Questo testo nasce come commento a Novacene, l’opera di James Lovelock di recente uscita in traduzione italiana per Bollati Boringhieri (2020, p. 128, traduzine di Allegra Panini).

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Questo commento ha due obbiettivi: mostrare i pochi meriti e le molte problematicità dell’ultimo testo di James Lovelock Novacene. I meriti sono i seguenti: in primo luogo, il tentativo di portare nel dibattito pubblico una riflessione sul nostro tempo presente e sulle possibilità che gli si aprono. In secondo luogo, il ricapitolare alcune delle tesi più interessanti dell’autore, condivisibili o meno, esposte più lungamente in alcuni testi del passato, come quella di Gaia. L’interesse di tale idea, soprattutto in testi di altri autori come Latour che comunque leggono con lenti proprie tale concetto, non mi pare compromessa dai numerosi problemi presenti in Novacene. Chi volesse usare questo libro per criticare i lavori di Latour commetterebbe un errore metodologico decisivo. Avendo concluso la parte sui meriti, passiamo ora a quella sui problemi ed i rischi del testo in oggetto.

Un libro che voglia nominare non l’era presente, ma addirittura una di là da venire, di cui l’autore vede i segni nella nostra condizione storica, si pone già da subito più nel campo profetico che in quello scientifico/storico/filosofico. Lovelock non ha peraltro nessun problema ad ammettere la centralità della sua formazione quacchera, rinvenibile ad ogni pagina del testo. Egli, tuttavia, non rinviene in questo alcuna problematicità. Questa possibilità di previsione del futuro gli è forse donata dalla veneranda età di 101 anni, che ad ogni pié sospinto ci viene ricordata, oltre che dall’autore (il che è legittimo), da tutti i commenti e le recensioni festose che, almeno in Italia, hanno accolto la pubblicazione di Novacene, quasi fosse un argomento utile in ordine alla valutazione del testo. Sicuramente, Lovelock non ha dubbi di potere guardare alla storia “dall’alto”: egli, letteralmente, vola sopra il processo storico, sia naturale che “culturale” (ci sia concesso l’uso di questa falsa distinzione) cogliendo i futuri punti di svolta e battezzando l’era ventura della storia del cosmo. Visione di sorvolo, avrebbe detto qualcuno coi i piedi un po’ più piantati per Terra, visione senza occhi, perché in grado di cogliere Storia-Natura / Presente-Passato-Futuro in un colpo solo.

Che a James Lovelock sia data questa capacità di previsione del futuro non ci deve stupire. Egli conosce la Legge dell’Essere. Sa la sua direzione, conosce il suo svolgimento. Le sue Tavole, a differenza di quelle di Mosé, non contengono che una sola legge, che però ci suona stranamente familiare: “Sii potente.” Tale legge si applica alla Vita nella sua forma più generale e metafisica. Egli sa persino, come la protagonista di Melancholia di Lars Von Trier, che non vi è Vita fuori dalla Terra. Possiamo immaginare che ciò gli sia stato rivelato, come alla giovane Justine.

Per James Lovelock, che essendo profeta può risparmiarsi la conoscenza degli ultimi cento anni di scienza biologica e confutarli con la sua sapienza, l’Essere, che si manifesta come Vita sulla Terra, non mira che ad assumere forme sempre più “potenti”. La “potenza” di Lovelock non ha nulla a che vedere con quella di Spinoza. Potenza è per lui velocità, capacità di calcolo nel minor tempo possibile, resistenza all’ambiente, possibilità di trasformare l’universo intero in bit di informazione. È, al contrario della potentia spinoziana, in-capacità di essere affetti, autonomia assoluta dell’ente, esito di questo movimento vitale, in cui per Vita si intende una sorta di Spirito, tutto teso all’efficacia. A partire da questa, per la verità non troppo elaborata, prospettiva metafisica, la tesi di Lovelock in Novacene è presto detta: nei prossimi anni i cyborg, termine con il quale intende esseri integralmente macchinici dotati di straordinaria potenza (nel senso riportato sopra), prenderanno il controllo del pianeta e lo gestiranno/progetteranno (engineering) in modo da risolvere la crisi ecologica globale. Non più un Antropocene, quindi, ma un Novacene. Tali macchine sono l’esito ultimo di una storia di cui l’umano resta il protagonista in virtù del suo essere anello di congiunzione tra un passato organico ed un futuro integralmente inorganico: l’importanza dell’essere umano consiste nell’essere il nuovo Creatore. Come per i moderni di cui parla Reinhart Koselleck, per Lovelock il presente non ha alcun valore: solo il futuro, solo l’essere al servizio di quella Storia cosmica di cui lui ha la chiave e di cui pensa di restituirci il ritmo, è ciò che conta e che dona senso al presente. Apparentemente, uno dei pochi elementi interessanti che di solito hanno queste visioni (ad esempio, quella di Nick Land) del futuro come regno dell’inorganico e del macchinico totale è il radicale anti-antropocentrismo. Se il mondo diviene macchina, almeno non si può considerare l’uomo come centro dell’universo, ma solo come parte inessenziale di esso. Lovelock riesce nella mirabile impresa di non avere nemmeno questo merito. Per lui gli esseri umani sono prescelti per portare il cosmo alla propria auto-coscienza, in quanto unici esseri in grado di avere accesso all’informazione. Il riferimento qui è evidentemente al gesuita Teillard de Chardin, con la sua idea di una Noosfera e di un’umanità “avanguardia” del creato stesso: a differenza dell’autore francese, però, il ruolo del Creatore è ricoperto dall’umanità stessa, inventrice delle macchine.

Questi cyborg saranno il nuovo manto inorganico che Gaia indosserà, sostituendolo al debole, troppo compromesso con le cose e con il mondo, troppo poco perfomante, tessuto organico che la costituisce oggi. Sarà questo complesso inorganico, questo mondo interamente tecnico a consentire mediante una geo-ingegneria applicata su scala globale di raffreddare un pianeta. Che pensare alla soluzione del disastro ambientale in questi termini significhi ritenere quest’ultimo un problema tecnico e non un problema etico-politico è qualcosa che Lovelock riconosce esplicitamente: come potrebbe essere diversamente, per chi assume, mantenendoli intatti, tutti i presupposti più caratteristici del pensiero prometeico, allargandoli al piano stesso della storia della Vita? Cosa c’è di più “moderno” e di più “etnocentrico” di pensare che l’essenza delle cose stia nella loro efficacia in termini produttivi, nella loro possibile velocità? Ecco perché la legge di Lovelock “sii potente” ci suonava così familiare: è la stessa legge che sentiamo ripetere (secondo questa specifica declinazione di potenza) da diversi secoli. Da questo punto di vista, il Novacene di Lovelock non fa problema, almeno a chi scrive, perché troppo simpatetico verso i cyborg o verso la tecnica tout-court. Al contrario: il motivo per cui ci lascia perplessi è che questi cyborg assomigliano pericolosamente a quanto viviamo da diversi secoli, con sempicemente un grado in più di efficacia. Se quello che conta non è chiedersi se ci piace o no la tecnica, ma quale forma di tecnica vogliamo, allora il Novacene di Lovelock ha ben poco di nuovo: la forma della sua tecnica è semplicemente quella che oggi attraversa le Valli per spezzarne l’equilibrio precario, contro cui lottano le/gli abitati di quelle stesse valli. La abbiamo già vista.

Non si fa peraltro un gran servizio a pensatrici e pensatori più attenti di Lovelock sul tema del cyborg pensandolo secondo i caratteri della potenza, dell’assolutezza (nel senso di scioglimento) dal mondo materiale ed organico e come piano artificiale contrapposto ad uno naturale. Se può comunque essere considerato problematico il cyborg di Donna Haraway, non ci sono dubbi che esso si definisca a partire dalla sua mescolanza con l’organico, dal suo sporcarsi continuo di una materialità che non può superare e che lo costituisce, a cui non si congiunge per potenziarla o portarla al di là di sé stessa. Esso non sorveglia e non controlla assolutamente niente (come Lovelock spera per le sue macchine), ma incontra l’organico all’interno di sé stesso. Ne conosce l’indomabilità. Esso è una figura della parzialità e quindi della possibilità, non della potenza. Figura dell’Antropocene e non del Novacene lovelockiano, era pulita, asettica, liberata dal male dell’organico. Se infatti l’Antropocene è buono, non è certo per il motivo che dice Lovelock, cioè perché in esso si realizza l’essere-prescelto dell’umanità come nuovo Creatore della vita elettronica che “amorevolmente sorveglia” Gaia, ma in quanto era dell’Intrallaccio tra i viventi e una dimensione tecnica che viene riscoperta come da sempre possibile sul fondo della Natura stessa, in quanto era del rapporto assolutamente organico, immondo, riscoperto come fondo di ogni esistenza, anche quella dei cyborg, soprattutto la loro. Di fronte a tale “riscoperta” si è potuto gridato di una gioia nuova e non certo di fronte a quella di Lovelock, che non è affatto una scoperta essendo sia la ricerca della potenza sia la distinzione tra natura e cultura il cuore di una parte della modernità. Di fronte al Novacene di Lovelock si può solo sbadigliare di noia.

Sintomo di questa visione dall’alto che viene qui rinvenuta in Lovelock è un ulteriore passaggio. Come nella visione biblica, per Lovelock la conoscenza viene dalla caduta. Questo significa che egli, insieme purtroppo a molti altri interpreti di ben più elevato valore, ritiene che solo oggi, in vista della crisi ecologica (per lui preludio al paradiso terrestre macchinico) gli umani si rendano conto del loro rapporto con la sua vecchia Gaia. Tralasciando il fatto che, per lui, la presa in carico di questo rapporto consiste nella strutturazione di un dominio assoluto di un meccanico-della-potenza su di essa, questo significa che per Lovelock solo oggi noi impariamo, improvvisamente, di vivere in rapporto con ciò che ci circonda.

Ecco il massimo esempio di un a riflessione di sorvolo, da intellettuale nella torre d’Avorio: in realtà i popoli hanno sempre lottato contro la distruzione dei loro ecosistemi, noi non abbiamo scoperto nulla. Semplicemente, l’allargamento a scala globale della crisi ecologica ci porta a tale consapevolezza mondiale. I popoli che abitano e che lottano non hanno bisogno di Lovelock, che peraltro gli chiede di abbracciare tutto quello che ha portato i loro eco-sistemi alla catastrofe, per sapere del loro rapporto alla Terra. Noi sappiamo in modo pre-riflessivo, già da sempre, che viviamo in un mondo, per quanto ne dicano le nostre filosofie e i sogni di distruzione che animano il capitalismo globale. È probabilmente vero che noi non pensiamo abbastanza radicalmente al fatto che siamo costitutivamente in un mondo naturale, che lo abitiamo. Ma lo abbiamo sempre e comunque vissuto; l’essere umano non fa altro che abitare. Tale consapevolezza emerge, è vero, quando il circolo vitale viene spezzato, ma questo non succede per la prima volta oggi; essa è sempre emersa, nel corso dei secoli, quando gli specifici ecosistemi venivano distrutti per i motivi più vari.

Perché un commento ad un libro del genere, al quale, evidentemente, non si riconosce qui un grande valore?

Per due motivi. Il primo è che, come spesso accade con questo genere di lavori su un futuro-tecnico, il presente testo è stato accolto tutto sommato calorosamente nel nostro Paese, anche in ambienti in teoria critico-radicali che ne lodavano il “rigore scientifico” ed il “coraggio”. Non è parso, a chi legge, di rinvenire niente di simile ed era giusto mostrare una linea di lettura differente e radicalmente opposta a questo entusiasmo, sulla cui povertà si dovrebbe riflettere.

Il secondo è che questo testo ha un altro merito oltre a quelli indicati all’inizio. Insegna cioè almeno due cose sul lavoro di analisi del presente da svolgere oggi. La prima è che forse è giunto il tempo di smettere di delegare tale analisi (e quindi, in una misura non metafisica come quella di Lovelock, la prognosi) a chi non è in grado di svolgerla solo perché ha meriti “scientifici” genericamente intesi. Che lo si chiami atteggiamento critico, pensiero o più semplicemente e classicamente filosofia noi necessitiamo di un modo di ragionare e di riflettere sui processi che sappia mettere in crisi i propri presupposti, senza assumerli continuamente come dati as-soluti, astorici, come Lovelock fa per tutto (crescita, potenza, futuro, etc.). Se ne ha abbastanza di questo razionalismo totalitario che si trasforma in una forma di fede religiosa, in quanto del tutto incapace di esaminare i propri assunti. Un pensiero all’altezza di tutta una serie di sfide che il presente ci pone deve avere questa capacità auto-riflessiva, per potere leggere la realtà al di là degli schermi che inevitabilmente lo stesso processo storico gli pone. Quello che emerge da Novacene è in prima battuta, a parere di chi scrive, l’urgente necessità di un simile lavoro.

La seconda cosa decisiva che mi pare emerga da Novacene è non solo l’insufficienza, ma la problematicità possibile che un’età avanzata può oggi presentare per questo genere di analisi. Si diceva che l’età centenaria di Lovelock è vista, da lui e dai suoi recensori, come un grande pregio per lo svolgimento dell’argomentazione. A chi scrive pare in realtà un problema. Lovelock è un uomo del ‘900, che ha lavorato alla NASA nel corso dei Trenta Gloriosi. È permeato, come buona parte della sua generazione, da un vero e proprio mito del progresso e della crescita. Con questo non si vuole certo dire che tale piena aderenza a quel modello sia semplicemente questione di età. Le più grandi fonti di ispirazione anche delle righe che precedono vengono da uomini che sono morti nel 1960. Quello che si vuole sostenere è, piuttosto, che è realmente necessario un salto fuori dal ‘900 se si vuole pensare in modo nuovo la crisi ecologica: salto che Lovelock non fa minimamente. Che egli voglia insegnare ai movimenti globali che l’Antropocene è buono perché ha significato crescita e progresso è sintomo di questo. Forse è tempo di lasciare spazio non solo a chi è nato con sopra la testa il peso della crisi ecologica globale, ma a chi ci vive dentro, indipendentemente dalla sua età. Per fortuna i movimenti globali sono più avanzati nella loro analisi, di Novacene. Che Lovelock ci lasci superare i suoi miti verso qualcosa di più Terrestre. Che egli ci lasci rimanere a contatto con questa dimensione brulicante, sporca, organica, parziale, “debole” che è la vita senza la Maiuscola.

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