“Tra la popolazione africana migrante, la gente eritrea rappresenta una percentuale molto significativa.

[…]La diaspora eritrea ha ultimamente catalizzato l’attenzione dei mezzi di informazione su questo piccolo Stato del Corno d’Africa, ex colonia italiana. È emersa così l’immagine di un territorio disperato, infernale, privo di libertà fondamentali e di opportunità”. Pubblichiamo l’articolo di Joe Venca che ci aiuta ad andare oltre la “questione migranti” verso una più profonda comprensione dei fenomeni storici in cui noi, l’Italia e l’Europa, siamo inconsapevolmente calati e da cui talvolta ci sentiamo violentemente investiti

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Come spesso succede, la storia del mondo investe a ondate irregolari la nostra vita quotidiana. La più recente e attuale ondata è quella rappresentata dalle migliaia di migranti provenienti dalle coste nordafricane. L’Europa sembra impreparata ad accogliere un numero così elevato di persone in disperata ricerca di aiuto, e la mancanza di strategie convincenti alimenta le spinte xenofobe e populiste di tutte le destre europee. Il motto “Gli stranieri a casa loro”, che imperversa tra un media e l’altro negli ultimi tempi, non fa distinzioni di sorta: tra un’etnia e un’altra, una zona geografica e l’altra, una storia e l’altra non vi sono differenze, soltanto una scomoda tendenza a fuggire dalla propria terra in cerca di migliori opportunità.

Tra la popolazione africana migrante, la gente eritrea rappresenta una percentuale molto significativa, nonostante le limitate dimensioni del Paese (tra i cinque e i sei milioni di abitanti, su un territorio grande poco più di un terzo dell’Italia). La diaspora eritrea ha ultimamente catalizzato l’attenzione dei mezzi di informazione su questo piccolo Stato del Corno d’Africa, ex colonia italiana. È emersa così l’immagine di un territorio disperato, infernale, privo di libertà fondamentali e di opportunità.

Nelle righe che seguono proverò a fornire qualche elemento di riflessione in più rispetto alle analisi – pur veritiere – già effettuate e pubblicate recentemente sui quotidiani e le riviste europee e nazionali.
Storia recente, identità nazionale e isolamento

L’Eritrea ottiene l’indipendenza dall’Etiopia nel maggio del 1991. La Festa della Liberazione che si celebra il 24 maggio commemora la spettacolare guerra di liberazione condotta a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e culminata con la presa di Massawa, prima, e la conquista di Asmara – attuale capitale del Paese – poi. La campagna per l’indipendenza presenta i caratteri di una vera e propria rivoluzione: l’intera popolazione si unisce spontaneamente ai guerriglieri che per anni avevano condotto la resistenza contro l’occupazione etiope, e avanza verso l’altopiano.

L’esercito di liberazione completa la propria espansione quando giunge a controllare i territori che avevano in passato costituito la colonia italiana di Eritrea. Dopo trent’anni di lotta e secoli di subordinazione, nasce uno nuovo Stato indipendente.

Il movimento di liberazione nazionale è il pilastro fondante dell’organizzazione politica del Paese. Il leader del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (Fple) è Isaias Afewerki, l’attuale presidente dell’Eritrea. Il regime di dittatura imposto al Paese dal 1991 fino a oggi si basa sull’istituzione di una forte gerarchia di stampo militare, in cui il riconoscimento e la legittimazione dei capi si basa sul contributo fornito da ciascuno durante la guerriglia; sul coinvolgimento emotivo e sull’identificazione della popolazione con la lotta di liberazione; sul mantenimento di un perenne stato d’emergenza – praticamente di una legge marziale, stante la continua minaccia di invasione da parte dell’Etiopia e i rapporti conflittuali con tutti i Paesi limitrofi.

Dietro il continuo richiamo all’emergenza da parte delle autorità eritree ci sono elementi di verità. Il permanente stato di conflitto con l’Etiopia è provato dalla guerra di confine del 1998, scoppiata intorno al villaggio di Badme e sintomo del non riconoscimento da parte etiope della sovranità territoriale eritrea. I rapporti tra i due Paesi, tutto sommato buoni nei primi Anni Novanta, sono pessimi da quasi vent’anni, dopo l’adozione da parte di Asmara di una propria moneta (il Nakfa in luogo del Birr etiope), le crescenti tensioni dovute ai già citati confini territoriali e la conseguente rottura delle relazioni diplomatiche e commerciali.

Rottura che ha coinvolto anche la città di Assab, porto naturale di Addis Abeba ma appartenente all’Eritrea.

L’impossibilità di accedere al mare pare essere la causa principale della strategia di assedio portata avanti dall’Etiopia, che mantiene le proprie truppe lungo la frontiera costringendo l’Eritrea a fare altrettanto. Parliamo di due Stati con un peso demografico ed economico completamente diverso: l’Etiopia è il secondo Stato africano per popolazione e il settimo per dimensioni dell’economia; l’Eritrea è al contrario vicina al collasso economico, e la coscrizione obbligatoria permanente ne logora pesantemente il tessuto sociale ed economico. L’isolamento politico e commerciale provocano enormi difficoltà di approvvigionamento e di sussistenza, e la fornitura di elettricità e di acqua è intermittente anche ad Asmara – praticamente assente al di fuori delle aree urbane.

Diritti civili, servizio militare e opportunità economiche

Secondo Human Rights Watch, organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, “l’Eritrea è tra i Paesi più chiusi del mondo; la situazione riguardante i diritti umani resta vergognosa. Servizio militare illimitato, tortura, detenzione arbitraria, e gravi restrizioni circa le libertà di espressione, di associazione e di culto provocano la fuga di migliaia di eritrei ogni mese.”

Nonostante le necessarie premesse circa le recenti vicende storiche del Paese, è innegabile che le condizioni di vita dei cittadini eritrei siano del tutto inaccettabili.

Il quadro è tragico sotto ogni punto di vista: monopolio dei mezzi di informazione, elezioni mai avvenute, Costituzione mai entrata in vigore, controllo delle comunicazioni, spionaggio, istigazione alla delazione, sequestro di ogni oppositore politico, obbligo per i cittadini di sostenere la propaganda del partito – con annesso obbligo di partecipare a tutte le manifestazioni indette dal governo.

Il servizio nazionale permanente sottopone donne non sposate e uomini a un regime di semischiavitù, in cui ciascuno è costretto a lavorare per conto dello Stato a fronte di un salario inferiore al livello di sussistenza. Senza – ovviamente – avere voce in capitolo sul tipo di mansione svolta. Per tutta la vita.

Uno degli effetti collaterali di tale sistema è l’eliminazione pressoché totale di ogni forma di competenza specifica, anzi di ogni forma di competizione economica. Un’intera generazione di individui scomparsa al fronte o all’estero si traduce in un tessuto sociale ed economico completamente disgregato, in cui ogni opportunità di sviluppo è preclusa alla base. L’Eritrea, Paese tra i più tecnologicamente sviluppati della regione nella prima metà del Novecento, è retrocessa, salvo poche eccezioni, a un’infelice epoca pre-industriale. La maggioranza della popolazione è occupata nel settore primario e pratica l’allevamento o un’agricoltura di sussistenza, e i pochissimi che possono permettersi un livello di istruzione superiore o universitario cercano fortuna all’estero.

Prospettive future: composizione etnica e religiosa, situazione geopolitica, possibili scenari

In Eritrea vivono individui di nove etnie diverse, e sono molte anche le religioni praticate, sebbene solo quattro – chiesa ortodossa eritrea, islam, chiesa cattolica e chiesa evangelica luterana – siano riconosciute e ufficialmente autorizzate. Una simile mescolanza di soggettività, nel disastroso quadro dell’odierna di Eritrea, costituisce una polveriera pronta a esplodere. I rapporti tra Eritrea e Sudan hanno vissuto anni di tensione quando Afewerki, sospettando un tentativo di infiltrazione jihadista attraverso il confine sudanese, aveva immediatamente chiuso le frontiere settentrionali del Paese.

L’isolamento è, secondo alcuni, una scelta giustificata dalla preoccupazione di non essere in grado di gestire i flussi in entrata e in uscita di persone, merci, capitali: un Paese debole economicamente e attraversato da un così pesante malcontento precipiterebbe rapidamente in una situazione fluida e caotica dagli esiti imprevedibili.

Va anche detto che il carattere prettamente militare del Paese viene visto da molti Stati come un prezioso cuscinetto in grado di assicurare un poco di stabilità a un’area strategica ma sempre più difficile da tenere sotto controllo. Sudan e Yemen sono percorsi da conflitti di stampo religioso; la Somalia è da più di vent’anni una “terra di nessuno”; e anche l’Etiopia, pur in buoni rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa, è governata da quarant’anni forze di ispirazione comunista, socialista e marxista.

Il mantenimento dello status quo in Eritrea appare perciò strumentale alla conservazione di un certo grado di equilibrio nella regione; poco prevedibili sarebbero infatti le conseguenze di un rovesciamento dell’attuale regime in favore di un’espansione territoriale etiope o di una rivoluzione di matrice religiosa ed estremista.

L’economia eritrea resta in piedi solo grazie agli aiuti internazionali. Questi vengono forniti attraverso canali più o meno ufficiali: da un lato, vengono implementati progetti di sviluppo o programmi di aiuti umanitari curati dalle agenzie delle Nazioni Unite (UNDP e UNOCHA, per citarne due); dall’altro, è lecito pensare che l’Eritrea abbia siglato e continui a siglare accordi bilaterali di aiuto economico con altri Stati e istituzioni internazionali (tra cui l’Unione Europea). Bisogna aggiungere che l’opinione di Afewerki circa gli aiuti è sempre stata piuttosto lapidaria: contributi economici di questo tipo creano dipendenza e condurrebbero l’Eritrea in una spirale di subordinazione. La cooperazione internazionale resta molto faticosa e spesso ostacolata dallo stesso governo, che in passato ha rifiutato prestiti dalla Banca Mondiale e respinto programmi di aiuto. A completamento del quadro, va ricordato che il regime tassa al 2% le rimesse dall’estero che molti eritrei mandano alle proprie famiglie, e che esistono forme di aiuto consistenti, sebbene del tutto informali, facenti capo a reti di solidarietà privata.

Il Paese è vicino al collasso, ed è difficile prevedere cosa succederà nell’era post-Afewerki. Le profonde fratture interne sembrano peraltro aver condotto la classe dirigente verso una timida svolta nella politica estera. Dopo aver espulso – una decina di anni fa – tutte le organizzazioni non governative dal Paese, e dopo aver implementato una strategia diplomatica particolarmente rigida e chiusa, sembra che il governo eritreo sia deciso a ridiscutere parzialmente le proprie politiche migratorie, e ad avviare progetti di cooperazione internazionale che coinvolgano istituzioni estere, pubbliche e private. L’Italia mantiene una posizione di privilegio nei rapporti con Afewerki e i suoi collaboratori (il nostro Paese è il secondo partner commerciale dell’Eritrea), e alcune aziende italiane, ad esempio, hanno vinto bandi dell’Unione Europea finalizzati a dotare alcune zone del Paese di impianti fotovoltaici.

Questi minuscoli segnali non modificano una situazione complessiva complicatissima. La “casa” del popolo eritreo, la “casa loro” dove dovrebbero restare, rimane una dimora del tutto inabitabile; tanto che solo due parole possono adeguatamente definire lo status di tutti i migranti eritrei che giungono in Europa – quando riescono a percorrere tutta la terra e tutto il mare che li separa dalle nostre coste: queste parole sono “profugo” o “rifugiato”.

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