Sono un funzionario che lavora all’Ufficio Statistiche della Regione Lombardia. Per motivi legati alla mia professione preferisco mantenere l’anonimato. Scrivo a partire da ciò che conosco (i dati) della realtà lombarda, senza alcuna pretesa di esaustività. A seguito dell’emergenza Covid-19, le posizioni critiche sulla gestione dell’emergenza non sono certamente bene accolte. Da nessuna parte.

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A quasi tre mesi dallo scoppio dell’epidemia, iniziano a essere disponibili alcuni dati più completi e i primi studi che consentono un’analisi più compita di ciò che è successo. Ad esempio, uno studio condotto da Enrico Bucci, Luca Leuzzi, Enzo Marinari, Giorgio Parisi, Federico Ricci Tersenghi “Verso una stima di morti dirette e indirette per Covid-19” analizza i dati Istat relativi al tasso di mortalità. Le principali conclusioni sono le seguenti:

  • la copertura dei dati dell’Istat è tale da non permettere stime significative in molte regioni italiane. Lo studio si limita, quindi, a analizzare quelle con copertura superiore al 50% della popolazione (Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna);
  • il numero dei decessi in eccesso rispetto ad un anno senza epidemia mostra un andamento temporale chiaramente legato all’epidemia, crescendo a partire dall’ultima settimana di febbraio e mostrando un picco intorno al 20 marzo;
  • il confronto con i dati riportati dalle Protezione Civile mostra che questi ultimi sono molto sottostimati nelle regioni maggiormente colpite dall’epidemia (circa 7000 decessi in meno in Lombardia e circa 1000 in Emilia-Romagna). Nelle province maggiormente colpite come Bergamo si stima che il numero reale dei decessi sia più del doppio di quelli riportati dalla Protezione Civile (come confermato dai dati Istat, recentemente pubblicati, ndr.)
  • il confronto dell’evoluzione temporale dei decessi stimati dai dati Istat e di quelli ufficiali forniti dalla Protezione Civile suggerisce che questi ultimi non solo siano sottostimati, ma presentino anche un probabile “ritardo temporale” che ne modifica sensibilmente l’andamento in funzione del tempo con importanti conseguenze sulla stima dei parametri dell’epidemia;
  • è ben noto che la patologia Covid-19 porti a morti ospedaliere più numerose negli uomini che nelle donne. Questo sbilanciamento di genere rispetto ai decessi normali, quelli che avvengono per tutte le altre cause, ci ha permesso di stimare, in vari scenari, possibili percentuali dei decessi avvenuti a causa dell’epidemia in modo indiretto, ossia non direttamente causati dal virus.

La seconda fonte ufficiale di dati è rappresentata dal dataset fornito dal Ministero della salute e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), con i dati aggiornati giorno dopo giorno:

Secondo il report del 6 maggio, h. 18.00, il numero delle persone che risultano attualmente positive è pari a 91.528 (in costante calo da una settimana e più), i deceduti sono 29.684 e i guariti 93245. Su 214.457 casi registrati, il tasso di guarigione è stato del 43,5% e quello di mortalità del 13,8%, uno dei più alti al mondo. Dei 91.528 casi attualmente positivi, ben l’81,3% (74.426 casi) si trovano in isolamento domiciliare.

Premesso che la mortalità di Covid-19 è comunque inferiore a quella della SARS e dell’influenza spagnola, occorre domandarsi come in Italia si sia verificato un tasso di mortalità così elevato. A tal fine, può essere utile fare un’analisi sui dati epidemiologici dei pazienti deceduti positivi a Covid-19. Lo stesso ISS fornisce alcune informazioni recuperabili da questo sito:

Secondo il report del 29 aprile, l’età media dei deceduti è di 79 anni. L’età mediana è di 81 anni mentre l’età media di coloro che hanno contratto il virus è di 62 anni. Tra i deceduti, sono 260 (al 23 aprile, pari all’1,1%) coloro che hanno meno di 50. Evidentemente in un paese dove la vita media è più lunga, gli anziani sono risultati essere i soggetti più a rischio. In secondo luogo, i decessi colpiscono in misura maggiore gli uomini (63,3% contro il 36,7% delle donne).

Proprio l’età media avanzata dei decessi è uno dei fattori che può spiegare l’elevata mortalità di soggetti già minati da altre patologie. È interessante notare, infatti, che solo 1073 morti siano riconducibili al solo virus (3,8%), 4.094 morti riguardano pazienti con una patologia (14,5%), 6.042 con due patologie (21,4%) e ben 17.026 con tre o più patologie (60,3%).

Ciò significa, che se definiamo i decessi riconducibili al solo Covid-19 (comprendendo anche quelli con una sola patologia), il virus è stata la principale causa di morte per 5.167 casi (pari a un tasso di mortalità del 1,8%, in linea con il dato della Germania, che contabilizza solo i morti “per” Covid-19).

Certo, è evidente che se non ci fosse stata l’epidemia, il numero delle morti, come abbiamo scritto, sarebbe stato decisamente inferiore. Ma tale numero è stato aggravato da alcune scelte irresponsabili che sono state prese dalle autorità politiche della Lombardia. È infatti del tutto anomalo che i morti in Lombardia rappresentino più di metà (il 53,8%) del totale dei decessi registrati in Italia: un territorio che ha una superficie pari allo 0,00046% della superficie della terra e una popolazione pari allo 0,0013% della popolazione mondiale ma con oltre il 6,5% del totale mondiale dei decessi per Covid-19.

Quando si sono manifestati i primi focolai nel Nord (Codogno in Lombardia e Vò in Veneto), nonostante l’immediata instaurazione della zona rossa (limitata ai due comuni), la diffusione dell’epidemia ha preso strade diverse. Il Veneto piange “solo” il 5,7% dei morti, una quota inferiore di 10 volte a quella lombarda. Come è possibile?

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Per rispondere, credo sia necessario partire 20 anni fa. Occorre infatti conoscere la storia della sanità lombarda negli ultimi decenni. Partendo da un dato: dal primo caso di Covid-19 accertato a Codogno (Lodi)  la sera del 21 febbraio, e fino al 2 marzo, in Lombardia “le uniche strutture di ricovero e cura in prima linea nell’emergenza coronavirus sono state tutte pubbliche”, come ha affermato Maria Elisa Sartor, esperta in questo campo, professoressa a contratto nel Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano. Perché nessuna delle strutture private convenzionate col Sistema sociosanitario lombardo (SSL), pagate con soldi pubblici, è stata da subito in prima linea, nonostante oggi rappresentino più del 50% degli ospedali in Lombardia (erano una netta minoranza fino al 1997)?

Riprendo le parole di Maria Elisa Sartor:

“Prima del varo della riforma sanitaria di Roberto Formigoni (alla guida della Regione per 18 anni, dal 1995 al 2013, insieme alla Lega, ndr), il Servizio sanitario della Lombardia, come gli altri in Italia, era articolato in strutture locali organizzate in distretti. Le Asl svolgevano attraverso le proprie unità organizzative (come uffici amministrativi, unità di prevenzione, presidi ospedalieri, ambulatori, consultori) le funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione diretta dei servizi e di controllo delle attività svolte. Era un governo diretto della sanità in tutti i suoi aspetti, con un sistema che aveva una struttura modulare e una gestione strategica regionale unitaria. Questa gestione era legata a una linea di comando definita, che rispondeva, per lo più con efficacia, alle esigenze immediate e di medio e lungo periodo dei territori, integrando le funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione e controllo su una base locale”.

Con i primi anni Novanta, fu varata la cosiddetta “controriforma sanitaria” che consentì maggior autonomia alle regioni e favorì una gestione manageriale all’insegna delle teorie del New Public Management, secondo il quale, grazie alla liberalizzazione e alla aziendalizzazione delle strutture sanitarie territoriali (non a caso trasformate in Asl, aziende sanitarie locali, nomen omen), si voleva raggiungere un efficientismo tale da ridurre i costi grazie anche alle convenzioni con i privati.

Continua Maria Elisa Sartor:

“Nel 1997 la Lombardia impresse una svolta sostanziale, seguendo un modello pensato per rendere sempre più facile l’accesso dei privati al Servizio sanitario regionale. La Giunta Formigoni si ispirò alla riforma avviata alcuni anni prima nel Regno Unito: decise di separare anche in Lombardia le funzioni che prima erano integrate, in modo che la funzione di erogazione potesse essere affidata sempre di più al privato. La Regione, a iniziare da quel periodo, ha cominciato a programmare e, soprattutto, a comprare servizi sia dalle strutture pubbliche lombarde (trasformate in ‘aziende’ gestite con un metodo sempre più manageriale e definite ‘autonome’ in modo improprio) sia da imprese private, che ovviamente entrarono nel mercato sanitario con un orientamento basato sul profitto”.

Senza farla troppo lunga, il risultato è che al momento dello scoppio dell’epidemia, la Lombardia, a differenza del Veneto (dove il privato incide per meno del 10%), non ha un numero di presidi territoriali adeguati, né un numero sufficienti di letti in terapia intensiva (i meno convenienti per la profittabilità privata). I Pronto Soccorso diventano il primo luogo dove recarsi in casi di una prima sintomatologia e gli ospedali, a loro volta, diventano veicolo di contagio.

Contemporaneamente, anche all’indomani del decreto del governo che impone le restrizioni di movimento individuale e il parziale blocco delle attività produttive, nelle zone della pedemontana bergamasca (come a Nerbio e Alzano Lombardo), nonostante il verificati dei primi casi,  nessun provvedimento viene preso (il Pronto Soccorso dell’ospedale di Alzano L. viene solo temporaneamente chiuso per un paio d’ore) e l’attività produttiva (e di conseguenza la mobilità) continua come prima, nel nome del più classico (e beota) produttivismo delle valli della bergamasca. D’altra parte, in terra leghista, bastava una semplice auto-certificazione per far rimanere aperta la “fabbrichetta”.

Abbiamo così la tempesta perfetta. Il contagio si diffonde a macchia d’olio in un contesto dove la disponibilità ospedaliera pubblica ha visto ridursi negli anni le possibilità di accettazione. Come riportato da alcune testimonianze, a inizio marzo, si devono prendere decisione dolorose e traumatiche su come selezionare i casi di contagio. Si può comprendere, ma non giustificare, come i Pronto Soccorso non potevano essere chiusi, in quanto gli unici luoghi a cui rivolgersi in caso di necessità. Il tutto è poi condito da pressapochismo a livello di vertice e con la carenza del materiale protettivo per gli operatori sanitari (la Lombardia ha anche il primato dei morti tra medici e infermieri).

Non si comprende (e men che meno si giustifica), invece, la delibera della Regione Lombardia di chiedere alle Case di cura per anziani (Residente Sanitarie per Anziani, Rsa, questo il nome ufficiale) di ospitare dei malati Covid-19 (non in terapia intensiva) alla disperata ricerca di letti.

Le inchieste della magistratura stanno svelando molti retroscena sulle conseguenze di questa scellerata decisione di vera necropolitica, finalizzata allo scopo di perpetuare il mito dell’eccellenza del sistema sanitario lombardo. Una scelta che ne ricorda altre, iscritte tra i crimini contro l’umanità.

Non può stupire che in Lombardia il 53,4% delle morti per Covid abbia riguardato anziani in Rsa.

È stata tale decisione politica, come esito del processo di privatizzazione della sanità Lombarda, a spiegare il così elevato numero di morti e l’elevata età media dei decessi.

E sono queste concause il motivo che spiega l’elevato tasso di mortalità in Lombardia. Sicuramente non il runner o chi va in bicicletta per le strade di Milano (come mi è purtroppo successo: insultato dalla finestra da un tizio che pensava che andassi in giro a divertirmi mentre mi recavo al lavoro).

Ma occorre anche segnalare che una simile situazione, seppur con meno morti complessivi (il 13,8% del totale), ha caratterizzato anche l’Emilia-Romagna, guidata da una giunta di diverso colore, che registra un’elevata quota di decessi nelle Rsa e dove la sanità privata incide per più del 25%.

Qui chiude l’umile statistico, e vi saluta. Lascio ad altri analisi più sofisticate, opportune, significative, in linea. Per parte mia, spero solo che questa drammatica vicenda insegni qualcosa.

 

Immagine di apertura: Francisco Goya, “El sueno de la razon produce monstruos” (Il sonno della ragione genera mostri), 1797 (circa), museo del Prado, Madrid

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