Effimera ripubblica l’intervista che Marco Giorgetti ha fatto a Stefano Lucarelli. L’intervista – che si concentra sulle molte ombre del MES, sull’operato del ministro Gualtieri e che sviluppa una visione critica della politica economica europea – è già stata pubblicata in due puntate da orwell.live

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 «La Germania deve abbandonare il suo modello di crescita o metterà molto a rischio il futuro dell’Unione Europea». Stefano Lucarelli insegna  Politica Economica, Economia Monetaria Internazionale ed Etica Economica presso il Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi (già “Hyman P. Minsky”) dell’Università di Bergamo.

Gli abbiamo rivolto alcune domande essendo uno di coloro che hanno elaborato fattivamente il documento dei 101 economisti riguardante il MES.

Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a firmare il documento dei 101 economisti?

«Non ho semplicemente firmato questo appello, ho partecipato alla sua stesura. Occorre tener conto del fatto che questo è il terzo appello pubblicato da Micromega che mette in guardia dal Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Il nucleo originario di colleghi con cui abbiamo sviluppato questi ragionamenti era formato da 29 accademici (28 economisti e un giurista, fra questi Riccardo Realfonzo che dirige Economia e Politica, rivista della cui redazione faccio parte, Andrea Fumagalli che conosco sin da quando ero uno studente e Mauro Gallegati che era il responsabile del mio dottorato di ricerca), 1 giornalista economico (Carlo Clericetti) e un esperto di economia che lavora presso la CGIL (Roberto Romano con cui ho scritto nel 2017 il libro Squilibrio)».

Cosa non la convince del MES?

«Abbiamo pubblicato su Micromega un primo appello lo scorso 4 Dicembre, dove invitavamo a non firmare le modifiche proposte al MES. Segnalavamo in particolare che:

  • l’aiuto agli Stati in linea con i parametri stabiliti dalle regole del MES non richiede particolari requisiti, mentre per quelli non in linea (come è l’Italia) è previsto solo a patto di pesanti condizionalità, tra le quali giudizi sulla sostenibilità del debito e sulla capacità di rimborsarlo, in seguito ai quali può essere richiesta allo Stato in questione una ristrutturazione del debito;
  • sebbene non ci siano automatismi che prevedano la ristrutturazione, il solo fatto che ve ne sia la possibilità costituisce agli occhi dei mercati un fattore di rischio, a fronte del quale gli investitori chiederanno interessi più elevati.
  • Il MES è stato istituito per fungere da prestatore di ultima istanza, un ruolo che in ogni Stato è svolto dalla banca centrale, mentre alla Bce è stato vietato. Ma una banca centrale ha risorse illimitate, il MES no, e questo agli occhi della speculazione fa la differenza.

Abbiamo poi sentito il dovere di promuovere un secondo appello il 22 Marzo dopo le improvvide affermazioni di Christine Lagarde e prima che la BCE dichiarasse che i 750 miliardi di interventi annunciati non sarebbero stati limitati alle prime necessità della crisi. E abbiamo superato le 100 adesioni.

Abbiamo deciso di promuovere questo terzo appello alla luce delle titubanze che emergono dall’opinione pubblica, di alcuni esponenti politici e persino delle entusiastiche adesioni alla richiesta di un prestito al MES da parte di alcuni noti economisti, primi fra tutti Carlo Cottarelli e Luigi Marattin che si dimostrano peraltro molto disinformati poiché sostengono sui social e sui quotidiani che sia possibile ricorrere al MES senza condizionalità. Ma quelle condizionalità sono previste dai Trattati che lo istituiscono».

Ci aiuti a comprendere meglio…

«Come segnala anche Banca d’Italia: “La condizionalità varia a seconda della natura dello strumento utilizzato: per i prestiti assume la forma di un programma di aggiustamento macroeconomico, specificato in un apposito memorandum; è meno stringente nel caso delle linee di credito precauzionali, destinate a paesi in condizioni economiche e finanziarie fondamentalmente sane ma colpiti da shock avversi.” Non solo, lo stesso MES in passato nella gestione della crisi greca ha incrementato le condizionalità attraverso revisioni ex post dell’accordo.

Sento il dovere di insegnare che questa crisi economica non può essere affrontata senza una condivisione dei rischi e delle risorse a livello europeo. Le istituzioni europee hanno già dato prova di grande fragilità. Se non fosse stato per la grande capacità di Mario Draghi – che ha difeso una politica monetaria non convenzionale nonostante ben due ricorsi alla Corte di Giustizia provenienti dalla Germania – non avremo neanche avuto la timida ripresa che ha caratterizzato il periodo 2015-2019. Soprattutto, anche alla luce dei contributi scientifici più approfonditi, occorre sostenere che un’altra politica economica europea è possibile e che l’idea delle regole fisse, del primato dell’obiettivo del contenimento dell’inflazione sulle misure a sostegno dell’occupazione, provengono da studi, anche di premi Nobel per l’Economia, che nel corso del tempo si sono rivelati incompleti sul piano dell’analisi logica (per esempio i lavori di Barro e Sargent non tengono adeguatamente conto delle asimmetrie informative) e deboli sul piano delle verifiche empiriche.

Il documento che abbiamo pubblicato è il frutto di un percorso collettivo, di un confronto continuo, quasi quotidiano. È estremamente chiaro e comprensibile».

Il ministro Gualtieri è stato relatore per la modifica dell’articolo 136 del Trattato di Lisbona che istituisce il MES…affidabile ed imparziale?

«Non conosco di persona il ministro Gualtieri ma la sua storia personale è quella di uno studioso di storia contemporanea (laureatosi nel 1992), divenuto Professore Associato nel 2012, con pubblicazioni accademiche a diffusione nazionale. Nel 2005 è divenuto membro del consiglio nazionale dei Democratici di Sinistra, nel 2009 membro del Parlamento Europeo, dopo il 2014 è stato Presidente di vari Commissioni in seno al Parlamento Europeo. È interessante segnalare che in uno dei suoi scritti, un commento alla sentenza della Corte Costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona pubblicato da Astrid nel 2009, Gualtieri si dimostra molto consapevole delle asimmetrie di potere che caratterizzano l’Unione Europea: “Al di là delle sue concrete implicazioni giuridiche, la sentenza potrebbe quindi essere considerata come un segnale di inquietudine, se non di insofferenza, per un assetto politico-istituzionale ed un equilibrio di potere evidentemente ritenuti non adeguati alla funzione di leadership che la nuova Germania uscita dal processo di riunificazione si sente ora in grado di esercitare. Anche l’atteggiamento tenuto dal governo federale in occasione delle recenti nomine e la scelta di un basso profilo soprattutto per una figura cruciale come l’Alto Rappresentante/Vicepresidente della Commissione, che avrebbe potuto potenzialmente costituire un ponte tra la dimensione intergovernativa e quella comunitaria dell’azione esterna dell’Ue, sembrano andare nella stessa direzione. I prossimi mesi diranno se la Germania saprà cogliere la sfida di misurare la propria leadership in un rilancio su basi condivise del processo di integrazione nel quadro del nuovo assetto istituzionale delineato dal Trattato di Lisbona, o se assisteremo a una deriva “neogollista” dalle conseguenze esiziali per l’Europa.”».

Oltre a questo il ministro è stato, insieme a Guy Verhofstad, membro della squadra che aveva il compito di convincere i governi europei ad accettare il Fiscal Compact, cosa ne pensa?

«Gualtieri è stato uno dei tre negoziatori del Parlamento Europeo nella definizione del Fiscal Compact, e ha dichiarato esplicitamente che il suo ruolo è stato volto a “limitare i danni” (si ascolti una sua intervista dell’1 Febbraio 2012). Ora è bene aver chiaro che il Fiscal Compact – che fortunatamente non è stato accolto nei Trattati Europei – istituzionalizza una visione del funzionamento dei sistemi economici estremamente opinabile, stabilendo:

(i) Un sostanziale pareggio di bilancio, o più precisamente, il divieto per il deficit strutturale del settore pubblico di superare lo 0,5% del Pil nel corso di un ciclo economico; e (ii) che il rapporto debito pubblico/Pil scenda ogni anno di un ventesimo della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia-obiettivo del 60% prevista nel Trattato di Maastricht.

Si tratta dunque dell’accettazione dell’idea che i deficit fiscali si traducano in una riduzione degli investimenti privati e abbiano un effetto negativo sulle potenzialità di crescita del sistema economico. Idea che, ribadisco, è priva di robuste conferme empiriche, soprattutto nel caso europeo.

Allora Gualtieri e più in generale il Parlamento Europeo, era il 2012 e il tasso di crescita dell’intera eurozona diveniva negativo, avrebbe dovuto promuovere una visione radicalmente diversa della politica economica: in economie che normalmente funzionano al di sotto dei loro livelli di piena occupazione, la spesa pubblica avrà un effetto espansivo sul reddito sia direttamente che per effetto dell’aumento degli investimenti privati che l’incremento di spesa pubblica potrà determinare».

In ultimo, sempre Gualtieri, ha diretto il Finacial Assistance Working Group, finalizzato a verificare che la Grecia facesse “bene le riforme”, quelle lacrime e sangue, con tagli alla spesa, alle pensioni, agli stipendi statali, cessione del patrimonio pubblico in cambio degli aiuti europei…ci si può fidare?

«Nella trattativa più recente in seno all’Eurogruppo Gualtieri ha probabilmente fatto lo stesso: ha limitato i danni. Scriveva Manzoni quando si riferiva a Don Abbondio: “Il coraggio uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Il problema è che questo atteggiamento non basta a non fare di un politico un carnefice sociale. Prendiamo il caso della Grecia. Gualtieri nella sua funzione rilevante in seno al Parlamento Europeo, dichiarò nel 2015: “Un accordo sulla Grecia è necessario e possibile, e sarebbe bene che invece di soffiare sul fuoco e fare ideologia tutti dimostrino pragmatismo e responsabilità. Da un lato, è evidente che i debiti vanno pagati e che gli aiuti non possono essere incondizionati, ma chiedere un avanzo primario del 4,5% a un paese con il 26% di disoccupazione è economicamente insensato e mette a rischio la sostenibilità del debito. Questo dovrebbe preoccupare innanzitutto i creditori”.

Questa presa di posizione, e in particolare le frasi a tutela dei creditori e sulle condizionalità, ci danno l’immagine di un politico che non sembra lavorare per ridurre le asimmetrie reali provocate da meccanismi istituzionali che non salvaguardano gli interessi comuni. Sono queste prese di posizione che hanno generato le conseguenze terribili che la Grecia sta ancora vivendo. A tal proposito mi consenta di segnalare un recente documentario, “Laboratorio Grecia”, girato da un giovane regista italiano Jacopo Brogi e visibile gratuitamente a questo link ».

Cosa invece secondo lei dovrebbe fare un ministro dell’economia?

 «Sono molte le cose alle quali dovrebbe pensare oggi un ministro dell’economia. Innanzitutto dovrebbe immediatamente mettere a disposizione del mondo del lavoro tutte le risorse necessarie per evitare l’annichilimento delle filiere della produzione, approfittando della sospensione del Patto di Stabilità e Crescita e delle politiche espansive della BCE. Laddove si ravvisassero tensioni sui titoli di debito pubblico il ministro dovrebbe fare pressioni affinché le autorità nazionali competenti chiudano le borse. Quanto stabilito dai decreti al momento è del tutto insufficiente. In particolare il decreto legge 23 (8 Aprile 2020) prevede dei prestiti garantiti che presupporranno un processo di selezione eccessivamente discrezionale del sistema bancario, su cui occorre già vigilare, e che rischiano di giungere alle imprese tardi e di essere utilizzati solo per pagare le imposte pregresse. Come ha scritto Roberto Romano, “c’è bisogno di reale spesa pubblica pari almeno al capitale perso durante la crisi. Qualcuno, Visco (ex Ministro del Tesoro), ha parlato di un aumento del debito pubblico italiano non inferiore al 40%”. Non solo, è necessario che lo Stato, anche attraverso il ministero dell’economia, lavori per avviare una ri-specializzazione produttiva del Paese anche pensando a piani industriali che coinvolgano i settori che – come la farmaceutica o i nuovi settori della nascente green economy – potranno attivare una domanda effettiva rilevante nei prossimi anni. Questo significa presidiare sulle imprese, e in parte aiutarle a ricostruire le filiere della produzione anche attraverso un lavoro importante di politica estera. Non si possono lasciare le piccole e medie imprese vittime delle grande imprese che sono dotate di maggiore liquidità e di un accesso al credito facilitato. Né si può confidare sulla saggezza presunta di un sistema creditizio che appare disgregato e terrorizzato dalle prospettive di capitalizzazione palesate dalla nuova legge bancaria europea. Occorre una banca pubblica che gestista l’accesso alla liquidità in una prospettiva di cambiamento strutturale del nostro sistema economico. Siamo di fronte ad una crisi che cambierà radicalmente le catene del valore».

Quale dovrebbe essere la soluzione di una reale e solidale Unione Europea?

«Di soluzioni ce ne possono essere diverse. Ne ha scritto recentemente Riccardo Realfonzo in modo molto preciso su Economia e Politica (15 Aprile): “La strada maestra per finanziare le politiche contro la crisi indotta dal coronavirus consiste nel finanziamento da parte delle banche centrali. La monetizzazione dei nuovi deficit statali, infatti, permette di disporre della leva finanziaria per attivare le risorse necessarie a costo zero e senza appesantire il debito pubblico dei Paesi. Questa è la principale soluzione praticata nel mondo per fronteggiare l’emergenza, dagli USA alla Cina, dalla Gran Bretagna al Giappone. … Ciò potrebbe avvenire con varie modalità tecniche e soluzioni legali, anche mediante l’acquisto di titoli di debito comune (eurobond o recovery bond) da parte della BCE. D’altronde, in una fase recessiva come quella che si prospetta, non possono nemmeno essere paventati rischi inflazionistici. Una alternativa al finanziamento della BCE … potrebbe essere l’emissione dei titoli di debito comune verso il mercato [qui Relafonzo fa riferimento alla proposta della Debt Agency avanzata da Massimo Amato, Emanuele Belloni, Paolo Falbo e Lucio Gobbi]. Questa seconda possibilità non è certo a costo zero, ma comunque permetterebbe di non contabilizzare una crescita del debito pubblico dei singoli Paesi. Al contrario, il ricorso al Fondo Salva-Stati (MES), non solo è a titolo oneroso ma soprattutto determina l’erogazione di crediti che vengono contabilizzati nel debito pubblico dei Paesi che li ricevono” ».

Gli interessi economici della sola Germania sono così ingombranti da non lasciare spazio a variabili sulle soluzioni da adottare?

«La Germania stenta ad abbandonare un modello di crescita mercantilistico che già prima della Pandemia stava dando segnali di debolezza. Ma o la Germania abbandona quel modello e punta a costruire una Unione Europea che fa affidamento maggiore sulla propria domanda interna, o le tensioni interne all’Unione Europea non potranno che acuirsi».

Se dovessimo “fare da noi”, cosa potremmo fare?

 «Partiamo dalle parole usate da Mario Draghi nel suo famoso intervento sul Financial Times del 25 Marzo scorso: “I Paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, perciò l’unico modo efficace per poter raggiungere ogni singola crepa nell’economia è quello di mobilitare la totalità dei loro sistemi finanziari: i mercati obbligazionari, principalmente per le grandi aziende, i sistemi bancari e, in alcuni Paesi, anche i sistemi postali. … La velocità a cui si stanno deteriorando i bilanci privati – a causa di una pure inevitabile e auspicabile chiusura di molti paesi – deve essere affrontata con altrettanta rapidità nel dispiegare le finanze pubbliche, nel mobilitare le banche e nel sostenerci l’un l’altro, come europei, per affrontare questa che è, evidentemente, una causa comune.”  Nel nostro appello cerchiamo di rendere esplicito ciò che ci pare implicito nel discorso di Draghi e parliamo di “monetizzazione di spese giudicate inderogabili”. La BCE – in un contesto in cui il Patto di stabilità e crescita è sospeso e l’UME rischia di implodere – ha i mezzi per farlo. Esistono anche altre soluzioni – su cui non c’è ancora un consenso politico sufficiente – che dovrebbero essere valutate nel dibattito parlamentare. Personalmente ritengo che una moneta fiscale o dei certificati di credito fiscale possano essere utili, soprattutto se questa misura non viene intesa come un’anticamera per uscire dall’UME. Esistono contributi interessanti in tal senso anche di alcuni studiosi firmatari dell’appello come Gennaro Zezza e Dimitri B. Papadimitriou».

Come vede il futuro dell’UE se non si dovesse trovare un accordo, neanche stavolta e neanche sull’unico tema economico per cui l’UE esiste…? 

 «Lo vedo come un famoso quadro di Hieronymus Bosch, dipinto fra il 1480 e il 1490. Si chiama Inferno».

 

 

 

 

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