui e oggi, altre vie. O si accetta il confronto o ci si sottrae, lasciando altri a battersi sui due campi contrapposti.

La fuga, temo, non paga e soprattutto non elimina i contraccolpi del risultato. Partecipare, d’altro canto, non vieta la chiarezza e l’enunciazione dei motivi che inducono a farlo. Sono in gioco spazi di esistenza, di libertà, di ciò che abbiamo chiamato comune. La sconfitta di chi ha voluto il referendum per rendere più solido il proprio potere non è priva di rilevanza. Certo non vanno coltivate illusioni. Sappiamo benissimo tutti quanti che non si arresterà con un semplice voto referendario la lunga marcia dell’opzione autoritaria; siamo consapevoli che come in Grecia e in Francia il potere violerà le regole e ribadirà con prepotenza le pretese. Ma vincere o perdere non è la medesima cosa, neppure nelle singole battaglie.

Matteo Renzi ha revocato la minaccia originaria, quella di andarsene per sempre come il suo collega David Cameron. La prospettiva, gli hanno spiegato i suoi consiglieri, rischiava di accendere le speranze, di infuocare l’anima precaria. Ma il passaggio rimane assai significativo.

Il senso della contesa

L’area dei lavoratori tradizionali si è impoverita, la forbice dei redditi si è allargata, con un consistente aumento numerico di chi sta nella fascia bassa. Il precariato giovanile è abituato a vivere senza diritti e con poche risorse, non crede alle promesse, ha interiorizzato la rassegnazione impotente. Il senso della sconfitta e la paura del futuro dominano le emozioni, dei singoli e delle collettività. Non c’è fiducia nella lotta aperta, nel corpo a corpo. Per una strana contraddizione è maggiore la disponibilità per un’insurrezione che per uno sciopero; la prima probabilmente finisce male, il secondo certamente. Nella società contemporanea si è diffusa, sedimentata, l’ansia; l’occupazione instabile porta poco guadagno e non consente programmi neppure a breve termine. Ma non sembrano esserci alternative: calati juncu ca passa la china. Non deve stupire, in questa situazione, l’interesse per temi generali e solo apparentemente slegati dalla realtà. E’ la percezione di una resistenza certamente debole e insufficiente, ma necessaria e possibile. Questo è ciò che si delinea nel quadro contraddittorio della stagione referendaria. Questa è l’occasione da cogliere.

Non è un passaggio isolato

Nel valutare il quadro complessivo in cui viene a cadere il referendum costituzionale dobbiamo considerare molti aspetti. Dobbiamo tener conto di quanto avvenuto recentemente, nel nostro paese, nell’area europea, nel villaggio globale.

Durante la riunione milanese di Effimera  si è discusso del picco di contatti davvero sorprendente, registrato in occasione dell’appello per la libertà di ricerca, a sostegno di Roberta Chiroli. Vi era stato un meccanismo di identificazione con la giovane studiosa, alla base poi di una dura polemica con la Procura torinese; la mobilitazione in favore di una ricerca libera e autonoma ha rafforzato oggettivamente la lunga protesta della popolazione in Val di Susa, ha incrinato la cortina d’isolamento costruita dal potere.

Non era accaduta la stessa cosa pochi mesi prima, quando furono approvati i decreti attuativi del Jobs Act che cancellavano a colpi di accetta i diritti dei lavoratori subordinati e introducevano nell’ordinamento italiano la condizione precaria come principio ordinario nel contratto di lavoro.

Evidentemente il sentimento collettivo aveva percepito come inevitabile e non opponibile la codificazione a posteriori di un processo di sussunzione già avvenuto. Eppure, poco dopo, in Francia, una trasformazione altrettanto inevitabile e sostanzialmente identica, ha provocato invece una rivolta, domata solo a prezzo di un golpe istituzionale gestito in silenziosa intesa da destra e sinistra tradizionali. Chi da per scontato, applicando regole volgarmente meccanicistiche, l’evolversi delle singole vicende, mostra solo di non aver capito nulla; nelle fasi di transizione i singoli passaggi rimangono per loro natura confusi, incerti, fino all’esito. Oggi lo scontro non rispetta più le vecchie regole del conflitto sindacale, della lotta di classe, della guerra. La globalizzazione, la comunicazione e la finanziarizzazione travolgono i limiti; la composizione degli schieramenti, morta l’ideologia, muta di continuo e mutano le scelte degli strumenti ritenuti necessari per vincere. Per fermare la lotta Hollande ha usato la paura degli attentati; ma si è trovato ugualmente contro l’apparato della CGT. La rottura si è consumata in via definitiva; nulla è più come prima.

Il voto inglese per la Brexit  lo conferma. Il rifiuto di ogni trattativa con gli operai francesi è legato alle imposizioni della commissione europea, che nega qualsiasi autonomia territoriale e non tollera diserzioni nell’esecuzione di quanto deliberato per abbattere il costo del lavoro e anzi per ricondurre l’esistenza intera dentro il ciclo di valorizzazione. Gli operai inglesi ne hanno preso atto e hanno scelto di abbandonare l’Europa, votando. Il rancore di una destra nazionalista, xenofoba e protezionista ha trovato ascolto anche nelle periferie industriali e nelle famiglie popolari impoverite; la sinistra radicale e i movimenti ecologisti, a loro volta, sono stati un richiamo efficace per quelle porzioni di scontenti che tengono fermi i principi di solidarietà. Il voto ha approfondito la crisi; il rinvio di ogni successiva mossa operativa è il segnale, ancora una volta, dell’incertezza e del disordine.

I tre referendum della CGIL sul lavoro

La CGIL ha raccolto firme sufficienti per sottoporre al voto abrogativo tre importanti modifiche in tema di legislazione del lavoro. Le conseguenze dell’accoglimento sono notevoli: il ripristino del divieto di licenziamento in tutte le aziende sopra i 5 dipendenti, il divieto del voucher  e la piena responsabilità delle imprese committenti (pubbliche o private). Non è tutto; ma è abbastanza per smantellare l’operazione Fornero-Renzi.

Un precedente tentativo di raccogliere firme (lanciato da Pippo Civati) era fallito miseramente. Landini ha ritenuto che l’esperienza della coalizione non desse alcuna concreta affidabilità operativa e si è deciso al compromesso con Susanna Camuso, portando a casa il risultato senza necessità di alcun aiuto esterno alla Confederazione. Il voto dovrebbe cadere in primavera. A differenza di quello sull’acqua pubblica (che indica sostanzialmente un programma) il referendum sul lavoro avrebbe conseguenze immediate.

Il referendum costituzionale avrà comunque contraccolpi su quello del lavoro, per via del quorum applicabile. La modifica costituzionale Boschi alza il numero delle firme (un milione, ma CGIL è oltre anche il nuovo limite) e abbassa invece il quorum (50% dei votanti alle ultime elezioni e non 50% del corpo elettorale). Per contraddizione la nuova costituzione autoritaria renderebbe più facile la validità di questi referendum in tema di lavoro.

La CGIL – ma non la FIOM – ha presumibilmente in animo di usare l’arma referendaria per essere riammessa al tavolo della trattativa, scambiando la rinunzia al voto con una modifica legislativa estesa al tema spinoso della rappresentanza. Ma sbaglia i conti quando pensa che Matteo Renzi non vuole trattare; il punto è un altro, Matteo Renzi non può trattare.

La Commissione Europea non intende accettare alcun ritorno al passato e, qualunque sia l’esito del voto, cercherà di imporre il suo volere, costi quel che costi, come ha fatto in Grecia e in Francia. Nulla, ancora una volta, è tuttavia scontato.

L’elaborazione teorica e critica del pensiero antagonista guarda ovviamente con sospetto ogni cedimento alle strategie elettorali, spesso dimenticando come, nella società della comunicazione e dello spettacolo, ogni rappresentazione deve essere guardata per quello che è. Sostenere che solo il rapporto di forza e la capacità di lottare consentono mutamenti sostanziali è una semplice inutile astrazione, senza rilievo concreto. Nel tempo dei prodotti immateriali e del conflitto senza limiti  è proprio il conflitto che deve essere compreso, anche per poter definire quale sia lo strumento idoneo e dove si collochi la forza  quale parametro del rapporto da modificare.

Connessioni

È nota la regola morale di Adriano Olivetti, nella seconda metà del secolo scorso: nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo.

Naomi Klein racconta nel suo No Logo  la rabbia incredula delle operaie quando scoprono il prezzo al pubblico dei giocattoli da loro confezionati; e la decisione aziendale di occultare i cartellini alle maestranze sottopagate nelle periferie dell’impero.

Il capitalismo di Olivetti non esiste più. Poteva accettare la sfida del consenso, della democrazia rappresentativa; puntava a ridurre la forbice salariale, allo stato sociale (Welfare). Oggi il meccanismo di estrazione della ricchezza cancella tendenzialmente le posizioni intermedie, riduce quelle basse allargando la base numerica di composizione della fascia, aumenta quelle del nucleo specializzato di direzione/controllo. Uno stagista Fiat guadagna mille volte meno di Marchionne; perfino un qualunque Antonio Campo Dall’Orto ha uno stipendio di 650.000,00 euro annui, quale direttore generale di una Rai zeppa di precari sottopagati.

Un sistema così apertamente iniquo, senza religione direbbe Papa Francesco applicando il suo punto di vista, non può reggersi sul consenso. L’opzione autoritaria non ha alternative, è l’unica che consente la sopravvivenza del potere nella fase attuale.

Per questo viene accelerato, con il referendum, il passaggio ad un sistema costituzionale in cui l’esecutivo prevalga e operi senza interferenze; e al tempo stesso la governance utilizza in forme spregiudicate il terrorismo, la guerra, la corruzione, la criminalità, la repressione del dissenso.

In Germania e in Austria oltre 350.000 manifestanti hanno gridato la loro opposizione al TTIP, il trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico. Il voto inglese ha forse assestato un colpo mortale alla sua approvazione, mentre era in corso il 14° round della trattativa segreta fra la commissione europea e gli USA. Le regole del mercato (anche quelle sui prodotti alimentari) mediante il TTIP sarebbero stabilite da organismi tecnici, controllati dai gruppi transnazionali; e le controversie fra stato nazionale e imprese decise da un organo estraneo alla magistratura ordinaria. Fra i più accesi sostenitori di questa violenza ai danni delle popolazioni si distingue il nostro ministro in carica per lo sviluppo economico, Carlo Calenda ( già collaboratore di Luca Cordero di Montezemolo).  Nel 2013 il parlamento europeo aveva votato un mandato a negoziare in favore della Commissione, senza diritto di accesso al testo per i parlamentari. Doveva essere firmato, secondo il governo inglese, entro la fine dell’amministrazione Obama; ma il voto Leave ha scombussolato le carte, creando i presupposti per la grande manifestazione organizzata da Naturfreunde il 17 settembre in vista dell’incontro a Bratislava fra ministri degli esteri.

Ancora. A Piacenza un TIR ha ucciso Abd Eissalam Ahmed Eldanf, operaio e attivista sindacale di USB. Una gigantesca impresa della logistica, la GLS (General Logistics Systems), opera nel territorio. E’ una controllata di Royal Mail, sono le poste inglesi. La società usa senza scrupoli piccole aziende dell’indotto, per pagare meno. E per affermare il proprio dominio usa ovviamente la precarietà. C’era una trattativa, USB chiedeva l’assunzione stabile; era intervenuta la prefettura, e non per aiutare i lavoratori in agitazione. Hanno schiacciato un poveraccio con un TIR dentro uno stabilimento; una cosa barbara e ignobile.

La procura di Piacenza, violando qualsiasi regola di riservatezza e senza che nessuno lo faccia notare, ha affermato, per bocca del procuratore capo Salvatore Cappelleri, che la responsabilità era della vittima. Che le parti diano versioni diverse è fisiologico; ma costituisce un vero scandalo una pubblica dichiarazione alla stampa, senza contraddittorio con i parenti dell’operaio, senza inchiesta. Sabato a manifestare c’erano alcune migliaia di persone, e il sindaco di Piacenza, invece di partecipare, ha chiuso i musei. Si chiama Paolo Dosi, appartiene al PD.

Il referendum abrogativo della CGIL comporta la responsabilità della committente, quanto a trattamento economico dei lavoratori dell’indotto. E questo era il contenuto della loro lotta. Il frettoloso procuratore di Piacenza non è forse a conoscenza che la responsabilità del conducente si presume, se costui non prova di aver fatto il possibile per evitare il danno. Farebbe bene ad astenersi dal processo, dopo la sua esternazione alla stampa. Ne trarrebbe giovamento il suo ufficio.

E, probabilmente, l’abrogazione della norma introdotta dal partito del sindaco di Piacenza avrebbe reso inutile la protesta ed evitato la morte del povero Abd.

 

Immagine in evidenza: Paula Rego (1935), Untitoled, Museu Nacional de Arte Contemporânea (MNAC), Lisbon, Portugal, fotografia di Pedro Rebeiro Simoe, da Fickr

 

 

 

 

 

 

Print Friendly, PDF & Email